Il FOGLIO di giovedì 2 febbraio 2006 pubblica nell'inserto un intervento di Bruna Ingrao che riportiamo:
E’stato un triste giorno della memoria quest’anno, e non a causa di quelli che lo hanno celebrato con commozione. E’ stato triste per la smemoratezza che lo ha accompagnato, su tante pagine della stampa e nelle coscienze, fianco a fianco con i richiami ai libri sulla Shoah, alle interviste ai sopravvissuti, ai resoconti delle cerimonie. Serpeggia e prende spazio la celebrazione dell’oblio: dobbiamo dimenticare, qui e ora, subito, chi siano i dirigenti e i militanti di Hamas, quale ne sia l’ideologia, quali gli obiettivi politici dichiarati. Dobbiamo dimenticare qui e ora, subito, i corpi dilaniati dei civili uccisi dagli attentatori suicidi in Israele, ebrei e non ebrei. Dobbiamo dimenticare qui e ora, subito la propaganda di Hamas che ha gettato giovani palestinesi, perfino adolescenti, a farsi esplodere per straziare civili israeliani ed essere straziati, come se fosse il bene ultimo nella vita. Dobbiamo tacere del tutto, tra le righe d’interviste prudenti, o editoriali apparentemente pacati, l’antisemitismo militante che Hamas ha diffuso per anni e fino a oggi come parte integrante del suo programma politico. Dobbiamo, qui e ora, mettere a tacere la memoria di questi fatti pesanti, odiosi, ripugnanti e invocare l’oblio: Hamas cambierà una volta al potere e, d’altronde, bisogna pur comprendere le ragioni dell’odio. E’ quello che ci suggeriscono con varie sfumature le voci, più o meno suadenti, più o meno aggressive, glaciali nel silenzio dei fatti, che vengono dalle interviste di Giuliano Amato e di Massimo D’Alema, o dall’editoriale di Barbara Spinelli. No, non dobbiamo dimenticare. Proprio oggi, qui e ora, è indispensabile ricordare che cosa è, che cosa ha fatto Hamas. Non voglio dimenticare che in Israele ho incontrato una madre la cui giovane figlia è esplosa vittima di un attentatore suicida, e solo una mano la madre ha potuto accarezzare della sua salma straziata. Non voglio dimenticare le vittime civili degli attentati suicidi in Israele, che Hamas ha organizzato con spietata determinazione ed esalta come compimento più alto del destino umano. Quelle vittime, tanto ignorate e dimenticate in Europa, fanno parte per me della sacralità della memoria, e soprattutto della sacralità della vita. Né voglio dimenticare le ragazze palestinesi mandate a farsi esplodere per lavare la vergogna del presunto disonore, perché anche questo la dirigenza di Hamas ha fatto. Ha forzato giovani donne a suicidarsi e uccidere, anziché portare in grembo nuova vita. Non voglio dimenticare il giovane collega dell’università di Beersheva che mi accompagna nel ripostiglio a prendere il vino; ma non è proprio il ripostiglio, è la stanza sigillata che le case di nuova costruzione hanno in Israele e che dovrebbe proteggere chi vi abita dagli attacchi chimici, dalla pazzia omicida dei vari presidenti iraniani e di quanti li sostengono, Hamas inclusa. C’è un confine nettissimo che mi oppone frontalmente ad Hamas, un confine etico, ideale, politico, che non posso dimenticare per non perdere la mia stessa umanità. Non voglio dimenticare che nel 2002 comparve sul mio computer l’immagine di un sito di Hamas (sito probabilmente poi oscurato, o magari no?) con questa frase agghiacciante: “Batteremo alle porte del paradiso con i crani degli ebrei”. Che senso ha il giorno della memoria se oggi, qui e ora, non contrastiamo la propaganda antisemita, aggressiva, nutrita di un progetto genocidario, e che non è neppure mascherata, a fini d’immagine, da ideologia antisionista? Da allora ho atteso che in Italia vi fosse una denuncia, una presa di distanza, una battaglia civile contro la propaganda antisemita di Hamas, che è d’altronde solo un aspetto di un fenomeno tristemente diffuso nel mondo arabo e in larga parte della cultura islamica, l’antisemitismo militante che è nutrimento primario del terrorismo islamista, ma è purtroppo brodo di cultura di pregiudizi antiebraici in una fascia ben più ampia della popolazione. Attendo ancora. Non mi risulta che né Massimo D’Alema, né Giuliano Amato, né Barbara Spinelli si siano spesi per questa battaglia civile, né nel giorno della memoria né in altri giorni della loro vita. D’altronde, con poche lodevoli eccezioni, tutta la stampa e la politica italiane hanno brillato per l’assenza sul tema. Aspettavo inchieste, editoriali, interviste sul diffuso antisemitismo nella predicazione delle moschee, sull’odio antiebraico predicato per anni nella comunità palestinese da Hamas e, ahimé, anche dagli sconfitti di Fatah. Aspettavo la denuncia pubblica dell’indottrinamento dei bambini palestinesi al suicidio per uccidere gli ebrei. Li avete letti? No, con le lodevoli eccezioni di pochi giornalisti, come Magdi Allam e Fiamma Nirenstein, che hanno parlato a rischio della loro sicurezza personale e debbono muoversi anche qui in Italia sotto scorta di polizia. Facciamo finta, dunque, che l’antisemitismo nel mondo arabo e islamico non esista. Non ne parliamo, per favore. Facciamo finta che non esista l’indottrinamento dei bambini palestinesi al martirio, tanto più odioso in quanto accompagnato all’indottrinamento all’odio contro gli ebrei infedeli. Facciamo finta che non esista la diffusione di leggende infamanti contro Israele, come l’accusa della diffusione dell’Aids o dell’influenza aviaria tra la popolazione palestinese, o l’accusa del lancio di giocattoli esplosivi e della distribuzione di dolci avvelenati ai bambini, reminescenze appena rinfrescate dalla fantasia contemporanea degli antichi pretesti antigiudaici.
Facciamo finta che il “Mai più” del giorno della memoria non abbia a che fare con l’oggi del “Batteremo alle porte del paradiso con i crani degli ebrei”, o delle più innocue certo, ma velenosissime vignette contro Israele, in puro stile nazista, ripetutamente pubblicate sulla stampa araba. Leggo sul Corriere della Sera la reazione indignata alle vignette danesi su Maometto del sociologo liberale saudita Khaled Alkhil, il quale sostiene che “in Europa e ancora più negli Stati Uniti non è possibile criticare Israele che è uno Stato, e non una religione, o discutere dell’Olocausto”. Abbiamo dimenticato la pioggia di vignette antisraeliane, che sconfinano negli stereotipi dell’antisemitismo più becero, apparse negli anni sia sulla stampa europea sia sui media arabi? Discutere dell’Olocausto per il sociologo liberale significa negazionismo? Facciamo finta che Hamas non sia un’organizzazione terroristica che diffonde attivamente l’odio antiebraico, che predica il diritto a far saltare in aria bambini e ragazzi ebrei e che ha fatto saltare in aria bambini e ragazzi ebrei ogni volta che ha potuto. Facciamo finta che Hamas non persegua un esplicito progetto genocidario. Il regime nazista ha massacrato circa sei milioni di ebrei, metà della popolazione ebraica mondiale all’epoca. La dirigenza di Hamas si propone di liquidare Israele, di buttarli tutti a mare con atti di guerra e di terrorismo. Gli ebrei israeliani sono, oggi, circa cinque milioni di persone e ancora circa metà della popolazione ebraica mondiale: non è una cifra vicina a quella della Shoah? Liquidare la popolazione ebraica in Israele non è un progetto genocidario? Un distinto signore, presentato come seguace di Hamas in Gran Bretagna, in una distinta trasmissione della Bbc, pretende spiegarci che nel mondo arabo ormai, per uso comune, la parola ebrei significa, in realtà, israeliani, e non è contro gli ebrei, ma contro gli israeliani che l’odio di Hamas si rivolge. Bella confusione da alimentare, e dietro la quale nascondersi: l’odio contro gli israeliani in quanto tali non è odio antiebraico? Eppure D’Alema ci racconta che dobbiamo comprendere, che in fondo è tutta colpa della politica d’Israele se Hamas ha coltivato fin qui il terrorismo. Attenzione ai discorsi scivolosi: tutti gli antisemiti non finiscono per dirci che in fondo l’antipatia gli ebrei se la tirano con i loro comportamenti? Anche se, per allinearci all’opinione media europea politicamente corretta, volessimo ribadire gli errori, veri o presunti, della dirigenza israeliana, quando verrà il momento di denunciare gli errori della dirigenza palestinese? Quando verrà il momento di chiamare la dirigenza palestinese a rendere conto del disastro politico, che per decenni ha alimentato costringendo l’intera società palestinese in un progressivo stato di degrado e isolamento, anziché imboccare la strada del ragionevole compromesso territoriale con Israele? Neppure oggi? L’Europa, nel tacere per anni le responsabilità palestinesi nel fallimento del processo di pace in medio oriente, ha coltivato con paternalismo suicida e lauti fondi la corrotta dirigenza palestinese che ha perso le elezioni, e ha coperto le sue dirette complicità con il terrorismo. Ha persino coltivato e coperto la dirigenza di Hamas. Come è stata faticosa la controversia per portare, infine, il Parlamento europeo a includere Hamas nella lista delle organizzazioni terroriste! Quanti anni sono stati persi nel decidere, quanti mesi persi per rendere operativa la decisione. Oggi, forse (almeno lo speriamo!) l’Europa sembra avere trovato una voce più ferma; eppure Massimo D’Alema propone d’invertire la rotta della politica mediorientale italiana, all’indietro! Dovremmo tornare al paternalismo complice e suicida nei confronti del terrorismo palestinese? Anche di fronte a Hamas al governo, e senza una parola di denuncia? Dimentichiamo ancora, a ridosso del giorno della memoria, che il futuro stato palestinese, se e quando dovesse nascere, non prevede la presenza di ebrei sul suo territorio. La domanda è rimasta in sospeso: si potrà praticare la religione ebraica nell’eventuale futuro stato palestinese, senza essere discriminati, processati, malmenati, o ridotti a dhimmi? Si potrà praticare la religione ebraica con pari diritti di cittadinanza? Vi potranno essere sinagoghe e potranno gli ebrei (israeliani e non) visitarvi in sicurezza i luoghi sacri all’ebraismo? La distruzione brutale, forsennata delle sinagoghe dopo il ritiro israeliano da Gaza, è stata un atto simbolico gravissimo. Possiamo, ora che Hamas proclama l’intenzione di fare della futura Palestina uno stato islamico retto dalla sharia, dubitare della libertà di culto non solo per gli ebrei (chi ci aveva mai creduto?), ma per i cristiani, che sono già stati decimati come popolazione e sono già oppressi e marginalizzati nei territori sotto il controllo dell’autorità palestinese. E’ un’evidenza dei fatti, che è sotto gli occhi di tutti, se non si volesse tacere e fare finta che non esista. No, non facciamo finta. Facciamo sul serio ed esaminiamo i ragionamenti speciosi. Si dice che Hamas si addolcirà, e si convertirà alla democrazia liberale, a una qualche misura (quale?) di democrazia liberale e perfino al riconoscimento dello stato di Israele, quando dovrà confrontarsi con la pratica di governo. La storia, citata a sproposito, non conferma l’inevitabilità, e neppure la plausibilità, di questo percorso. L’esercizio del potere non ha addolcito la dirigenza bolscevica dopo l’assalto al Palazzo d’inverno, né ha mitigato il programma di Hitler dopo la sua nomina a cancelliere. La stretta totalitaria del fascismo è venuta per gradi, dopo la salita al governo di Mussolini. L’esercizio del potere non ha addolcito il comunismo cinese: ci sono voluti decenni, con carestie e milioni di morti, perché maturasse la parziale apertura politica che ha segnato la rinascita di una speranza in Cina. L’esercizio del potere non ha mitigato i progetti sanguinari dei Khmer rossi: li ha rinfocolati, lasciandogli libero corso. L’esercizio del potere, se non è temperato dalla presenza dell’opposizione, se non è vincolato alla costituzione liberale, se non è esposto alla libertà d’informazione e di critica, se non è articolato nella divisione dei poteri e nel bilanciamento degli organi costituzionali, può portare alle peggiori degenerazioni. Altro che maturazione democratica. La scrittrice iraniana Azar Nafisi narra con vivezza biografica la crescente violenza totalitaria del regime islamico in Iran, l’estendersi del potere di veto e di persecuzione, in una società che all’inizio è ancora aperta e molteplice, e speranzosa di vivere spazi di libertà. Azar Nafisi descrive lo stupore del precipizio che si afferma, giorno dopo giorno. Gli episodi si susseguono e si fanno più crudi tra il 1979 e il 1980: la repressione feroce dell’opposizione di sinistra, bande di militanti che terrorizzano la città, gli oppositori scomparsi nel nulla, i processi dove la madre accusa il figlio. Nel confine tra pubblico e privato ecco la perquisizione della borsetta in aeroporto, più tardi la scoperta che come donna e docente non può più entrare all’università senza il velo islamico, la contestazione degli studenti radicali al suo corso, e il sentimento soffocante di sentirsi per sempre in trappola. E’ il ritorno traumatico alla verità brutale che le parole avvelenate si traducono in fatti terribili. “Negli Stati Uniti i nostri ‘Morte a questo’ o ‘Morte a quello’ erano simbolici, quasi astratti, e li ripetevamo con tanta più virulenza quanto più sapevamo che tali sarebbero rimasti. Nella Teheran nel 1979, invece, quegli stessi slogan si trasformavano in realtà con macabra, spietata precisione. Mi sentivo indifesa, impotente: tutti i sogni si stavano avverando e non c’era via di scampo.” Ong Thong Hoeung, prigioniero per tre anni dei Khmer rossi in condizioni disumane, ricorda come nel 1976 tornò in Cambogia con l’illusione giovanile di partecipare alla ricostruzione del paese, senza attendersi ciò che lo aspettava. Scrive del suo stato d’animo d’allora: “Ammetto che durante i giorni della vittoria possano esserci stati eccessi incontrollati qua e là. Ma voglio credere che sia questione di poco tempo: è ancora il periodo dell’euforia, poi diventeremo più realisti.” Fu un tempo abbastanza lungo per devastare il paese. Nella strage morì circa un terzo della popolazione cambogiana. Non passò con il breve periodo dell’euforia e i Khmer rossi non diventarono realisti. Negli esempi offerti dalla storia, la salita al potere di una fazione politica armata e illiberale, che predica l’ideologia totalitaria e non rinuncia al potere armato, è foriera di disastri politici e lutti terribili. Può degenerare nella guerra civile o precipitare il paese nella distruzione, come nel caso cambogiano. Anche quando ciò non avvenga, nella pratica quotidiana del potere l’affermarsi dell’ideologia totalitaria logora la democrazia, e cresce lo scontro, sempre più feroce, con la parte della società, che conserva sogni laici e di pluralismo. Il movimento totalitario si trasforma in regime totalitario. E’ spesso un processo rapido e brutale, facilitato dal controllo di squadre armate che operano di supporto al potere e al suo fianco, con tutta la libertà dell’impunità. Non possiamo disarmare le milizie di Hamas? Attendiamoci, allora, il peggio nella società palestinese, oltre che in tutta la regione mediorientale. “Avresti mai pensato che potesse capitarci tutto questo?”, chiese Azar al marito ingegnere, quando ormai in Iran le libertà erano soffocate nella morsa del regime islamico. “ No – rispose lui – ma avrei dovuto. Dopo che abbiamo contribuito tutti a creare questo disastro, non eravamo condannati ad avere per forza la Repubblica islamica.” Nemmeno Hoeung aveva immaginato quanto sarebbe stata estrema la perdita della libertà cui andava incontro, benché alla luce dell’esperienza storica fosse facile congetturarlo. Il potere armato, militante, illiberale, all’interno di un quadro istituzionale fragile ha la tendenza a degenerare; se, dopo regolamenti di conti tra le fazioni, si consolida in governo diviene regime o stato totalitario. La gestione del potere pubblico impone, certo, la trasformazione della fazione armata salita al potere (più o meno legittimamente) da gruppo combattente a personale di governo, ma la maturazione dei combattenti a uomini di governo può rapidamente volgere al regime, più meno oppressivo, e alla distruzione della democrazia. E’ il processo avvenuto nel movimento fascista in Italia. E’ il processo avvenuto, in forme più sanguinarie, nel movimento nazista in Germania come nel movimento bolscevico, con l’esito in entrambi i casi – attraverso liquidazioni interne – di selezionare la nuova classe di governo di pari passo con la costruzione e il consolidamento dello stato totalitario. E’ accaduto a Cuba, quando lo sparuto gruppo dei castristi è sceso dalla montagna e, tra processi sommari ed esecuzioni indiscriminate, si è trasformato nel gruppo dirigente del regime castrista. “Why the worst get on top” titolava Hayek nel 1944 un capitolo del suo libro “The road to serfdom”, sottolineando i rischi di degenerazione nella selezione della classe dirigente quando s’imbocca la deriva illiberale. Mi auguro che non sia il destino della società palestinese, che i peggiori sogni non diventino veri come nell’Iran khomeinista. Il rischio c’è ed è altissimo; il silenzio, la tolleranza o le bugie non possono diminuirne la gravità. E’ vero il contrario: solo la ferma denuncia e condanna dell’ideologia di Hamas e della pratica del terrorismo, può in prospettiva fermare la degenerazione della fragilissima democrazia palestinese verso il totalitarismo aperto e violento, o almeno avere una possibilità di bloccarne la deriva verso un nuovo regime islamista. Se la dirigenza di Hamas potrà, in un futuro ipotetico, lasciarsi alle spalle l’eredità del terrorismo, l’esaltazione del martirio negli attentati suicidi, la propaganda antisemita, l’obiettivo della distruzione di Israele, l’ambizione a un governo islamico totalitario, ciò avverrà solo perché avrà ricevuto risposte ferme dalla diplomazia internazionale, perché sarà stata ingaggiata una battaglia severa contro la sua ideologia di morte nella pressione dell’opinione pubblica internazionale, che non ha dimenticato e non vuole fare sconti. Se questa opinione pubblica internazionale esista e se saprà farsi sentire è la nota dolente del quadro. Pragmaticamente, senza voler sminuire l’importanza della battaglia ideale, si potrà fermare o rallentare la deriva islamista a Gaza e in Cisgiordania, con tutte le funeste conseguenze d’illibertà, persecuzioni e lutti che porterà alla popolazione palestinese, con la gravissima minaccia che già porta alla popolazione israeliana, solo se il contesto internazionale sarà così forte da imporre alla dirigenza di Hamas vincoli e limiti che non possano essere varcati. Non illudiamoci che il processo sarà rapido, e tanto meno che proceda per forza spontanea e assumiamoci la responsabilità di metterlo in moto con la fermezza del giudizio e la verità dei fatti su ciò che Hamas è stata ed è a tutt’oggi: un’organizzazione terroristica estremamente pericolosa, la cui alta dirigenza risiede a Damasco, che si muove nel panorama mediorientale in strettissima alleanza con l’Iran integralista e la Siria, che ha canali di finanziamento e traffico d’armi e non ha rinnegato finora nessuno dei suoi obiettivi più radicali né dei suoi metodi terroristici, perché anzi ne rivendica la legittimità come il cuore della sua identità politica. Prepariamoci all’addolcimento del linguaggio di Hamas rivolto ai cittadini europei, alla cosmesi del linguaggio, tra il dire e il non dire, tra l’affermare e il negare, che non significa affatto sincerità d’intenti né reale mutamento di politica. E’ un aspetto dei regimi intolleranti e totalitari: la doppia faccia, una nella politica internazionale, un’altra ben più feroce nel territorio governato. La rispettabilità internazionale nelle sedi diplomatiche si accompagna all’arma della paura e della minaccia perfino nella politica estera. Stalin ha mai dichiarato il numero dei deportati nei gulag in qualche sede diplomatica internazionale? Castro si è mai definito un dittatore alle Nazioni Unite? I diplomatici della Corea del Nord denunciano nelle sedi internazionali le violazioni dei diritti umani nel loro paese? La regola dei regimi totalitari è la diffusione della menzogna nell’immagine pubblica internazionale, accompagnata dalla diffusione del terrore tra i sudditi. Come Sharansky ricorda, i dissidenti sovietici lottarono per rompere il silenzio e far emergere la verità soffocata dalle menzogne ufficiali. La doppiezza del linguaggio è stata, d’altronde, un’arma diplomatica usata per anni dalla dirigenza palestinese, Arafat in testa, e se Hamas ha vinto non è solo a causa della corruzione dei dirigenti di Fatah, ma anche dell’indottrinamento al terrorismo, al martirio, all’odio antiebraico, che la stessa dirigenza di Fatah ha continuato a diffondere anche dopo gli accordi di Oslo. Generazioni di ragazzi palestinesi sono stati cresciuti in discorsi d’odio, in esercitazioni armate nei campi scuola o nell’esaltazione del martirio: perché stupirsi che l’odio abbia attecchito e che oggi mini il processo di pace? Hamas, per il momento, resta attestata nell’antico linguaggio del fanatismo, perché proprio sul linguaggio radicale ha costruito la sua forza politica, le sue false promesse, la sua guerra suicida e forse persino la vittoria elettorale. Si dice che Hamas abbia vinto le elezioni per l’offerta d’assistenza sociale ed è plausibile che il paternalismo assistenziale ne sia stato un punto di forza. L’esempio cambogiano è estremo: anche i regimi totalitari hanno di norma i loro fiori all’occhiello. A Cuba, si diceva, c’erano buoni ospedali e istruzione per tutti. Noi italiani quando c’era “lui” avevamo i treni in orario. Perfino Saddam aveva, assieme ai gas per i curdi, la modernizzazione del paese. Hamas ha la rete dell’assistenza sociale. Non facciamoci ingannare da questa favola, se pure contenga un forte nucleo di verità contingente. Non c’è futuro per il popolo palestinese al di fuori di un orizzonte di pace con Israele. Per la popolazione palestinese di Gaza e della Cisgiordania non ci sarà crescita, né economica, né culturale, né turistica al di fuori del processo di pace e quindi senza il pieno riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza e il ragionevole compromesso. Il fallimento degli accordi di Oslo, che avevano aperto una breve finestra di prosperità, e il lancio della seconda Intifada, hanno portato un colpo durissimo alla società palestinese nelle legittime speranze e opportunità di crescita economica e civile. Di questo la dirigenza palestinese e Hamas in primo luogo, come fazione terrorista radicale, portano una gravissima responsabilità di cui dovrebbero essere chiamati a rendere conto nel panorama internazionale. La popolazione palestinese non dovrebbe vivere dell’assistenza di Hamas, né degli aiuti della Comunità europea, né del clientelismo al soldo di questo o quel potente locale, localmente armato. Dovrebbe vivere della produzione di un reddito nazionale in crescita grazie a investimenti e a scambi aperti con le economie limitrofe, ivi inclusa quella di Israele. Il governo di Hamas non potrà promuovere lo sviluppo economico dei territori nel controllo dell’autorità nazionale palestinese, finché non esca dallo stato di guerra, finché non nasca un rinnovato clima di fiducia, finché non stabilisca accordi di cooperazione con altre economie della regione, ivi inclusa quella israeliana. Finché non disarma, finché non riconosce Israele, il costituendo governo di Hamas potrà redistribuire in regalie e assistenza i fondi che riesca a raccogliere da aiuti internazionali, alimentando l’economia del clientelismo, non lo sviluppo. Questa verità va finalmente ribadita, fuori dalla retorica, e diffidiamo perciò di chi vede il futuro della popolazione palestinese nel pietismo degli aiuti. Non è mio compito dettare lezioni di diplomazia a chi ha la responsabilità, in Italia, in Europa, in Israele, di fronteggiare la crisi aperta dalla vittoria di Hamas. A ciascuno il suo mestiere. C’è, però, almeno una strada diplomatica trasparente che può lanciare una minaccia credibile ad Hamas e al fronte del rifiuto: Israele deve entrare nella Nato, e con confini internazionalmente riconosciuti.
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