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Il Foglio Rassegna Stampa
03.02.2006 Le vignette proibite dai fondamentalisti
un dibattito

Testata: Il Foglio
Data: 03 febbraio 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione- Yasha Reibman - Gianluigi Paragone
Titolo: «Un amico di Zawahiri ha creato il caso delle vignette sataniche. France Soir sta col direttore cacciato via fax - Vignette Sataniche»

Il Foglio del 3 febbraio 2006 pubblica in prima pagina un articolo che, tra l'altro, spiega chi è ad aver lanciato la campagna contro la Danimarca e la libertà d'espressione:"Un amico di Zawahiri ha creato il caso delle vignette sataniche. France Soir sta col direttore cacciato via fax " Ecco il testo:

Parigi. C’è tensione nella redazione di France Soir. Ieri una riunione-fiume iniziata in mattinata – cui era presente anche Jacques Lefranc, il direttore licenziato il giorno prima – si è conclusa soltanto verso sera. Lefranc è stato rimosso con un fax dall’editore franco-egiziano Raymond Lakah per aver ripubblicato sul giornale le vignette su Maometto – pubblicate la prima volta sul quotidiano danese Jylland Posten – che hanno fatto detonare la violenza degli islamici in tutto il mondo. “La decisione di rimuovere monsieur Lefranc è stata presa in segno di forte rispetto della fede e della convinzioni di ciascuno. Chiediamo scusa a tutti i musulmani indignati o scioccati”, dice un comunicato dell’editore, che non si è mostrato per tutto il giorno. Le facce dei giornalisti tradiscono stanchezza. “Ma la redazione – dice al Foglio il caporedattore centrale Arnauld Levy – è ancora convinta della sua battaglia di libertà. Stiamo con il direttore. Quella di pubblicare le vignette è stata una decisione che abbiamo preso collettivamente, in riunione. E finora non abbiamo ricevuto nessuna minaccia, i lettori sono solidali”. “Ma quale battaglia di libertà – dice al Foglio Alexander Adler, noto editorialista del Figaro – France Soir è un giornale in coma profondo, avrebbe già dovuto chiudere da tempo, ha cercato di salvarsi la pelle con una mossa volgare e faziosa. Tutti quanti dimenticano che siamo in una guerra, quella dell’occidente contro il fondamentalismo islamico. Una guerra più astratta di una volta, che oggi si combatte su fronti meno visibili rispetto al passato”.
Il giornalista francese mette senza pietà il dito nella crisi di France Soir. Un tempo faceva un milione e mezzo di copie al giorno, otto edizioni. Oggi agonizza. “In questi orizzonti di guerra – dice Adler – dovremmo invece concentrarci sull’essenziale: cioè isolare l’integralismo dai moderati e non dare argomenti supplementari ai nostri nemici per avanzare nella lotta. Che uno scrittore come Salman Rushdie si esprima come vuole è un punto sacrosanto. E’ un letterato che ha scritto una grande opera letteraria. E va difeso. Ma questo non è paragonabile con la vicenda delle vignette danesi e col desiderio di scatenare risse da parte della stampa. Che non è accettabile. In questo modo si danno argomenti a vantaggio dei nemici”.
Soltanto nel finale Adler corregge un poco la rotta. “Questa non è difesa della libertà di espressione. Tuttavia dobbiamo fare in modo che il diritto alla libertà di opinione sia mantenuto nel nostro paese. E dobbiamo vigilare per questo. In questa guerra dovremmo essere tutti più consci della posta in gioco”. “Vero, siamo in difficoltà – ribattono in redazione – Ma non abbiamo pubblicato le caricature per farci pubblicità o per provocare in maniera gratuita il mondo arabo. Anzi, siamo una voce storica dei musulmani, e sempre a favore dell’integrazione”.

Lo strano caso del giornale giordano
L’invisibile editore Lakah non è il solo ad avere scelto istintivamente la linea della cautela. Con molto juicio risponde anche Romano Prodi. “Vignette di cattivo gusto – dice al Foglio – C’è uno stile nella stampa. In un periodo di così grande sensibilità su questi problemi, si doveva evitare questo episodio. Sono state estremamente irrispettose. Di cattivo gusto. Inappropriate”. Lo Jylland Posten è stato costretto a presentare le sue scuse, e il suo direttore, Carsten Juste, ha già ammesso di aver perso la battaglia. “Nessuno in Danimarca oserà più pubblicare un disegno di Maometto per almeno una generazione, quindi con grande vergogna devo dire che hanno vinto loro”. Il premier danese, Anders Fogh Rasmussen, a settembre si era rifiutato di ricevere la delegazione di protesta degli ambasciatori islamici: “E’ chiaro come il cristallo quali sono i principi su cui la nostra democrazia è fondata – aveva detto – L’esecutivo non ha alcun potere sulla stampa. Se hanno qualche lamentela, si rivolgano ai tribunali”. Aveva torto. La Danimarca non può scegliere da sola che cosa è meglio veder pubblicato sui propri giornali. Così Rasmussen ha fatto retromarcia e ha acconsentito all’incontro riparatore.
Ma il corpaccione del gigante islamico è stato ormai definitivamente scatenato. Dalla Bosnia Erzegovina all’Indonesia infuriano proteste, minacce di morte, cacce all’uomo e boicottaggi. A Gaza uomini armati hanno occupato – sparando – gli uffici della rappresentanza danese, preventivamente già sgomberati. Da giorni gli osservatori scandinavi della missione europea sul valico di Rafah non si presentano al lavoro. Un cittadino tedesco, reo di avere un aspetto sospettosamente “nordico”, è stato rapito e poi rilasciato. Dipendenti dell’Arla food di Copenaghen in Arabia Saudita sono stati picchiati, al Jazeera mostra prodotti danesi dati alle fiamme in Pakistan e le imprese, senza più un mercato così importante, hanno già licenziato un centinaio di dipendenti.
“Musulmani di tutto il mondo, siate ragionevoli”, ha osato titolare ieri mattina il settimanale giordano al Shihan, nella pagina che riporta tre vignette di Maometto, tra cui quella in cui il profeta indossa un turbante a forma di bomba. “Che cosa crea pregiudizi più pesanti nei confronti dell’islam – chiede in un editoriale il direttore Jihad Momani – queste vignette o le immagini di un sequestratore che taglia la gola a un ostaggio o quelle di un kamikaze che si fa saltare in un pranzo di nozze ad Amman?”. Momani dice di aver voluto pubblicare le vignette “per mostrare alla gente quello per cui sta protestando”. “Si scagliano contro disegni che non hanno neppure visto”, ha aggiunto. Jihad è stato sconfessato dal suo editore e le copie ritirate dalle edicole. Nelle stesse ore, mentre le Brigate al Aqsa inscevano la “caccia al danese” a Nablus, le richieste palestinesi perché i sussidi europei – circa seicento milioni di dollari l’anno – non siano tagliati sono state candidamente reiterate.

Chi è Abu Laban, imam a Copenaghen
E’ tutto partito da un uomo solo. L’imam palestinese Abu Laban, a Copenhagen da ormai dodici anni, è per i danesi la faccia più familiare dell’islam. Negli anni si è saputo costruire l’immagine di religioso moderato e fino a qualche giorno fa era invitato regolarmente nei salotti televisivi e nei meeting ufficiali con alti rappresentanti del governo. Nonostante il danese stentato, Abu Laban era il cocco dell’intelligenzia locale; era l’uomo-ponte tra le due culture. A settembre, quando uscirono le fatidiche vignette, Laban fu pronto a organizzare manifestazioni di protesta, ma il governo e i media danesi, presi dalle elezioni locali, lo ignorarono. L’imam della moschea danese – un qaidista in sonno, pronto ad accendere il fuoco un pericoloso jihad culturale – aveva ben chiara la sequenza delle mosse successive da intraprendere. Dopo aver contattato gli ambasciatori a Copenaghen di vari paesi islamici, a dicembre Abu Laban ha formato una delegazione che si è recata in medio oriente per pubblicizzare la vicenda. I musulmani danesi hanno incontrato i dirigenti della Lega araba e dell’università al Azhar al Cairo, l’antico cuore degli studi dell’islam, per poi proseguire per l’Arabia Saudita e il Qatar, dove sono stati ricevuti dallo sceicco Yusuf al Qaradawi, eminenza grigia dei Fratelli musulmani e star di uno show su al Jazeera in cui dispensa verdetti religiosi. A tutti mostrano i disegni. Furbescamente ne aggiungono altri tre – studiati ad arte per essere massimamente insultanti – con cui Jylland Posten non ha nulla a che fare. Un profeta con la faccia suina, un profeta avvinghiato a un cane e un profeta con la scritta “demone pedofilo”.
Il passato di Abu Laban è nero. Documenti d’intelligence mostrati ieri sera alla tv danese rivelano che è stato per anni in contatto con gruppi terroristi, in particolare con l’egiziana Jamaat Islamiya. Agli inizi degli anni 90 il gruppo spostò parte della sua leadership in Europa, e a Copenaghen s’insediarono Ayman al Zawahiri, oggi vice di bin Laden, e Talat Fuad Kassem, uno dei suoi massimi esponenti. Dalla capitale scandinava i due pubblicavano al Murabitun, la rivista ufficiale dell’organizzazione. Abu Laban divenne traduttore e distributore del mensile, che glorificava l’uccisione di turisti in Egitto, come avvenne a Luxor nel 1997, e incitava allo sterminio degli ebrei in Palestina.

A pagina 1 dell'inserto, vari interventi sul caso, tra i quali segnaliamo quello di Yasha Reibman:

Lo scontro sulle vignette è anche una sintesi del rapporto occidente-islam. Vi è un evidente problema di reciprocità. Non solo perché in Europa, Stati Uniti, Australia e India cantano sereni i muezzin, mentre in Arabia Saudita possiamo scordarci chiese, sinagoghe e templi. Ne sanno qualcosa le millenarie statue raffiguranti Buddha in Afghanistan, spazzate via in un minuto dai missili talebani; dovrebbero parlarci le lastre delle tombe degli ebrei utilizzate in Siria per lastricare le strade; languono in galera i cristiani imprigionati con l’accusa di proselitismo per avere in valigia una copia della Bibbia. Manca reciprocità, non solo perché in Europa, Stati Uniti, Australia e India i cittadini musulmani sono uguali a tutti gli altri, mentre là – dove regna l’attuale lettura maggioritaria della shariah – cristiani, ebrei, induisti e buddhisti vivono in condizione di dhimmi. Vi è un problema di coerenza. Noi parliamo di diritti universali dell’uomo, poi accettiamo le distinzioni che ne giustificano la versione “islamica”. Un modo elegante per noi boccaloni e che servono a meglio tenere le donne in condizioni di servitù e a limitare in quei paesi la libera circolazione delle opinioni. Coerenza. Noi occidentali, dopo la Shoah, abbiamo assunto l’impegno di non dimenticare per meglio impedire che l’antisemitismo riemerga. Eppure accettiamo che i nostri soldi, i finanziamenti dell’Unione europea, siano utilizzati per promuovere un sistema educativo in cui circola nelle scuole letteratura in stile anni Trenta. Accettiamo che i giovani palestinesi vengano educati con programmi televisivi che incitano all’odio contro gli ebrei, descritti come una potente lobby sanguinaria volta a comandare il mondo. Accettiamo che i “Protocolli dei Savi di Sion” siano tra i libri più venduti nella mezzaluna, che facciano bella mostra di sé al posto d’onore nella grande Biblioteca di Alessandria, che costituiscano la sceneggiatura di serial televisivi trasmessi nei canali egiziani o in quelli libanesi di Hezbollah. Non contenti, consentiamo che questi programmi possano essere ricevuti qui in Europa con delle semplici parabole e che su questi si formino anche i ragazzi arabi che con noi vivono. Lasciamo che ancora una volta circolino i pregiudizi contro gli ebrei, così come assistiamo muti che a Teheran si tenga un grande convegno di storici negazionisti. Coerenza. Abbiamo deciso che la pace tra israeliani e arabi sia un nostro obiettivo. Ma non abbiamo preteso che Arafat fermasse il terrorismo, mentre oggi la vittoria di Hamas ci sorprende. Grazie alla fermezza del nuovo cancelliere tedesco, Angela Merkel, l’Unione europea sembra mantenere una posizione netta, ma già si scorgono le prime crepe in questa posizione comune, così come traspare dalle parole di Massimo D’Alema, prossimo candidato alla Farnesina. Però quelle immagini ci indeboliscono C’è infine un problema di comprensione del pensiero altrui, vediamo negli altri una brutta copia di noi stessi. Non ci rendiamo che dall’altra parte del Mediterraneo le grandi masse credono ancora in D-o e non in altro. Per questo ci illudiamo di poterceli facilmente comprare o di riuscire a corromperli. Noi non sentiamo più il limite del sacro e senza difficoltà in Europa prendiamo in giro Gesù e Mosè; senza alcun timore nelle nostre vignette compaiono triangoli e vecchi dalla barba bianca. Non riusciamo quindi nemmeno a capire come possa essere offensivo per i musulmani vedere Maometto sbertucciato. Non è in gioco la libertà di stampa, che va sempre tutelata e che, semmai, da noi è troppo limitata. Il fatto è che le vignette sul Profeta indeboliscono e squalificano l’immagine delle democrazie liberali e del modello che proponiamo. Ma noi pensiamo che le oasi nel deserto vadano coltivate, che la democrazia e il rispetto dei diritti individuali possano attecchire e che questo sia un nostro preciso interesse nazionale. Pensiamo che alle nostre frontiere sia più sicuro avere delle prospere democrazie con cui commerciare, anziché delle paludi esplosive e disperate. Dobbiamo finalmente incominciare a capire l’altro. Con fermezza, rigore e, anche per questo, con rispetto.

 Quello di Gianluigi Paragone, direttore della Padania:

L’aspetto più grave di questa storia di per sé delirante è il tentativo ormai sfacciato di voler imporre le loro idee a casa nostra. Delle due l’una: o ci mettiamo il cuore in pace e ci rassegnamo all’idea di morire sotto il peso della mezzaluna, oppure ci stringiamo attorno alla difesa della nostra identità. Se stiamo in mezzo, rischiamo di morire schiacciati, perché loro – l’islam – non hanno una cultura centrista, di mediazione, di dialogo. Questo è il motivo per cui ho deciso di pubblicare oggi, sulla Padania, le 12 vignette sataniche per cui sta venendo giù il mondo. Quelle per cui i Martiri di al Aqsa hanno circondato la sede dell’Unione europea a Gaza. Quelle per cui gli integralisti stanno minacciando gli occidentali. Quelle che sono costate una minaccia di morte per gli autori delle vignette su Maometto. E che sono costate il posto di lavoro a Jacques Lefranc, direttore di France Soir, che le ha ri-pubblicate. Ha cioè fatto quello che stiamo facendo noi. Non è una sfida, non è una provocazione: è una rivendicazione della libertà. Che ci provino, questi fanatici, ad alzare la testa non tanto contro me o contro questo giornale, quanto contro la libertà che la democrazia occidentale, nonostante tutto, garantisce a chiunque. Nei giorni scorsi la Padania aveva confrontato in prima pagina una delle vignette pubblicate dal giornale danese e la satira di un vignettista come Vauro, che non di rado “usa” le figure della religione cattolica per strappare una risata. Che ci faccia ridere o ci amareggi, che ci offenda oppure che ci veda complici di quella particolare satira, che ci piaccia o no, una cosa è certa: nessuno ha mai chiesto la testa di Vauro. Non il Vaticano, non i fedeli. Nessuno si sognerebbe di tagliargli la gola. Invece, in terra danese, l’islam ha promesso la morte agli autori di quelle vignette e al direttore del giornale. Promessa già mantenuta poche centinaia di chilometri più in là, in Olanda, contro Theo van Gogh. La maschera della moderazione Ora c’è questa storia del licenziamento del direttore di France Soir. A firmare il licenziamento di Jacques Lefranc è stato il suo editore Raymond Lakah, uomo d’affari egiziano padrone del giornale. Editore musulmano con vedute evidentemente abbastanza non larghe per comprendere la posta in gioco. Con la sua decisione, la cultura di un uomo d’affari egiziano, trapiantato in Francia, si è arenata di fronte alla laicità e di fronte alla difesa di valori – quali la libertà di espressione – che l’occidente democratico garantisce. Questo dovrebbe farci riflettere sulle conquiste che potenti uomini d’affari provenienti da paesi islamici stanno facendo sui mercati italiano ed europeo. Mi viene in mente Sawiris, oggi padrone di Wind, cioè di un importante gestore della telefonia e della comunicazione, il quale gestisce dati sensibili tra cui quelli di importanti uffici pubblici. Sawiris non è musulmano ma non credo che, in Egitto dove gestisce importanti affari, non debba trattare con la maggioranza islamica. E siccome lì “trattare” significa fare di tutto per averla vinta altrimenti “bye bye business”, mi viene difficile pensare che Sawiris possa dire no agli sceicchi musulmani e non cedere alle loro pressioni come ha fatto l’editore di France Soir. L’escalation di deliri scaturita da queste vignette è l’ennesima riprova che l’islam moderato, l’islam con il volto del dialogo è una maschera buona solo per entrare in casa di altri e poi imporre le proprie visioni del mondo, le proprie leggi. Se questo non è scontro di civiltà, ditemi voi di cosa stiamo parlando: la civiltà delle libertà contro la civiltà del burqa, inteso anche culturalmente. Non è una provocazione, pensateci. In Olanda vietano la proiezione di un film accoltellando il regista e minacciando la sceneggiatrice; come a dire: valga come monito: non scherziamo, non lo fate più… In Danimarca, minacciano altrettanto contro chi ha disegnato vignette satiriche su Maometto. In Francia per le stesse vignette salta un direttore. Vogliono essere, loro, padroni a casa nostra; loro che erano venuti qui come ospiti ora vogliono dire cosa possiamo pensare e dire. Assurdo. Di contro noi cosa facciamo? Facciamo a gara (la sinistra, per la verità) per candidare i musulmani come parlamentari. Ad andare troppo in là con il dialogo rischiamo di trovarci a parlare da soli…

E infine quello di  Amel Grami, islamologa all’Università Manuba di Tunisi (dichiarazione raccolta da Anna Barducci Majar)

 Le vignette satiriche sul profeta Mohammed hanno leso la credibilità degli intellettuali arabi, che in questi ultimi anni si stanno occupando delle riforme nella regione medio orientale. Non è tanto importante discutere sul buon gusto o sulla leicità delle vignette danesi, ma sulle conseguenze della loro pubblicazione. I fondamentalisti islamici aspettavano da tempo un alibi per continuare ad attaccare l’occidente dai loro pulpiti del venerdì. Dopo la guerra in Iraq, gli estremisti del mondo arabo avevano infatti bisogno di accendere un’altra miccia per infervorare nuovamente le masse della regione. E i disegni satirici in cui appare il volto del Profeta hanno infatti offerto all’ortodossia musulmana il pretesto cercato per accusare l’occidente non soltanto di massacri, ma anche di odio razziale e soprattutto di islamofobia. Il clima che hanno creato i mass media arabi, come al Jazeera, contro le vignette pubblicate in Danimarca, influenza soprattutto chi come me fa un lavoro di ricerca. Le idee fondamentaliste, infatti, attraggono la maggior parte dei giovani e delle persone appartenenti alla classe medio-bassa, strumentalizzati dai mass media e dagli estremisti. Per chi lavora nel campo delle riforme e cerca di promuovere le idee liberali attraverso un dialogo con l’occidente queste vignette sono state un grosso ostacolo. Avremo ancora più difficoltà a trovare spazio per le nostre idee e delle persone pronte ad appoggiarle. Adesso qualsiasi apertura da noi promossa è vista come “peccaminosa” e “collaborazionista”. Non solo, ma l’attacco satirico ai simboli religiosi ha tolto a tutti coloro che si occupano di riformare l’islam anche la credibilità. Il rischio è infatti che vengano associati a dei semplici “denigratori della religione”. Quando, invece, loro stessi si definiscono autentici musulmani. Subito dopo la pubblicazione delle vignette in Danimarca, alcuni giornalisti arabi mi hanno infatti accusata di promuovere idee “pericolose” per l’islam. Secondo loro, le mie pubblicazioni contro la discriminante del velo e sulla riforme in generale sono pertanto una delle cause che portano alla satira contro il Profeta. Pensate alle minoranze cristiane In pochi però nel mondo arabo hanno visto le vignette sotto accusa, ma è il risultato quello che conta. I nostri mass media sono riusciti nel loro intento: ottenere il consenso generale della popolazione non soltanto contro l’occidente, ma anche contro i cristiani. Ora si presenta pertanto un ulteriore problema. Le vignette, infatti, possono creare maggiori attriti nei confronti delle minoranze cristiane nella regione già soggette a persecuzioni e soprusi, come i copti in Egitto. Come difendere adesso i loro diritti? Qualsiasi argomentazione risulterebbe inutile. I fondamentalisti possono adesso infervorare le masse e distruggere le chiese, ricordando la “vignetta blasfema” nei loro sermoni. La questione non è pertanto se queste ripercussioni violino la libertà di stampa. Ma se questo fosse il momento giusto per pubblicare le vignette sul Profeta e se ci fosse veramente la necessità di farlo. Stiamo attraversando un periodo storico difficile e qualsiasi pretesto può essere utilizzato per iniziare una guerra di religione. Il mondo arabo soffre di complessi d’inferiorità e una semplice vignetta può aggravare la ferita dell’umiliazione. Certo, la libertà di stampa deve essere rispettata, ma questo non è un caso che riguarda il diritto d’espressione. Ogni giorno, gli editori dei quotidiani considerano l’influenza che un articolo può avere su un determinato gruppo di opinione nel paese, decidendo se sia meglio pubblicare una data opinione o no. Ma non per questo si dice che è stata violata la libertà di stampa. Lo stesso principio dovrebbe valere nella valutazione della pubblicazione di una vignetta, si tratta di considerare, come per un articolo, se può avere degli effetti negativi o positivi e agire di conseguenza. Ciò non significa vestirsi da talebano, ma pensare ai propri interessi. Inoltre, il mondo arabo non è forse accusato quotidianamente dall’occidente di incitamento all’odio a causa dello stesso tipo di vignette?

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