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La Stampa Rassegna Stampa
28.01.2006 Le lacrime del coccodrillo
Affidata a Igor Man la commemorazione della Shoah

Testata: La Stampa
Data: 28 gennaio 2006
Pagina: 25
Autore: Igor Man
Titolo: «I rifiuti ritornano uomini»

Non è un errore, non abbiamo scambiato la firma. E' proprio Igor Man che firma l'articolo che segue. Dopo aver passato quattro decenni a delegittimare Israele, a sostenere le ragioni di Arafat e di tutti i gruppi terroristi palestinesi, adesso tesse un peana in ricordo della Shoah. Chissà, può essere la sconfitta di Al Fatah, l'oggettiva difficoltà di scrivere subito, a caldo, un pezzo in lode di Hamas, non sapere più quale appiglio trovare per rinnovare le lodi alla icona distrutta di Arafat, Igor Man, con una piroetta da 360 gradi, versa la sua lacrima di coccodrillo in memoria dei sei milioni di ebrei uccisi. Dopo una vita spesa a sostenere quelle forze del mondo arabo e palestinese che sempre si sono poste l'obiettivo di sterminare gli ebrei  vivi. Ha commesso però un errore. I lettori vadano a leggersi il suo editoriale sulla STAMPA di ieri 27.1.2006 (sempre su IC), nel quale attribuisce a Nethaniau la responsabilità della vittoria di Hamas, vi troveranno l'Igor Man genuino, quello vero, quello che per tutta la vita non ha fatto altro che addossare a Israele tutte le colpe. Per commemorare onestamente la Shoah occorre avere un altro curriculum. Le sue lacrime le restituiamo al mittente.

Ecco il suo articolo:

«ZAKHOR» ammonisce la Bibbia: ricorda.
Un drappello di ricognitori a cavallo dell’Armata Rossa arriva casualmente all’entrata principale di Auschwitz. Bruchi umani, stampelle di scheletri viventi premono alle sbarre del cancello. «È stato come una frustata in faccia, non credevo ai miei occhi», dirà più tardi il comandante del drappello. Sono le ore 15 (locali) del 27 di gennaio del 1945. In quel preciso momento va in pezzi il sipario che Himmler ha brutalmente calato sullo sterminio di ebrei, di zingari, di omosessuali, di innocenti accusati di disfattismo. Il lager polacco di Auschwitz è il più grande dei campi dove i nazisti sterminarono sei milioni di persone solo perché Juden, ebrei. I russi ne trovarono «vive» soltanto settemila. Larve umane. I forni crematori di Auschwitz avevano distrutto un milione e cinquecentomila vite, di cui un milione di ebrei.
Il Giorno della Memoria è diventato legge dello Stato quasi alla fine della 13ª legislatura. Il progetto, due soli articoli, ha il copyright di Furio Colombo che ne ha redatto il testo. Un forte sostegno è venuto dal presidente della Camera, Violante: nel 1997 ha duplicato e distribuito l’intero pacchetto delle leggi razziali approvate nel 1938. In tal modo ciascun deputato si è trovato in mano la dettagliata, persino pignola legge fascista anche più turpe di quella tedesca.
«QUANDO FUI LIBERATO»

Il percorso della legge di Furio Colombo è stato lento. Roba da esaurimento nervoso. Infine, alla Camera, la legge che sarebbe giusto chiamare oramai «legge Colombo», è stata approvata all’unanimità. Nel suo appassionato discorso prima del voto finale, Furio Colombo ha utilizzato il verbale della seduta avvenuta in quella stessa aula il 17 di novembre del 1938. Da quel verbale risultava che tutti i consiglieri nazionali (i deputati fascisti) avevano unanimemente votato le leggi razziali e che Mussolini era entrato in aula al momento del voto «scatenando applausi e ovazioni». Ciò ha dato modo a Colombo di dire ai suoi colleghi: «Poiché quelle leggi razziali furono approvate alla unanimità, vi prego di approvare all’unanimità questa legge».
«Zakhor», ricorda. «Quando fui liberato dai campi avevo perduto tutto. Mi rimaneva solo la memoria», così Simon Wiesenthal. La memoria è il mare dove si pescano i ricordi. I ricordi non muoiono mai, aspettano la memoria. Ma spesso la memoria muore con l’uomo ovvero si assopisce. Si assopisce perché ricordare è doloroso: riapre infatti le cicatrici che ci portiamo dentro. Ma s’assopisce altresì, la memoria, in forza della negazione strumentale, del revisionismo scorretto. «Ricordare lo sterminio di sei milioni di ebrei - ha scritto su questo giornale Elena Loewenthal -, ricordare quell’evento significa continuare ad ascoltarlo come nel “rombo sordo del tempo” sentito da Metter (lo scrittore russo Izrail Metter, ndr), affinché l’orrore non si ripeta».
Nel Giorno della Memoria del 2003, la Rai ripropose una intervista (Ritorno ad Auschwitz) a Primo Levi - era andata in onda nel 1982, fu il nostro Marco Belpoliti a riesumarla. Interrogano Levi Emanuele Ascarelli e Daniel Toaff. Chiedono cosa abbia rappresentato l’Olocausto per il popolo ebraico. Risposta: «Non era una cosa nuova, ce n’erano stati degli altri. Tra parentesi non mi piace, non mi è mai piaciuto questo termine Olocausto. Mi pare poco appropriato, mi pare retorico, sbagliato soprattutto. Ha rappresentato una svolta, come misura e come modo soprattutto poiché è stata la prima volta, in un tempo recente, in cui l’antisemitismo è stato progettato, pianificato, organizzato dallo Stato, non soltanto tacitamente consentito come avveniva nella Russia dello Zar, ma voluto. E non c’era scampo. L’Europa intera era diventata un’enorme trappola - questa è la cosa nuova e ha determinato una svolta profonda fra gli ebrei, e non solo in Europa, anche fra gli ebrei d’America, fra gli ebrei di tutto il mondo».
La svolta. L’11 di maggio del 1969 incontrai Golda Meir. Nella lunga intervista-colloquio, lei mi parlò della sua infanzia segnata dal pogrom. «Non scorderò mai quella mattina in cui, mano nella mano con una mia compagna di giuochi, a Kiev, attendendo il pogrom annunciato stavamo a guardare i nostri genitori che si affannavano a barricare l’ingresso della nostra casupola con qualche asse di legno. Il pogrom poi non ci fu ma ricordo quanto mi fossi stupita e arrabbiata rendendomi conto che tutto ciò che mio padre era capace di fare per difendermi era inchiodare quattro tavole di legno in attesa della plebaglia che ci insultava gridando “assassini di Cristo”. Presi allora piena coscienza d’essere ebrea, e finalmente compresi che, se si voleva sopravvivere, bisognava darsi da fare; reagire, non subire».
WOJTYLA E LA SHOAH

Il Vecchio Cronista ritiene inderogabile ricordare il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II al Tempio (laico) della Shoah, durante il suo viaggio in Terra Santa nel 2000. La preghiera del Papa polacco in suffragio dei sei milioni di ebrei (un milione e mezzo di bambini) rinnovò la memoria del doppio satanismo dell’infamia nazista. E cioè che lo sterminio degli innocenti, questo immenso pogrom meticolosamente pianificato, scientificamente praticato, prevedeva, prima della morte per gas, l’umiliazione. Costringendo gli ebrei a spogliarsi dei loro poveri panni macchiati dalla stella gialla, a metterli da parte con cura, ordinatamente, sospingendoli, poi nudi («Schnell-schnell», gridavano i boia) verso le camere della morte, le SS privavano le vittime dell’unico bene loro rimasto: la dignità. Prima di ammazzarli umiliavano gli ebrei: non più persone bensì cose. Infime. «Sono diventato un rifiuto», dice il Salmo (31,13-15) e allora, in Gerusalemme, Karol Wojtyla lo recitò con visibile strazio.
Per dare un senso alla memoria («Il 27 di gennaio - dice Colombo citando lo storico David Bidussa - non è il giorno dei morti bensì il giorno dei vivi: perché ricordino»), riproporrò una volta ancora un lacerto del mio lontano passato. Quand’ero fanciullo, nella mia attica Catania prosperava una «colonia russa» in cui spiccavano i Grinstein, ebrei fuggiti da Odessa negli anni crespi della Nep. Avevano aperto un export di agrumi che presto gli diede l’agiatezza. Ma le leggi razziali costrinsero i Grinstein a una nuova fuga. Rammento il muto abbraccio, senza lacrime, i volti scalpellati dalla pena, di mia madre con la cara Zia Berta.
Nel 1953, inviato dal giornale in America, ritrovai Tata Berta a Waterbury (Connecticut). Fu proprio lei a procurarmi un incontro a Tel Aviv con Ben Gurion, suo mezzo parente. Alla lettera di presentazione, Tata Berta accluse un bigliettino per me: «Gorik, se vuoi capirci, se vuoi capire Israele, devi, assolutamente devi, visitare Lahomei Haghetaot». È un kibbutz dove gli scampati al massacro di Varsavia del 3 di agosto del 1944 hanno ordinato in appena trenta metri un piccolo museo dello sterminio. Sui muri le macchie gialle delle stelle di pezza che Hans Frank imponeva agli ebrei; gli stampati con la scritta Jood da apporre sulle botteghe degli ebrei olandesi; una svastica; manifesti: ebreo=pidocchio. E si vedono gruppi fotografici di ignare famiglie destinate all’annientamento: sorridono in bianconero, gesti allegri hanno i fanciulli. Spicca un foglio che al Vecchio Cronista che fu partigiano in Roma angustia il cuore: «Questura di Roma. Oggetto: traduzione ebrei al campo di concentramento di Carpi, in numero di 38 (trentotto). Pregasi rilasciare al funzionario latore relativa ricevuta. Firmato: il Questore Pietro Caruso. Roma addì 25/2/1944-XXII».
I DISEGNI DEI BAMBINI

Due assi del forno di Dachau, un barattolo di gas Ziklone B. Infine i disegni dei bambini.
Ribaltando la realtà, quei bambini destinati alla morte per gas disegnavano i grandi: il papà, lo zio, il fratello maggiore che, armati di lunghi fucili, mettevano in fuga le SS. Inconsciamente quei bambini si ribellavano, come Golda Meir, al cliché eterno dell’ebreo succubo del pogrom. Profetizzavano, quei disegni, la svolta, giustappunto, che voleva Golda, la mutazione dei reduci dai campi di sterminio in soldati, vincitori, di quell’esercito pazientemente costruito dai volontari del Palmach, dalla prima generazione dei sabra cresciuti con l’arma al piede, dai combattenti saliti a Sion per edificare, tutti insieme, il nuovo Israele.
Il 24 di gennaio del 2002, alla preghiera voluta dal Papa polacco «fratello minore degli ebrei», in Assisi, per invocare ecumenicamente la pace, uno dei convenuti, una persona importante, il Rabbino Israel Singer, presidente del Congresso ebraico internazionale, rivolgendosi ai «fratelli musulmani», disse: «Penso dobbiate chiedere alla vostra gente, e noi dobbiamo chiederlo ai nostri, se il possesso della Terra sia più importante della vita delle persone. Finché non sapremo rispondere non ci sarà pace». E il francese Gran Rabbino Samuel-René Sirat scandì: «È vero che la guerra è contagiosa ma anche la pace lo è. Quando ci sarà pace a Gerusalemme, ci sarà pace in tutto il mondo».
Il viaggio di Giovanni Paolo II in Israele fu il riconoscimento definitivo, perché completo, della Nazione che ha restituito agli ebrei il bene prezioso della dignità. La Giornata della Memoria, diventata Giorno della Memoria mondiale con atto ufficiale delle Nazioni Unite (settembre del 2005) si vorrebbe fosse anche l’estremo appello al «vincitore» affinché restituisca pure ai palestinesi la dignità della patria perduta. «Mai andrò via da qui, Gerusalemme» dice una canzone: è forse nel cuore antico del mondo che la pietà del ricordo può fare attecchire il seme della riconciliazione.
«Zakhor», ammonisce la Bibbia: ricorda. In questo momento invero particolare il pensiero va ai Giusti che rischiarono, quando non persero, la vita per aiutare gli ebrei, ai partigiani che li difesero con le armi spesso sottratte alle SS. «La memoria della Shoah dev’essere tenuta viva perché la Storia che si dimentica si ripete. Questo è il significato del Giorno della Memoria»: parola di Carlo A. Ciampi, volontario della Libertà, soldato della Resistenza.

Anche se non verranno pubblicate, è bene che la Stampa riceva più lettere possibili, in modo particolare sulla scelta di affidare a lui il compito di ricoradre la Shoah. cliccare sulla e-mail sottostante.


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