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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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La casa delle grandi donne – Meir Shalev
La casa delle grandi donne – Meir Shalev
Casa editrice Frassinelli

Sono cresciuto orfano di padre, di zii e di nonno, in casa con cinque donne
– mia madre, mia nonna, le mie due zie e tu, mia pestifera sorella – che mi
hanno allevato, accarezzato, nutrito, raccontato ricordi e posto davanti al
muro del corridoio”.
Così Rafael, unico uomo sopravvissuto fuggito da Gerusalemme per condurre
una vita solitaria nel deserto del Negev come impiegato della Compagnia
delle acque, ricorda la tirannia della “grande madre”, un insieme di “10
occhi, 10 seni e 10 braccia” che lo hanno allevato e protetto, tra storie
spassose, proverbi e lacrime. La casa delle grandi donne (Frassinelli), il
nuovo romanzo dello scrittore israeliano Meir Shalev, è costruito sulle
storie esilaranti di quattro generazioni di donne straordinarie sullo
sfondo di un accecante deserto.
Panizza: Una famiglia verosimile oppure l’espressione di un Israele
scomparso?
Shalev: Una storia reale, direi. Appena uscito il libro, ho ricevuto
lettere di uomini cresciuti nello stesso modo, convinti che quella fosse
anche la mia storia, e proponendomi di formare un’associazione di figli
delle “grandi donne”.
Panizza: Come se Israele avesse perso intere generazioni di uomini.
Shalev: La fragilità della condizione maschile in questo Paese è un tema
che mi è caro, perché accanto a strascichi macisti vive la continua paura
dell’assassinio, del ferimento, della chiamata alle armi.
Panizza: I Mayer però non muoiono in modo particolarmente eroico: niente
guerra, niente attentati. E’ una scelta fatta per non inserire elementi
d’interpretazione politica?
Shalev: Sì.Non mi hanno mai convinto i libri a tema, e tanto meno i libri
politici.Non mi piace che i miei personaggi siano simbolo e metafora di
rivendicazioni o denunce. Io cerco delle storie, e questo marca la
differenza tra chi ha qualcosa da dire e chi ha qualcosa da raccontare. I
primi, fanno i politici. I secondi, gli scrittori.
Panizza: Il libro è anche un canto dedicato alla dura bellezza del
territorio israeliano.
Shalev: Credo che anche per motivi di simbologia biblica il deserto
rappresenti il buio della storia d’Israele, un luogo di punizione in attesa
della terra promessa. E’ un rimosso sociale, nonostante rappresenti metà
del nostro territorio. Una volta ho portato Amos Oz nella zona
settentrionale del deserto del Negev. Era sconvolto, entusiasta: non
l’aveva mai visto.
Panizza: Invece è molto duro il ritratto di Gerusalemme, “città di orfani,
ciechi e pazzi”.
Shalev:Una città deprimente, piena di fanatismo che viene abbandonata dalle
giovani generazioni laiche che non sopportano di vivere con questo peso
violento della storia. Io ci sto sempre meno, guardo i templi e mi sembrano
centrali nucleari, sento le radiazioni. Ho comprato una piccola casa nel
deserto. Vivrò sempre più spesso laggiù.

Raffaele Panizza
Repubblica delle Donne

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