La Stampa di giovedì 2 febbraio 2006 pubblica un articolo di Avraham B. Yehoshua che riportiamo:
La vittoria schiacciante di Hamas alle recenti elezioni politiche palestinesi ha lasciato tutti confusi. Benché la prima impressione sia di essere stati catapultati indietro nel tempo, di essere regrediti nel processo di pace e di essere tornati a un’assoluta mancanza di dialogo con i palestinesi, gli ottimisti di natura, come me, insistono comunque a vedere una scintilla di speranza. Non c’è alcun dubbio che i sostenitori della pace israeliani, firmatari dell’accordo di Ginevra con i rappresentanti di Al Fatah e dell’Autorità nazionale palestinese, si trovino ora a un punto morto. E la cosa appare ancora più sconfortante in vista delle prossime elezioni politiche alla Knesset.
È tuttavia plausibile che anche senza la vittoria di Hamas l’accordo di Ginevra non avesse molte possibilità di concretizzarsi, per quanto rappresentasse un modello importante, una sorta di faro in un mare tempestoso che illuminava il percorso e dava la speranza di giungere finalmente a un porto sicuro. Ma dopo la vittoria di Hamas tale accordo verrà catalogato nell’archivio delle buone intenzioni, insieme ad altri documenti privi di significato da un punto di vista storico o politico.
Un mio amico, sostenitore della sinistra come me, mi ha inviato tramite fax lo statuto di Hamas datato 1993, con la richiesta di leggerne attentamente ogni parola. E così ho fatto, con grande inquietudine. È un documento terrificante per il suo estremismo religioso, razzista, antisemita, e che nega qualsiasi compromesso. Non parla di rinunce territoriali ma religiose. In altre parole, se noi ebrei vogliamo rimanere nella nostra terra l'unico modo per farlo è convertirci all'Islam (nemmeno una conversione al Cristianesimo sarebbe accettabile). Anche i più grandi pacifisti del mondo quali Noam Chomsky e compagni non accetterebbero un simile ritorno alle norme in vigore nel Medio Evo.
Voglio tuttavia sottoporre all’attenzione dei lettori de «La Stampa» un articolo scritto da un agricoltore della Galilea di circa cinquantacinque anni, attivo in passato nei servizi di sicurezza israeliani. Di tanto in tanto questa persona manda a me e ad altri amici brevi articoli via posta elettronica e anche se non sempre mi trovo d’accordo con le sue analisi e opinioni ritengo questi testi estremamente di buon senso, interessanti, basati su conoscenze precise e su principi e valori etici.
Il nome di questa persona è Dani Reshef e mi ha dato il permesso di pubblicare questo suo breve articolo intitolato: «Forse è un bene che sia andata così».
Ecco dunque un’opinione un po’ più ottimista in questi giorni cupi.
«C'è chi tra noi ha riposto le speranze di pace con i palestinesi e i nostri futuri rapporti con loro in un gruppo di persone corrotte fino al midollo che da anni è alla guida di quel popolo: la dirigenza di Al Fatah. Dello stato di anarchia in cui è caduta negli ultimi due anni la società palestinese sono responsabili quasi totalmente gruppi legati a questa organizzazione o all’Anp, da essa controllata. Indipendentemente dalla vera posizione di Al Fatah nei confronti di Israele, i suoi dirigenti, in sostanza, non hanno fatto che derubare le casse dello Stato, creare anarchia e disgregare il tessuto sociale palestinese.
«Un'eventuale vittoria di Al Fatah alle elezioni politiche avrebbe solo prolungato questo stato di cose in cui da un lato l’Anp persegue una politica di facciata di apertura verso Israele mentre dall'altro compie una serie infinita di attentati terroristici, che sarebbero proseguiti fino alla completa soddisfazione delle brame finanziarie, governative o politiche dei suoi dirigenti.
«La prima vera prova di democrazia palestinese è stata dunque il rovesciamento del governo in seguito a libere elezioni e non mediante l'uso della forza. Non c’è nulla di più importante per il futuro dei due popoli - israeliano e palestinese - che una società palestinese genuinamente democratica. Se esiste una possibilità che il conflitto trovi un giorno una soluzione, ecco che la libera elezione di un nuovo governo rappresenta un'indispensabile pietra angolare per un’evoluzione in tal senso. L’esistenza di un vero processo democratico è più importante di tutte le delusioni, le difficoltà a breve termine e dell'amarezza di chi voleva la “pace ora”, senza avere la pazienza di aspettare che la democrazia palestinese seguisse un suo percorso di maturazione.
«Israele non ha bisogno che Hamas approvi le sue azioni, le sue decisioni, né tantomeno che riconosca la sua esistenza. È Hamas - ora che è responsabile del benessere economico dei palestinesi e della gestione delle loro finanze - ad avere bisogno di un riconoscimento internazionale per sanare l'economia, ripristinare l'ordine pubblico e liberare la società palestinese dal controllo delle milizie armate. Tale responsabilità avrà certamente un effetto moderatore sul suo comportamento, nonostante non sia possibile sapere di quale tipo e in quale misura. Quanto più Hamas riuscirà a ristabilire l'ordine e a sanare l'economia, tanto più si troverà le mani legate nel momento in cui vorrà riprendere gli scontri. È possibile affermare che Hamas, molto più che Al Fatah, sia ora pronto a un accordo provvisorio, ma stabile e prolungato, che non preveda il riconoscimento di Israele ma un'accettazione della realtà e la possibilità di dedicarsi alla ricostruzione della società palestinese. Si è già detto che spesso in Medioriente il provvisorio si trasforma in definitivo e se Hamas sfrutterà questo periodo di calma per armarsi e rafforzarsi militarmente, Israele non dovrà adagiarsi sugli allori ma darsi da fare per accrescere la propria forza.
«L’unica difficoltà che fino a ieri lo Stato ebraico si trovava ad affrontare nel propendere per una definizione unilaterale dei propri confini era l'incognita di un possibile accordo conclusivo con i palestinesi. È indiscutibile infatti che una soluzione concordata sarebbe preferibile per tutti. Ma la vittoria di Hamas accelererà ora la decisione israeliana di stabilire dei confini rapidamente e unilateralmente, poiché è ormai chiaro a tutti che un accordo definitivo con i palestinesi non appare fattibile nei prossimi anni. Questo stato di cose chiarirà anche la linea politica del Likud e di altri partiti di destra. Se costoro insisteranno a perseguire una politica di concessioni unicamente nel quadro di un negoziato per un accordo risolutivo, ecco che il significato di questa scelta sarà prolungare la nostra permanenza ancora per molti anni nei territori occupati.
«La vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi non ha complicato il quadro della situazione ma lo ha semplificato e chiarito. Al posto del governo corrotto, marcio, anarchico e bifronte di Al Fatah, in cui sussistevano un lato governativo e uno anarchico e terrorista, si va delineando un regime dalle linee più chiare, con dei doveri nei confronti dei cittadini e un legame più forte con loro. La società palestinese ha affrontato con successo questa prova di vera democrazia e ha aperto l'orizzonte alla possibilità di una riconciliazione a lungo termine tra essa e gli israeliani. Non è stata la questione della lotta contro Israele a determinare il rovesciamento del regime ma quella di un risanamento interno della società palestinese. Per Israele il periodo di incertezza si è abbreviato e il margine di indecisione tra le tre possibilità che esistevano fino a ieri si è ristretto: 1. La conduzione di negoziati per una soluzione definitiva del conflitto. 2. Un ritiro unilaterale. 3. Una permanenza definitiva nei territori occupati. È quindi possibile concludere che i risultati delle elezioni palestinesi non abbiano prodotto alcunché di negativo, anzi è un bene che le cose siano andate proprio così».
Ha ragione Dani Shefer? Chissà. Io, intanto, cerco di mantenermi ottimista.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione di La Stampa