Se dopo il fallimento di Camp David Israele aveva interrotto i rapporti con Yasser Arafat, l'uomo che aveva portato al potere in Cisgiordania e Gaza, nella speranza di una soluzione definitiva del conflitto, era stato perché il vecchio raìs si era dimostrato incapace di siglare una soluzione di compromesso e di rinunciare al terrorismo, preferendo, alla costruzione dello Stato, la prosecuzione della lotta contro il "nemico sionista". Questa scelta, oltre che la mancanza di democrazia e libertà politica nell'Anp, hanno d'altro canto rafforzato l'unica opposizione relativamente libera: quella islamista di Hamas, che ha vinto la corsa al rialzo dell'odio per Israele e della violenza.
Per ogni "rispettato, ma inascoltato" analista israeliano convinto che la responsabilità dell'ascesa di Hamas sia di Israele, e dell'errore della mancata trattativa con Arafat, ve ne sarà un numero maggiore (rispettato e ascoltato) che metterà l'accento su questi altri fattori.
Ma Bernardo Valli queste voci non interessano. Interessa solo citare analisi che possano essere utilizzate per dare a Israele la responsabilità della minaccia che grava su di essa, e scongiurare l'eventualità che il taglio dei fondi all'Anp "riduca i palestinesi alla fame" (gli aiuti, in realtà , inacanalati in unmeccanismo clientelare, servono da tempo a rafforzare il potere dei gruppi terroristici e dei clan, non a produrre sviluppo e benessere). (a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco il testo del suo articolo, pubblicato da La REPUBBLICA il 2 febbraio 2006:
LE SCUOLE di pensiero sul "che fare?", adesso che un partito islamico armato, dedito al terrorismo, è stato promosso al potere da libere elezioni, sono tante. Forse troppe. Molte sono appassionate. Non sempre razionali. Tutte (o quasi tutte) comprensibili. L´11settembre avendo fatto del terrorismo islamico una questione internazionale, le scuole israeliane e palestinesi si intrecciano a quelle affiorate altrove, a Washington, a Parigi, a Roma, come a Mosca e a Tokyo. Ma il problema di come trattare Hamas, legittimato da un voto democratico, si pone con drammatica, ovvia intensità, qui, in questa città ebraica, musulmana, cristiana, che israeliani e palestinesi rivendicano come capitale.
Nel caffè aggrappato alle mura secolari, dietro la Porta di Damasco, dove vado puntualmente da anni, ho l´impressione di essere nell´ombelico del mondo. E forse questa volta non è soltanto un´impressione. Detesto l´idea, tanto diffusa e dibattuta, di "uno scontro tra civiltà", ma bevo un tè alla menta pensando di essere proprio sulla linea di confine dove infuria quello scontro. Sono in distesa, pacifica, compagnia di tre clienti, tutti palestinesi.
Uno di loro è una vecchia conoscenza (un ingegnere che ha lavorato nel Kuwait ed ora è in pensione), e mi aiuta ad avviare la conversazione. Non chiedo per chi hanno votato. Dico soltanto: e adesso?
«Adesso Hamas governerà», rispondono impassibili quasi in coro. Ma come fa Israele a trattare con un partito che vuole la sua distruzione? La replica è polemica. La riassumo: «Quando mai Israele ha trattato sul serio?». L´Olp, dominato da Al Fatah e di cui Hamas non fa parte, ha comunque riconosciuto Israele, e Israele ha riconosciuto l´Olp. «Hamas non ha detto che distruggerà Israele». Il manifesto elettorale di Hamas, distribuito in centinaia di migliaia di esemplari, invocava la nascita di uno Stato palestinese indipendente su tutto il territorio della Cisgiordania, della striscia di Gaza e di Gerusalemme, senza rinunciare a un solo pollice della Palestina storica. Per non parlare dello statuto di Hamas che accusa gli ebrei di essere all´origine della Rivoluzione francese e del comunismo. La risposta è: «Anche Al Fatah vuole uno Stato indipendente». Hamas va oltre questa sacrosanta rivendicazione. Non è un partito laico, pragmatico, come Al Fatah. È un partito religioso. Si basa su dei dogmi irrinunciabili. I suoi impegni, le sue concessioni, le tregue, possono essere soltanto temporanee. È come se si fosse passati da uno scontro politico – nazionale, in cui la dimensione territoriale era di estrema importanza, verso un conflitto religioso, in cui la dimensione territoriale assume un carattere teologico. A questa mia lunga obiezione segue un altrettanto lungo silenzio. Ho esagerato. Sono andato al di là dei limiti consentiti dal luogo e dai miei interlocutori. Soltanto uno di loro (l´ingegnere) sussurra: «Io sono un laico. Mentre tanti israeliani sono integralisti e non vogliono rinunciare a un solo pollice della Palestina».
Neppure l´ottanta e più per cento degli elettori di Hamas sarebbero integralisti religiosi. Ed è probabile che i miei garbati compagni della Porta di Damasco abbiano votato per Hamas perché volevano punire Al Fatah per la sua corruzione e soprattutto per la sua inefficacia politica, di fronte a Israele. Per questo una scuola di pensiero, anche israeliana, piuttosto forte, ritiene che col tempo Hamas, impegnata a governare, rinuncerà alla sua intransigenza, deporrà le armi, respingerà l´azione terroristica, come è accaduto per Al Fatah, che con gli accordi di Oslo ha ufficialmente riconosciuto (nel `93) l´esistenza dello Stato ebraico. La logica e l´esperienza mi spingono a credere che questa possibilità esista. Anzi ritengo, come tanti altri, che il coinvolgimento di Hamas nel processo politico, sia una buona strada per farlo uscire dalla spirale terroristica.
Un esperto nella materia come Matti Steinberg pensa l´esatto contrario. Steinberg è stato un rispettato (ma inascoltato) consigliere per gli affari palestinesi dello Shin Bet, il servizio di informazione israeliano. In questa veste ha sempre deplorato la politica del suo governo che escludeva l´esistenza di partner attendibili tra i dirigenti palestinesi. In particolare criticava l´atteggiamento nei confronti di Arafat. Steinberg sosteneva che isolando Al Fatah e il suo capo si distruggeva la sola forza pragmatica e si favoriva Hamas, una forza religiosa con cui la convivenza sarebbe stata molto più difficile. Se non addirittura impossibile.
I fatti gli hanno dato ragione. Steinberg non ha esitato a condannare le clamorose iniziative unilaterali di Ariel Sharon, compresa l´evacuazione di Gaza, decisa senza consultare Mahmud Abbas (Abu Mazen), il successore di Arafat. Il quale, escluso da ogni trattativa, non ha tratto alcun vantaggio da quella operazione. I palestinesi hanno infatti attribuito la "liberazione di Gaza" all´azione armata di Hamas, e non ad Al Fatah, lasciato in un umiliante isolamento politico.
Soltanto delle concessioni politiche da parte del governo israeliano, secondo Matti Steinberg, avrebbero salvato il "partito pragmatico", cioè Al Fatah, dalle giustificate accuse di corruzione, e avrebbero evitato il successo del "partito religioso", cioè Hamas, estraneo al potere ufficiale e quindi in grado di sbandierare la propria onestà. Adesso starebbe prendendo forma uno Stato dei Fratelli Musulmani, accanto a Israele, e non lontano dalla Giordania e dall´Egitto, due Paesi in cui i Fratelli Musulmani hanno un certo peso, pur essendo tenuti a bada dai governi, che ne hanno limitato la presenza nei rispettivi Parlamenti. Per la prima volta, in Palestina, si è passati da un conflitto politico – nazionale a un conflitto con basi teologiche.
Questo significa l´impossibilità di un compromesso che implichi il riconoscimento della legittimità di Israele da parte di Hamas. Cessate il fuoco, tregue più o meno lunghe, periodi imprecisati di convivenza sono sempre possibili, anzi sono senz´altro probabili, ma Hamas non potrà mai riconoscere lo Stato ebraico. In tal caso verrebbe meno ai motivi della sua stessa esistenza. È la conseguenza, secondo la scuola di pensiero di Steinberg, della politica israeliana che non ha saputo dare il giusto valore al pragmatismo di Al Fatah. La «marcia della democrazia» avviene in Medio Oriente su un campo minato. Sia pure in un contesto diverso, le libere elezioni promosse dagli Stati Uniti in Iraq hanno creato una maggioranza di partiti religiosi sciiti, amici dell´Iran teocratico, nemico degli Stati Uniti.
Quasi tutte le scuole di pensiero sul «che fare?», di fronte al partito islamico armato legittimato da un voto democratico, agitano l´arma degli aiuti economici. Senza i quali Hamas riuscirebbe difficilmente a governare. Già adesso, in questi giorni, l´Autorità palestinese non sa come pagare gli stipendi ai 135 mila impiegati pubblici (poliziotti e funzionari vari). Il governo di Gerusalemme ha deciso di congelare la parte delle trattenute fiscali (riguardanti i pendolari che lavorano in Israele) dovute all´Autorità palestinese; e avrebbe già congelato anche i diritti doganali sui prodotti palestinesi esportati, sempre dovuti all´Ap, se gli americani non avessero invitato a rinviare la sanzione. Ma sono soprattutto in discussione gli aiuti essenziali europei, che consentono la sopravvivenza non solo dell´Autorità palestinese, ma degli stessi palestinesi. Tali aiuti sembrano condizionati ad alcune precise condizioni: in particolare alla rinuncia di ogni azione armata (quindi anche al terrorismo) e al riconoscimento di Israele.
Per evitare le sanzioni, Hamas potrebbe non assumere direttamente il governo. Potrebbe restare in Parlamento e ricorrere a ministri tecnici, ad esperti palestinesi non iscritti al partito, recuperati tra persone qualificate residenti all´estero. E se Mahmud Abbas (Abu Mazen) dovesse restare presidente dell´Autorità palestinese, in quanto leader di Al Fatah, il partito pragmatico, potrebbe essere un interlocutore valido per il resto del mondo. Egli pensa del resto di ritardare l´avvento del nuovo governo di qualche settimana, o mese, sempre che riesca a convincere i dirigenti di Hamas, per non arroventare il clima politico, al monento delle elezioni israeliane del 28 marzo.
Una sospensione degli aiuti avrebbe effetti catastrofici. Su questo le varie scuole di pensiero esprimono opinioni diverse. Sono in molti a pensare che gli aiuti umanitari debbano servire come arma per contenere l´intrasigenza del partito religioso. Sono tuttavia anche in molti a respingere, con forza, l´idea di una Palestina affamata «per avere votato male». Sarebbe la crudele, assurda conseguenza della marcia democratica nell´Islam. Abbiamo parlato anche di questo, nel caffè vicino alla Porta di Damasco. E mentre ne parlavamo ho immaginato che le mura di Gerusalemme, sopra di noi, stessero per crollare.
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