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La Repubblica Rassegna Stampa
30.01.2006 Legittimare Hamas
dimenticando il terrorismo e la volontà di distruggere Israele

Testata: La Repubblica
Data: 30 gennaio 2006
Pagina: 15
Autore: Alberto D'Argenio - Alberto Stabile - Tahar Ben Jelloun
Titolo: «L'incubo della fine degli aiuti - I due volti dei duri di Hamas - Dentro la testa di Alì, ragazzo verde»

Tra gli articoli di cronaca dedicati alla vittoria elettorale di Hamas su REPUBBLICA  del 29 gennaio 2006 quello di Alberto D'Aregenio intitolato "L'incubo della fine degli aiuti" si segnala per come ignora il rischio che gli ventuali aiuti concessi a un'Anp egemonizzata da Hamas servano a finanziare il terrorismo e l'aggressione contro Israele. D'Argenio sembra preoccupato solo daglie ffetti di possibili tagli dei finanziamenti sull'economia e sulla società palestinesi. Ecco il testo:  

BRUXELLES - Grazie al successo di Hamas alle elezioni politiche i palestinesi rischiano di perdere gli aiuti versati ogni anno dalla comunità internazionale a sostegno di un´economia ormai disastrata. Oltre 900 milioni di euro l´anno scorso, 730 milioni tra il 2003 e il 2004 sono piovuti sui territori da tutto il pianeta. Lo sforzo economico maggiore è stato quello dell´Unione europea, con quasi 500 milioni di euro versati solo nel 2005. Ma grandi donatori sono anche gli Stati Uniti, con 330 milioni di euro l´anno scorso, e la Lega Araba, che di milioni lo scorso anno ne ha inviati 162. A rischio potrebbero essere anche i finanziamenti promessi a luglio dal G8. Si tratta di 2,5 miliardi di euro all´anno che i paesi più industrializzati del mondo verserebbero per il prossimo triennio. A questi si aggiungono i 30-40 milioni di euro di introiti fiscali raccolti ogni mese dagli israeliani a nome dei palestinesi, la vera colonna portante dell´amministrazione gestita dall´Anp.
Lo scorso anno la Commissione europea ha versato 280 milioni di euro. A questi se ne aggiungono altri 220 stanziati dai singoli Stati europei, tra cui 33 pagati dall´Italia (il dato si riferisce al 2004). I soldi di Bruxelles hanno finanziato le più disparate voci del bilancio palestinese. 60 milioni sono stati versati dopo il ritiro israeliano da Gaza per la costruzione di infrastrutture, istituzioni locali e servizi sociali. Altri 35 milioni sono stati spesi dal fondo fiduciario gestito dalla Banca mondiale. L´erogazione della seconda tranche da 35 milioni è stata bloccata il 17 gennaio scorso, per le scarse garanzie di gestione finanziaria fornite dall´Autorità palestinese. Mentre 64 sono stati iscritti nel bilancio dell´agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite. Tranche da una ventina di milioni ciascuna sono poi andate in favore delle Piccole e medie imprese palestinesi, per finanziare la società civile, il processo elettorale o la sicurezza alimentare. Oltre 60 milioni della Commissione sono stati poi spesi in aiuti umanitari a vario titolo.
Sul fronte americano, lo sforzo di cooperazione è incentrato sulle condotte idriche, depuratori, strade, biblioteche. Una piccola parte (ma considerevole per gli standard palestinesi) di 2 milioni di dollari è stata dedicata nei mesi precedenti alle elezioni solo a sostenere la campagna di Fatah, di fronte al crescente malcontento e alle previsioni di affermazione di Hamas. Oltre alla classica pubblicità elettorale, gli americani hanno finanziato distribuzione di cibo, pulizia delle strade, eventi pubblici.
Ma gli aiuti europei, come quelli americani e le rendite fiscali raccolte dagli israeliani, non sono immuni al risultato delle elezioni. Domani, mentre a Londra parleranno i membri del quartetto, inizieranno a discuterne anche i ministri degli Esteri dell´Ue riuniti a Bruxelles. I ragionamenti dei responsabili europei partiranno dal seguente presupposto: non viene meno la volontà di aiutare il popolo palestinese, ma a questo punto occorre valutare attentamente l´evolversi della situazione. Gli esperti avvertono che per trovare una posizione comune europea sul nuovo assetto dell´Anp e sui finanziamenti ci potrebbero volere anche dei mesi. Per ora la Commissione non ha ancora quantificato gli aiuti ai palestinesi per il 2006, il che, sottolineano a Bruxelles, a gennaio è normale e non ha niente a che vedere con il risultato delle elezioni. In linea di principio la Commissione dovrebbe versare una somma simile a quella dello scorso anno, ma i fondi potrebbero anche essere tagliati. Il portavoce di Benita Ferrero-Waldner, commissario europeo alle Relazioni esterne, si è limitata a dire che «la palla ora è nel campo di Hamas».
Bruxelles, ha aggiunto, invia soldi alle autorità e non alle formazioni politiche, dialogando solo con chi lavora per la pace, ovvero con chi si muove all´interno della Road Map, rispetta i diritti umani e agisce con metodi democratici. Un modo per aggirare l´eventuale problema della formazione governativa anche se, sottolineano alcuni diplomatici, Hamas è nella lista nera europea delle organizzazioni terroristiche, il che implica il blocco dei suoi interessi finanziari nell´Ue. Difficile dire che i flussi di aiuti europei destinati alle autorità gestite dai suoi uomini non lo siano, anche se la soluzione al problema non potrà che essere politica.

A pagina 32 e 33 Alberto Stabile intervista due "militanti" di Hamas. Quando uno dei due, il "duro" Abu Tir risponde al quesito se Hamas voglia ancora la distruzione di Israele " Perché lo chiede a me? Io sono colui che soffre, io vivo da quarant´anni sotto occupazione. È Israele che occupa tutta la Palestina, che è terra islamica, e l´occupazione israeliana deve finire in tutta la Palestina", Stabile lo definisce "sfuggente", il che è falso. l'uomo di Hamas è stato chiarissimo nel dire che l'intero Israele è "terra islamica occupata". E' Stabile che vuole far finta di non capire. Chiama allora i programmi politici di Hamas "retorica della resistenza". Chi gli garantisce che si tratti solo di "retorica"? La storia di Hamas d testimonia il contrario. L'altro intervistato, il  "moderato", ci ricorda le molte "opere buone" dell'organizzazione di cui fa parte. Che essa sia anche reponsabile di stragi efferate deve apparire anche a Stabile di secondaria importanza, dato che non gli riesce difficile associarsi al suo interlocutore nello stigmatizzare la "faziosità" dell'Occidente che " si accorge di Hamas solo per criticarne la condotta politica e preferisce ignorare le centinaia di associazioni, organizzazioni umanitarie e fondazioni che hanno fornito ai palestinesi scuole, asili, ospedali, lavoro, servizi, nei momenti più duri dell´occupazione". Ecco il testo dell'articolo:

 Umm Tuba (Gerusalemme)
Sembra che da qui la campagna elettorale non sia mai passata. A parte una bandiera verde sfilacciata, non ci sono altri segni del terremoto che s´è abbattuto sui palestinesi. Il villaggio è immerso nel suo silenzio atavico. Un odore di legna bruciata s´insinua fra le viuzze. All´orizzonte l´imponente Herodion, l´ardita reggia costruita su una collina artificiale da un re pazzo e ambizioso, annichilisce tra gli insediamenti. Sarebbe questo l´ultimo avamposto di Hamas alla conquista della Città Santa?
Mohammed Abu Tir deve il Numero 2, accanto al quale è comparso il suo nome nella lista nazionale del movimento islamico, esclusivamente all´anagrafe. Gli Abu Tir sono la più grande famiglia di Umm Tuba e Umm Tuba è adagiata alle porte di Gerusalemme. Nel puzzle imprevedibile dal quale dovrebbe affiorare l´immagine sconosciuta di Hamas, Sheik Mohammed rappresenta il nuovo Saladino, investito della sacra missione di piantare il vessillo sdrucito che sventola stancamente davanti alla sua casa sulla cupola ossidata della Moschea Al Aksa.
Ci accoglie nella sua casa con perfetto stile islamico: caffè arabo senza zucchero e datteri. Un modellino assai accurato della Moschea di Omar (o Duomo della Roccia) domina il salotto. Né paesaggi montani né versetti sulle pareti nude. E tutto, nel suo aspetto, denuncia il rigore dello zelo religioso, compreso un dettaglio che potrebbe sembrare frivolo ma non lo è: la barba rossa che scende fino al petto, frutto di una colorazione ottenuta con l´henné, la tintura naturale assai comune nei suk del mondo arabo. Un ricordo dei lunghi anni di carcere (venticinque, a più riprese) e, al tempo stesso, l´ennesimo segno di dedizione al Profeta che dell´henné, pare, fece uso durante la sua prigionia.
Mohammed Abu Tir è nato musulmano, ma combattente islamico lo è diventato dopo il primo arresto. Prima era stato uno studente di letteratura araba all´Università di Beirut che, nel ‘72, quando vi sbarcò, era la capitale della «rivoluzione palestinese» e di un certo bel mondo internazionale dedito ai traffici, al gioco d´azzardo e alla bancarotta. «In quel periodo conobbi tutti i dirigenti di Al Fatah: Arafat, Abu Jihad (Khalil al Wazir) e, più tardi in Siria, anche Saad Sayel. La vita allegra di Beirut non m´interessava. Avevo una cosa molto più importante per la testa: liberare la mia terra. Vidi che già allora c´erano alcuni corrotti nella dirigenza palestinese. Decisi di andare in Siria».
Un mese dopo essere tornato a Gerusalemme, con una laurea in lettere arabe e un addestramento militare, Abu Tir viene arrestato assieme al padre Mahmud. Resterà in carcere fino al 1984, quando rientra nello scambio di prigionieri strappato a Israele da Hamed Jibril, il capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Comando Generale, e viene liberato. Da allora, e fino a sei mesi fa, Abu Tir non fa che entrare ed uscire dal carcere con l´accusa di collaborare alle attività militari della guerriglia islamica. «Guerriglia», «terrorismo» sono termini che Sheik Mohammed non gradisce. «Per me - dice - si tratta di resistenza all´occupazione».
Nell´84, poco prima dell´imprevista liberazione, l´incontro fatidico con Sheik Yassin, il grande vecchio di Gaza ucciso nell´aprile 2004 dagli israeliani, che allora era il rappresentate dei Fratelli Musulmani nella Striscia ma che da lì a qualche anno avrebbe dato vita al Movimento di resistenza islamica, noto con l´acronimo Hamas. Abu Tir lascia al Fatah ed entra in Hamas.
Oggi sembra che il tempo per lui non sia passato. La sua militanza non prevede compromessi. Il successo travolgente del suo partito non ha acceso alcun desiderio di cambiamento. Quando gli chiediamo se, adesso che è stato eletto, sente una responsabilità diversa nei confronti di tutto il popolo palestinese, risponde con un lungo giro di parole da cui si capisce che la responsabilità era e resta una sola: «Combattere l´occupazione, resistere. Si può resistere con le armi e si può resistere con la politica. O dovremmo alzare le mani in segno di resa?».
Il governo non gli interessa. Non ambisce a ministeri (eppure come Numero 2 potrebbe). Anzi, meglio sarebbe che tutto Hamas se ne tenesse alla larga. Ma «se poi dovesse essere necessario, abbiamo uomini validi». Una ripresa del negoziato non la vede. «L´Olp ha trattato con Israele per 32 anni e che cosa ha ottenuto?». Per dirla in due parole, Sheik Mohammed non ha smesso i panni del guerriero. È l´immagine dell´impreparazione di Hamas a reggere le sorti dei Territori.
Le preoccupazioni dell´Occidente non lo smuovono: «Finché ci sarà l´occupazione, ci sarà una milizia. Se poi avremo uno Stato palestinese, la milizia potrà essere integrata nella Forza armata palestinese». Così come non intaccano le sue certezze i timori, coltivati da molti palestinesi laici, di una islamizzazione dei territori. «Questa è una terra islamica. Ma non vogliamo imporre i costumi religiosi a nessuno. Non ricordo mai di aver chiesto alle mie figlie (ne ha cinque, oltre a un maschio, ndr) di indossare il velo. Ho sempre detto loro: «Indossate lo Jiab se lo sentite con il cuore». Perché capisce bene che, se un gesto del genere non è sentito, il velo se lo tolgono appena escono in strada».
Sulla questione-chiave, se Hamas voglia ancora la distruzione dello Stato d´Israele, è sfuggente: «Perché lo chiede a me? Io sono colui che soffre, io vivo da quarant´anni sotto occupazione. È Israele che occupa tutta la Palestina, che è terra islamica, e l´occupazione israeliana deve finire in tutta la Palestina».
Fuori, nel freddo del primo mattino, incontriamo Umm Mohammed, la madre di Abu Tir venuta a far visito al figlio. Vestita con un abito tradizionale palestinese ornato di sontuosi ricami azzurri, porta un mazzetto di menta per il tè. «Dio mi ha fatto la grazia più bella facendo eleggere mio figlio. A 75 anni proprio non me l´aspettavo». Lei si ricorda, adolescente, il tempo degli inglesi che venivano a cavallo a controllare se il suo promesso sposo, Mahmud, già allora impegnato nella lotta nazionalista, fosse in casa. E poi gli israeliani che, dopo il marito, gli arrestano uno dopo l´altro tutti e quattro i figli maschi. I viaggi all´alba. Le lunghe attese nel parlatorio del carcere di Ramle, al Nord. «Non potevo portargli neanche qualcosa da mangiare, ma ogni tanto riuscivo a fargli arrivare un po´ di hennè».
Hamas non abbandonerà mai la retorica della resistenza, che rientra fra le sue ragioni fondanti ma, contrariamente al deputato Abu Tir, qualcuno è capace di mostrare elasticità e spirito di adattamento al nuovo ruolo di forza di governo. Un uomo che s´è fatto notare per la sua disponibilità al dialogo è Mahmud Ramahi, anestesista di Ramallah laureato in Italia. Neanche lui s´aspettava un successo di queste dimensioni. L´adesione al Movimento islamico è per Ramahi una scelta politica che risponde a un richiamo religioso («siamo musulmani»), non un dogma politico al servizio della religione. Il suo programma è: «Resistenza da un lato, dialogo dall´altro». E conferma che Hamas non cerca di avere né il primo ministro né un governo a sua immagine: «Penso che un esecutivo di tecnici sia sempre più necessario».
Ride se gli parliamo dell´ondata verde che starebbe per sommergere la società palestinese. Ride della faziosità dell´Occidente che si accorge di Hamas solo per criticarne la condotta politica e preferisce ignorare le centinaia di associazioni, organizzazioni umanitarie e fondazioni che hanno fornito ai palestinesi scuole, asili, ospedali, lavoro, servizi, nei momenti più duri dell´occupazione. E anche dopo, supplendo alle mancanze, alla disorganizzazione e agli sperperi dell´Autorità palestinese.
«Molti dei candidati di Hamas a queste elezioni, così come gli amministratori che hanno conquistato i comuni delle grandi città, vengono dalle file di queste organizzazioni. Gente che ha saputo conquistarsi il rispetto e la stima della popolazione». Nel suo ufficio all´Ospedale di Ramallah sono appesi al muro alcuni versi del Corano, ma anche il diploma di laurea ottenuto all´Università di Roma. «Hamas - dice - sta diventando una forza politica matura. Metterci nella lista delle organizzazioni terroriste non ha senso. Vorrei dire agli Stati Uniti e all´Europa: apriamo nuovi canali di dialogo e vediamo se possiamo raggiungere compromessi accettabili da tutti. Non siamo in guerra con gli americani né con gli europei. La nostra guerra è qui». Il medico ricorda gli anni romani. «A Ramallah sto bene - dice - e mi piace l´idea che i miei figli, tre maschi e una femmina, dopo aver imparato a mangiare gli spaghetti adesso li reclamino continuamente».
Non deve stupire, dunque, se qualcuno nel puzzle di Hamas pensi di proporre a Israele una tregua temporanea. È l´offerta che Ahmed Yassin, il leader spirituale di Hamas, lanciò da Gaza dopo essere stato liberato dal carcere, nel ‘96. Nella sua casa nel quartiere islamico, a due passi della moschea, la stessa moschea dove dormì la notte prima di esser ucciso, Yassin avanzò la possibilità di un cessate il fuoco a termine e a certe condizioni. Nella bolgia di giornalisti e visitatori venuti a felicitarsi, un cronista gli chiese se con quella proposta Hamas non tendesse la mano a Israele. Lui sorrise, avvolto nel manto che nascondeva la sua paralisi: «Le sembra che possa essere io quello che può tendere la mano?».

Il vertice della faziosità è comunque raggiunto dall'articolo "Dentro la testa di Alì, ragazzo verde" di Tahar Ben Jelloun. In esso lo scrittore francese immagina di essere un giovane palestinese che ha votato per Hamas. Nella consueta litania di accuse a Israele e di giustificazioni per il terrorismo, inserisce una dichiarazione di diponibilità al riconoscimento di Israele, una volta che questa abbia restituito i territori occupati nel 1967. Ben Jelloun non è un dirigente di Hamas, e nemmeno un suo giovane elettore. Attribuisce a un personaggio immagginario una disponibilità a riconoscere Israele che contrasta con lo statuto del gruppo terroristico, con le parole e le azioni dei suoi membri. Il suo intento è esclusivamente propagandistico: leggitimare Hamas,  stigmatizzare Israele perché non dialoga con chi, fino a prova contraria, vuole distruggerla, negando semplicemente la realtà della minaccia. Ecco il testo: 

In questo testo l´autore si immedesima in un immaginario ragazzo
di diciotto anni, militante di Hamas, e ne descrive pensieri
e sentimenti nel giorno della sorprendente vittoria elettorale

mi chiamo Alì, sono nato a Gaza il 9 dicembre 1987, che per i Fratelli del movimento Hamas è il giorno della creazione. Non ho mai conosciuto altro che il campo. I miei genitori dicevano che era provvisorio, che presto saremmo ritornati in Palestina, nella terra dei nostri antenati. Dicevano anche che la vita sarebbe stata più bella, nella Palestina liberata. Io ci credo. Non lo dicono soltanto loro. Anche a scuola ci hanno insegnato che il nostro destino non è quello di rifugiati e che prima o poi ritorneremo nelle case che i nostri nonni hanno dovuto abbandonare nel 1948. Ci aspettano gli ulivi più vecchi del mondo. E anche le case più vecchie del mondo.
Come per tutti i Palestinesi, la mia vita è scandita dalle date della nostra storia: 1948, l´espulsione; 1967, la disfatta, che altri chiamano la catastrofe; 1973, la guerra di ottobre; 1987, la prima intifada; 2000, la seconda intifada, alla quale ho partecipato anch´io; 2004, l´assassinio di Cheikh Ahmed Yassin, nostro leader e guida spirituale, e del nostro capo Abdelaziz Al-Rantissi, per mano israeliana.
A tutte queste date bisognerà aggiungere la più importante, quella che per me è quella fondamentale: 26 gennaio 2006, vittoria di Hamas. Hamas è il mio partito, il mio movimento, la mia patria, la mia speranza. A Hamas devo la mia educazione e per Hamas sarei disposto a farmi martire. Ho votato. Ho votato per la prima volta. Bisognava battere il partito della corruzione e del tradimento, al Fatah, che negozia con il nemico sionista e non ottiene niente.
La nostra vittoria è la vittoria della libertà ottenuta con la democrazia. Non c´è niente da dire. Per tutta la giornata del 25, le voci di corridoio davano per vincente al Fatah. Alcuni dirigenti del partito si chiedevano se accettare rappresentanti di Hamas nel loro governo. Che ironia! Sono contento che la Storia stia dalla nostra parte, con i poveri, con quelli che per vincere l´occupazione e il colonialismo hanno solo la loro volontà e la fede in Dio e nell´Islam.
Abbiamo avuto i nostri martiri. Mi sarebbe piaciuto molto poter comunicare loro la buona notizia ma, là dove sono ora, sanno già di non essere morti invano, sanno che il loro sacrificio ha portato al popolo palestinese la vittoria di oggi, una prima vittoria: siamo sulla buona strada.
Ho ascoltato i giornalisti americani e europei. Dicono che l´Occidente ha paura. Vogliono che Hamas rinunci a distruggere lo Stato di Israele, lo Stato sionista che ha ordinato migliaia di uccisioni mirate tra i nostri dirigenti e le loro famiglie, che ha eretto un muro alto e lungo, che ha coperto il massacro di Sabra e Chatila, che ha bombardato Jenine... Anch´io voglio dimenticare l´odio e sono d´accordo a fare un passo verso il nemico, ma prima bisogna che Israele ci restituisca i territori che occupa dal 1967. Se lo fa, io non ho niente in contrario a riconoscere Israele.
Non sono un uomo politico, sono solo un soldato, un militante. Ho imparato a memoria il nostro statuto. L´articolo 8 dice che il Corano è la nostra costituzione, la jihad il nostro metodo, morire in nome di Dio il nostro desiderio più caro e che il nostro obbiettivo è liberare la Palestina, che è un bene musulmano!
Dicono che siamo terroristi. Secondo noi, facciamo resistenza all´occupazione. Dicono che siamo fanatici e violenti, ma non facciamo che difenderci e rispondere alla violenza dello Stato di Israele che occupa le nostre terre.
Io sono troppo giovane e non ho abbastanza esperienza per fare previsioni su quello che succederà. Mi affido ai Fratelli, ai nostri capi, a Ismail Hanyieh, al dottor Mahmud Zahar, a Khaled Mechaal. Israele ha cercato più volte di assassinarli. Adesso sono i nostri rappresentanti e Israele dovrà tenerne conto, rispettarli e parlare con loro.
Il mio fratello maggiore, Omar, è di al Fatah. Lui dice che, se Hamas va al governo, sarà obbligata a rinunciare alla violenza e costretta a riconoscere Israele. Poi dice che la pace non ci verrà servita su un vassoio d´argento, che dovremo essere vigili e soprattutto uniti. Ma mio fratello non è un buon musulmano, lui dice che il Corano non è mai stato creato per diventare una costituzione politica e che tra i Palestinesi ci sono anche dei cristiani. Mio fratello parla a vanvera perché il suo partito ha perso le elezioni e dimentica che è grazie a Hamas che Sharon si è ritirato da Gaza.
D´ora in poi mio fratello sarà all´opposizione; avrà tutto il tempo di verificare che con i negoziati non si ottiene niente dal nemico. È arrabbiato con me e dice che la Palestina deve essere uno Stato laico, democratico e moderno. Sul fatto che debba essere democratico sono d´accordo, ma laico e moderno significa ateo! No, la Palestina è una terra dell´islam ed è in nome dell´islam che abbiamo la missione di liberarla.
Mio fratello mi ha trattato da matto. Mio padre è intervenuto per calmarci. Io so che è stata la propaganda occidentale a plagiare Omar. Per fortuna noi soldati di Hamas non abbiamo nessuna propaganda che ci annebbia il cervello. Siamo musulmani e siamo fieri di esserlo!


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