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Avvenire Rassegna Stampa
31.01.2006 Finanziare l'Anp di Hamas senza condizioni
la scelta giusta anche per il quotidiano cattolico

Testata: Avvenire
Data: 31 gennaio 2006
Pagina: 19
Autore: Barbara Schiavulli - Ivana Arnaldi
Titolo: «Mantenere gli aiuti: sono per la gente - Non si possono accettare solo governi che piacciono»

Il leader di Hamas Ismail Haniyeh chiede "Mantenete gli aiuti" e garantisce "Sono per la gente". sraà opportuno fidarsi? Quali garanzie avranno gli israeliani che il denaro inviato dall'Ue non serva al terrorismo? , in ogni caso, non servirà forse al consolidamento del potere di Hamas, organizzazione che non fa mistero di voler distruggere Israele? AVVENIRE del 31 gennaio 2006 non si pone queste domande e con un articolo di Barbara Schiavulli rilancia l'"appello" di Haniyeh. Ecco il testo:

   I Paesi del Quartetto (Usa, Ue, Russia , Onu) devono prendere una decisione e Hamas si rivolge loro prima ancora che s'incontrino. I leader di Hamas continuano ad appellarsi al mondo perché accetti il volere dei palestinesi e la democratica vittoria di Hamas che presto dovrà formare il nuovo governo. Hamas offre dialogo, tregua, rispetto dei diritti umani. Almeno a parole. Parla anche di lotta, ma solo quando si tratta di difendersi dagli attacchi degli israeliani. Chiedono di non essere abbandonati, soprattutto finanziariamente, ma ricordano anche che al mondo non esiste solo l'Europa e l'America: i soldi possono arrivare anche da altri Paesi interessati alla regione, come l'Arabia Saudita e l'Iran.
«Possiamo assicurare al quartetto che i soldi degli aiuti andranno spesi in salari, nelle infrastrutture, nel miglioramento della vita di palestinesi», ci dice Ismail Haniyeh, il capolista di Hamas, a casa sua, nel campo profughi di Shati (Striscia di Gaza). Viuzze strette, con tanti bambini scalzi che sguazzano nelle pozzanghere. «Vi invitiamo a capire le priorità del popolo palestinese in questa fase e a continuare il vostro appoggio spirituale e finanziario in modo da spingere la regione verso la stabilità piuttosto che verso la tensione», ha detto Haniyeh cercando di convincere la comunità internazionale nella loro buona fede.
A pochi chilometri di strada, dall'altra parte di una delle entrate della Striscia, i camion stanno buttando la frutta e la verdura che dovevano arrivare a Gaza: per due settimane gli Israeliani non hanno permesso l'entrata delle merci. «Noi stiamo cambiando, e la situazione sta cambiando: ci interessa solo il benessere dei palestinesi. Vogliamo che il nostro territorio fiorisca. E il nostro governo permetterà investimenti nei settori privati e pubblici. Sosterremo ogni iniziativa e progetto che porti movimento nella fragile economia palestinese». Haniyeh dice soprattutto di non volere che i Territori sprofondino nel caos, e la precarietà finanziaria potrebbe essere uno dei motivi principali. «Invece di metterci sotto pressione, dovreste aiutare l'Autorità palestinese a diventare forte. Noi abbiamo radici e finanziatori in tutto il mondo: l'Europa è disposta ad assumersi la responsabilità di un disastro solo perché non può accettare che un popolo resista a un'occupazione?».
Quanto a riconoscere Israele, uno dei punti chiave del negoziato: «È ancora presto, ci sono delle condizioni, abbiamo la nostra dignità, non possiamo trattare ad ogni costo. C'è il problema dei profughi, dei prigionieri, degli insediamenti. Da un anno siamo impegnati in una tregua: non c'è stato un solo attacco da parte nostra e siamo pronti ad estenderla, se non verremo attaccati nelle nostre case». Haniyeh è convinto che Hamas riuscirà a ristabilire la tranquillità. Durante le elezioni non ci sono stati incidenti e ora stanno lavorando duramente per convincere tutte le fazioni politiche a far parte del governo. «Il nostro partito si chiama Cambiamento e Riforma. Non vogliamo vendere illusioni. Vogliamo costruire questa nuova casa, non distruggerla. Datecene la possibilità».

Per meglio far pervenire il messaggio AVVENIRE  pubblica anche un'intervista di Ivana Arnaldi a un analista americano, con l'eloquente titolo "Non si possono accettare solo governi che ci piacciono". Ci piacciano o non ci piacciano  la distruzione di Israele e le stragi terroristiche, dunque, dovremmo dar prova di fair play, accettando subito senza condizioni il governo di Hamas. Non sarà che questi discorsi appaiono plausibili  a chi, presumibilmente illudendosi, pensa che il prezzo di simili scelte possa alla fine essere pagato solo dagli israeliani? Ecco l'articolo:

«Ciò che importa realmente di queste elezioni è che Hamas, il capo di una dichiarata organizzazione terroristica, attiva nell'Intifada, ha raggiunto la legittimità attraverso un voto democratico. I palestinesi, per formare il governo, devono seguire il loro processo costituzionale. Ora, l'accettazione della risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con il riconoscimento del diritto all'esistenza dello Stato di Israele, è indispensabile perché il nuovo governo palestinese abbia rapporti diplomatici con gli Stati Uniti».
È il commento dell'esperto di politica araba, Robert Satloff che, dal luglio del 2004, è direttore esecutivo del "The Washington Institute for Near East Policy". Consigliere per le relazioni arabo-israeliane e per il processo di pace, sin dal 1993, Satloff continua a viaggiare in Medio Oriente e in Europa per rafforzare la diplomazia americana nei confronti di arabi e musulmani.
Hamas vince in Palestina, i Fratelli musulmani in Egitto, i seguaci di Moqtada al-Sadr prendono seggi a Baghdad. La democrazia ha finito con il favorire in Medio Oriente il fondamentalismo islamico ?
Le regole democratiche impongono di non escludere alcun partito da una consultazione elettorale. Evidentemente, 12 anni dopo Oslo, spetterà ad un uomo che ha nel proprio statuto elettorale la distruzione di Israele, scegliere la rotta della politica palestinese. In realtà, la storia di tutto il movimento nazionale palestinese è contrassegnata dalla capacità di modifica dei propri obiettivi. Negli anni '60, l'Organizzazione per la liberazione della Palestina predicava la distruzione di Israele. Negli anni '70 è stato firmato uno storico accordo tra arabi e israeliani. Negli anni '80 e '90, i palestinesi hanno aderito, sia pure sotto pressione, alla soluzione di due Stati: Israele e Palestina.
L'elezione ha portato la maggioranza dei consensi a un partito che ha avuto un ruolo primario nell'assassinio di molti israeliani. Di chi la responsabilità?
Non si possono creare solo governi di proprio gradimento. La Casa Bianca lo sapeva che potevano affermarsi gruppi fondamentalisti, anche se sembrerebbe assurdo che un processo avviato per eliminare la corruzione nell'Organizzazione dell'Autorità palestinese, abbia condotto a questo risultato. Molti analisti affermano che la responsabilità sia da ricercarsi su vari fronti. In primo luogo, il ritiro unilaterale israeliano da Gaza, che non aveva alternative e che ha finito con il rafforzare il movimento di Hamas. Inoltre, si è fatta molta pressione sul presidente Abu Mazen, esponente di al-Fatah, perché si affrettasse ad adempiere all'impegno di rafforzare la sicurezza nei Territori e disarmasse i terroristi. Abu Mazen, già indebolito all'interno, per essere legittimato dal voto popolare, ha indetto le elezioni, sottovalutando il fatto che un movimento come Hamas potesse sfruttare la democrazia.
Però, dopo la vittoria elettorale, Hamas ha chiesto ad al-Fatah di unire le forze per formare un governo di unità nazionale. Del resto, anche Fatah, nel passato, aveva una doppia connotazione, nazionalista e terrorista.
Certamente. Del resto, come può confermare l'ex presidente Jimmy Carter già prima che l'Olp venisse legittimata dalla diplomazia internazionale come controparte, in ambienti diplomatici, si avanzavano ipotesi su incontri tra Israele, Stati Uniti e Organizzazione per la liberazione della Palestina. È sempre possibile che, con il tempo, le difficoltà della responsabilità di governo, renderanno Hamas un movimento meno radicale.

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