Bernardo Valli incontra Hamas a Gaza, ma, come sempre succede ai giornalisti esperti soprattutto nel criticare Israele, non riesce a porre le domande giuste. Si arrampica sugli specchi per far apparire i leader di Hamas nella luce più moderata possibile, tace su tutto quello che Hamas pensa di Israele. Il titolo a pagina 18 (il pezzo inizia in prima) è addirittura " Gaza il vuoto dopo le elezioni, si incrina il sogno della svolta". Quale sogno ? quello di distruggere Israele ? perchè questo è sempre stato il "sogno" di Hamas. Perchè non dirlo, allora ? Sono domande legittime, che giriamo ai nostri lettori affinche le pongano a Ezio Mauro, direttore di REPUBBLICA, il quotidiano di proprietà dell'Ing.Carlo de Benedetti, la tessera n°1 del futuro partito democratico.
Ecco l'articolo:
CI SONO tante bandiere, slavate, stinte, stropicciate. È come arrivare in ritardo, quando la festa è finita, e tutti se ne sono andati lasciando i resti del banchetto. Gli sconfitti, i responsabili dell´Autorità palestinese, sono introvabili. Alcuni sono partiti in Egitto carichi di valigie (e la gente pensa, spesso a torto, «piene di soldi»). I vincenti non sanno che fare.
Nessuno parla della riunione del nuovo Parlamento che secondo la legge dovrebbe riunirsi entro il 10 febbraio (quindici giorni dopo il voto). Chiedo di vedere uno dei capi di Hamas, quello che dovrebbe essere, stando alle voci, il futuro primo ministro, ma mi dicono che dorme. «Il povero Ismail Haniyeh ha negoziato fino all´alba», mi spiegano. Con chi? «Non lo sappiamo». Un bravo giornalista, Mohammed D., una vecchia conoscenza che mi fa da guida, non osa dirmi: «È il vuoto». Ma glielo leggo in faccia.
Soltanto verso mezzogiorno la città ha un sussulto. La via Omar al Moktar, la strada principale (dedicata al capo libico impiccato dagli italiani negli anni Trenta), si riempie di una folla irta di bandiere, questa volta agitate, svettanti, come se la festa riprendesse all´improvviso. La folla, appena uscita dalle moschee, dopo le preghiere del venerdì, protesta per i fumetti pubblicati in Occidente, e giudicati sacrileghi perché raffiguranti il Profeta. L´annuncio della manifestazione ha provocato la prudente partenza di alcuni tra i rari europei che vivono a Gaza. Uomini mascherati agitano i mitra, riproducendo le sole, solite immagini in cui la società frantumata si riconosce nei momenti difficili, disperati.È l´estremo ricorso romantico, non per tutti soltanto simbolico, all´azione. Qui, in questo lembo di Palestina non più occupata dallo scorso settembre, non si tratta tanto di una risposta alle «bestemmie» occidentali, quanto della reazione al rifiuto dell´ancora caldo risultato elettorale, da parte dei potenti della Terra. Un´esplosione di collera, simile a un ictus.
Presto in via Omar al Moktar restano, solitarie e afflosciate, le bandiere gialle di Al Fatah, il partito perdente, quelle verdi di Hamas, il partito vincente, e quelle multicolore nazionali palestinesi. Si alternano, fitte, appese alle finestre, ai balconi, ai lampioni, malmenate dal vento, dal temporale mediterraneo che si abbatte sulla città. Migliaia di manifesti, con le facce stralunate dei candidati, coprono i muri anche nei vicoli di terra battuta che corrono verso le spiagge, dove si rischia di affondare nelle pozzanghere o nei rifiuti fino al polpaccio.
Le elezioni del 25 gennaio avevano creato euforia. La gente frustrata, umiliata, pensava di avere infine la parola. Il voto espresso in libertà conserva una sua forza magica, anche se non garantisce la democrazia. Il successo di Hamas, l´opposizione, era l´annuncio di una svolta: era la punizione di Al Fatah, il partito al potere, colpevole di corruzione, certo, ma anzitutto incapace di far valere la dignità e i diritti dei palestinesi, di fronte a Israele e al resto del mondo. La sorpresa di quel risultato ha mozzato il fiato alla gente. C´è stata la festa. Una festa percorsa da un´ebbrezza venata dal dubbio, dal timore di avere osato troppo. Subito è arrivato infatti il verdetto del mondo che conta: il rifiuto di riconoscere un governo di Hamas, il vincitore. A meno che non cambi la pelle e le idee. All´euforia è succeduto lo smarrimento.
Così, sulla scena svuotata, sono rimaste le bandiere lavate dalla pioggia e sbatacchiate dal vento. E i manifesti con le facce dei candidati appiccicati ai muri.
Uno dei candidati eletti, Ahmed Baher, mi riceve di primo mattino nella sua casa, anch´essa addobbata con bandiere, quelle verdi di Hamas, e con alle pareti i ritratti di decine di dirigenti del partito religioso morti nell´Intifada. Secondo Mohammed D., il mio accompagnatore, gli israeliani ne hanno ucciso seicentocinquanta. Ahmed Baher ha 57 anni, la barba bianca, uno sguardo inquisitorio, via via meno sospettoso, senza mai essere cordiale. Insegna lingua e letteratura araba e mantiene l´educato distacco di un professore poco incline alla confidenza. Neppure lui sa quel che sta accadendo. Non sa quando si riunirà il nuovo Parlamento, né se ci sarà un governo di tecnici, per facilitare i rapporti con Israele e i paesi che rifiutano di trattare con Hamas, dedito al terrorismo e contrario a riconoscere lo Stato ebraico. Aspetta che si faccia vivo Mahmud Abbas (Abu Mazen), cui spetta come presidente dell´Autorità Palestinese, in sostanza come capo dello Stato, di designare il primo ministro. Ma per ora di Mahmud Abbas non ci sono notizie.
Viaggia tra Amman e il Cairo. O è rinchiuso a Ramallah. Dove la gente di Gaza non può andare, perché Israele nega un passaggio tra i due pezzi di Palestina.
Nell´attesa di Mahmud Abbas, il professor Ahmed Baher non allarga spazientito le braccia. Si limita a scuotere la barba. Che quasi vibra quando gli chiedo se Hamas, adesso che ha vinto le elezioni ed è sul punto di esercitare il potere, riconoscerà lo Stato ebraico. Condizione posta, oltre che da Israele, dalle potenze occidentali, e persino dal governo egiziano. Senza contare Al Fatah, principale componente dell´Olp e partito sconfitto alle elezioni, dopo quasi quarant´anni di potere. Il professore mi chiede a sua volta: «Mi sa dire cosa ha ottenuto l´Olp per avere riconosciuto Israele?». Dopo una breve esitazione mi guarda fisso e scandisce: «Hanno preso le nostre case, ci hanno lasciato soltanto con la chiave in tasca, e per questo dobbiamo riconoscerli?».
All´obiezione che avendo accettato di partecipare alle elezioni Hamas è entrato in un processo politico, il quale esclude l´uso delle armi e impone la ricerca di un compromesso, precisa subito che Hamas «impugnerà con una mano le armi e con l´altra opererà in Parlamento». È lo slogan del partito. Al quale aggiunge: «Non abbiamo scelta, poiché il nostro Paese è occupato». Anche queste parole fanno parte del linguaggio ufficiale di Hamas. Il professore Baher è ligio alla linea ufficiale. Si scompone soltanto quando gli faccio notare che essere un partito religioso, prigioniero della teologia, barricato nei dogmi, rappresenta un grosso problema politico. Reagisce dicendo che « la religione mette in contatto con Dio e Dio ci fa più forti». Già ma se Dio impedisce di riconoscere Israele, e questo riconoscimento è una condizione per trattare con Israele, il processo politico in cui Hamas è entrato partecipando alle elezioni, è bloccato fin dall´inizio. «Non lo è - dice - perché noi siamo pronti a concordare delle tregue, anche lunghe, siamo pronti a trattare, e a compiere dei passi graduali». Non però, resta sottinteso, a legittimare lo Stato ebraico insediatosi in Palestina. Tiene comunque a precisare: «Noi non siamo fondamentalisti come quelli di Al Qaeda. Dei quali abbiamo condannato molte azioni. Siamo Fratelli musulmani, e come tali siamo in una posizione religiosa che potremmo definire centrista».
Una posizione che basta per paralizzare la situazione.
Neppure Hamas si aspettava una vittoria elettorale tanto decisiva. Non si aspettava di dover governare da solo. Del resto non lo esige. Vorrebbe un governo di coalizione con Al Fatah. Ma il partito sconfitto rifiuta sdegnoso. Hamas esige il controllo dei sessantamila e più uomini dei servizi di sicurezza, formalmente dipendenti da Mahmud Abbas, in quanto presidente dell´Autorità palestinese, e comunque comandate da uomini come lui, Mahmud Abbas, di Al Fatah. Forze pagate per lo più con gli aiuti occidentali (europei) adesso condizionati alla rinuncia all´uso delle armi e al riconoscimento di Israele, che Hamas rifiuta. L´equazione è per ora irrisolvibile. Così sembra in questi giorni a Gaza, prefigurazione di una Palestina libera, in quanto non più occupata, ma senza governo e senza risorse. Non dico che dieci giorni dopo le elezioni sono diventate un incubo. Ma potrebbero diventarlo.
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