Il FOGLIO di martedì 7 febbraio 2006 pubblica un articolo che riscostruisce la campagna di menzogne alla base dell'esplosione della "rabbia" islamica contro le vignette danesi. Ecco il testo:
Roma. Adolf Hitler è a letto con la piccola Anna Frank. “Mettici questo nel tuo Diario, Anna”, dice lui con un rantolo di soddisfazione. E’ la vignetta diffusa in Olanda da un’organizzazione islamista, la Lega araba europea, in risposta alle vignette sul profeta Maometto pubblicate per la prima volta in Danimarca. “Lo facciamo per la libertà d’espressione”, ghignano. E’ la parte olandese – quindi europeizzata, atrocemente moderna e lesta nello sbatterci in faccia la frittata culturale – del sollevamento islamista che infuria da cinque giorni. Venerdì, a Londra, le proteste si sono ritagliate lo spazio più consueto di una manifestazione di massa – con le divise dei bobby britannici ad aprire e chiudere come da regolamento municipale il corteo – che invocava “decapitazioni per chi offende l’islam”, “chi insulta il profeta deve essere macellato”. “Preparatevi all’Olocausto, quello vero”. A soltanto otto mesi dalle stragi nella metropolitana della città, i cartelli degli islamofascisti di Regent’s Park ammonivano di guardarsi le spalle, perché in Gran Bretagna – per vignette pubblicate in Danimarca – sta arrivando un altro giorno terribile come il 7 luglio. Sono pronti altri “fantastici quattro” – come sono ricordati i quattro attentatori suicidi – e democrazia e libertà d’espressione “devono andare all’inferno”. All’antisemitismo compiaciuto degli islamisti olandesi e al ringhio di avvertimento osceno, gutturale e fatto da vicino di quelli di Londra non ci sarà reazione alcuna. Come è ovvio. Non seguiranno assalti e devastazioni di ambasciate straniere come a Giacarta, Damasco e Beirut. Non seguiranno attentati esplosivi contro le moschee, come quelli compiuti domenica scorsa contro le chiese in Iraq – lo stesso consiglio degli ulema iracheni li ha legati al caso delle vignette danesi – che hanno fatto tre morti. Non seguiranno violente proteste di massa, come è successo nelle capitali di tutti i paesi islamici del mondo. Nel rapporto asimmetrico tra occidente e islam c’è un senso soltanto, e quando questo è invertito, come hanno fatto avventatamente i redattori dello Jyllands Posten, si consegna semplicemente nelle mani sbagliate il pretesto per una dimostrazione di potere. Non è soltanto questione di reciprocità mancata. C’è un secondo elemento. In occidente c’è un serpente nascosto nell’erba alta delle libertà civili, una quinta colonna islamista, che lavora indefessamente per creare il caso-scontro, come è oggi quello delle vignette sul profeta Maometto. Le rivolte di questi giorni sono tutt’altro che spontanee e improvvisate, a ben quattro mesi dalla pubblicazione. Quando nel 2002 il concorso di Miss Mondo, temporaneamente spostato in Nigeria, fu ricacciato a Londra dopo decine di morti per un commento incauto su di un giornale (“Chi eleggerebbe Maometto tra le belle concorrenti?”) fu sanguinosissima questione locale. Oggi, anche se i manifestanti non ne hanno la percezione, sono i personaggi ciechi dell’atto finale di un piano preparato a lungo. Evocare il demone della violenza islamica è un lavoro che richiede costanza, tempo e organizzazione. Facile immaginarsi la soddisfazione di Abu Laban, l’imam di una moschea di Copenaghen e amico del numero due di al Qaida, Ayman al Zawahiri, da cui tutto è partito, mentre stringe tra le mani quello sventurato numero dello Jyllands Posten del 30 settembre scorso. Da lì ha avuto buon gioco. Ha girato il medio oriente per creare e diffondere la “consapevolezza” dell’oltraggio a mezzo stampa al Profeta. Sotto braccio aveva un dossier, ora spuntato fuori, in cui abbondano i particolari falsi. C’è scritto che in Danimarca la religione islamica non è riconosciuta, e che non si possono costruire moschee; ci sono tre vignette aggiunte ad arte per scatenare la rabbia dei suoi interlocutori, tra cui quella di un musulmano violentato da un cane sul tappeto da preghiera. Il portavoce della Società islamica danese, Ahmed Akkari, sostiene di non conoscere l’origine precisa delle vignette aggiunte. Secondo Akkari, sarebbero state mandate in forma anonima a musulmani danesi. Ma quando gli è stato chiesto di dire i nomi dei riceventi, perché potessero confermare, ha rifutato. Nel dossier si spiega anche come, a ulteriore e insanabile sfregio della comunità islamica, la Danimarca abbia ospitato per un premio Ayaan Hirshi Ali, “autrice di un film che degrada l’islam” (lo stesso film, Submission, il cui regista Theo van Gogh è stato ammazzato per punizione). Ahmed Abu Laban non è una esclusiva della Danimarca. E’ stato anche da noi. Nel 1995 ha partecipato al nono congresso dell’istituto culturale islamico di viale Jenner. Il suo sermone è finito in una videocassetta registrata e poi divulgata fra le moschee del “cerchio magico”: Milano, Cremona, Varese. Tutte finite nelle indagini giudiziarie relative alle cellule fondamentaliste in Lombardia. La cassetta, segnata nelle indagini come T48, è una delle prove usate nel dibattimento in corso contro il gruppo cremonese, quello accusato da un pentito marocchino di aver progettato gli attentati contro il Duomo di Cremona e la stazione della metropolitana milanese alla fine del 2002. Il video con le prediche di Laban dimostra l’attività di indottrinamento ideologico e di proselitismo a favore del jihad. Secondo gli investigatori italiani, il tema centrale della conferenza riguardava i doveri dei musulmani nei paesi dei miscredenti, i modi per difendersi dalla contaminazione occidentale e il senso (distorto) della pietas per i fondamentalisti. Abu Laban e i predicatori presenti usarono parole durissime contro ebrei e cristiani. L’islam, dicevano, è una religione di clemenza e per questo bisogna avere pietà dei miscredenti. “Bisogna combatterli, ucciderli, lapidarli: solo così si può aver pietà di loro. Il jihad con armi e fuoco ha come obiettivo di togliere il marcio da questa terra, perciò è questa la pietà: salvare il mondo dai miscredenti”. Alla conferenza di Milano si invitavano i musulmani italiani a ribellarsi, e sono parole che spiegano bene il calduccio sotterraneo in cui maturavano le proteste di oggi. “Loro accettano i musulmani fra di loro, accettano lo chador e lo stile di vita islamico, ma in cambio pretendono che noi accettiamo la loro religione e la loro libertà individuale. Ciò è impossibile: l’islam non può accettare nessuno che non adori Allah”. Gli imam intimavano: “Un musulmano non può rispettare i democratici in Europa, altrimenti diventa uno di loro. Deve combattere nel jihad e prendere le armi”. In attesa che le minacce di rappresaglia si concretizzino, la collera islamica ha tuonato in tutta Europa. Ma soltanto in forma spuria e mediata. Qui, a parte l’ammazzamento, per molti evidentemente occasionale, del regista Theo van Gogh, qualche allarme bomba – l’ultimo nella redazione di France Soir, il quotidiano parigino che ha ripubblicato le vignette per solidarietà con i colleghi danesi – e gli attentati andati a segno come alla stazione di Atocha, le regole della convivenza impongono ancora un minimo denominatore di civiltà. Ieri in Afghanistan due persone sono rimaste uccise negli scontri tra la polizia e i manifestanti impazziti. Un ragazzo quattordicenne è morto durante le manifestazioni in Somalia. Una pattuglia dell’esercito di Copenaghen in Iraq – impegnata nel soccorso di un gruppo di bambini rimasti feriti in un incidente stradale – è stata attaccata, ma è riuscita a scampare, sparando, alla minaccia dell’esercito islamico di “fare a pezzi ogni danese che ci capiterà tra le mani”. Il giorno prima i dieci piani del consolato danese a Beirut sono stati distrutti, nonostante la polizia fosse a conoscenza con ore d’anticipo dei piani degli assalitori. Le violenze sono ben presto sfociate, come al tempo della guerra civile, in scontri tra musulmani e cristiani maroniti. Sabato era toccato alle ambasciate di Danimarca e Norvegia a Damasco essere devastate e date alle fiamme, in quello che alcune agenzie perseverano nel chiamare “cartoon row”, il tafferuglio sulle vignette, come se si trattasse di litigio tra parenti a un banchetto di nozze. I manifestanti – è un dettaglio che spiega quanto la loro sia una collera eterodiretta – bruciavano per errore la bandiera svizzera, che come quella danese è rossa e ha una croce bianca. Venerdì la violenza aveva investito il sud-est asiatico: nelle Filippine sei cristiani sono stati uccisi a raffiche di mitra da militanti islamici e gli uffici della rappresentanza danese a Giacarta hanno subito un assalto. Il giorno prima era stato il turno degli irregolari nei territori palestinesi di aprire la caccia al danese. Le minacce contro Copenaghen si sono inseguite dalla Croazia alla Somalia, dalla Cecenia, dove le organizzazioni umanitarie danesi sono state espulse, alla Nuova Zelanda, che teme la vendetta della piccola comunità di musulmani. La ritorsione feroce, innescata dalla regia degli estremisti, non si compie soltanto nelle spoglie del popolo furente. Lo scontro di civiltà ha aperto anche un fronte economico. Secondo la tv iraniana, il ministro del Commercio, Massoud Mir Kazemi, ha annunciato che a partire da oggi “non sarà più possibile chiedere la licenza per importare prodotti di consumo dalla Danimarca”. L’interscambio commerciale tra i due paesi, che il ministro ha indicato in 280 milioni di dollari l’anno, è stato bloccato. “Qualsiasi tipo di trattattiva commerciale o accordo è sospeso, quelli che possono essere cancellati lo saranno”. S’inizia così a compiere quel disegno nel disegno, afferrato al volo dal presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, per incassare i vantaggi politici di questa straordinaria leva di potere rappresentata dall’offesa islamica, con la minaccia di escludere dai vantaggiosi contratti con Teheran i paesi che hanno partecipato alla pubblicazione dei disegni satirici. Ahmadinejad riuscirebbe in un colpo soltanto a punire l’occidente e a indebolire gli avversari interni, tutti coinvolti nei ricchi traffici con l’estero, spostando infine l’attenzione dai pericolosi piani che persegue per dare l’atomica al regime dei mullah.
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