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La Stampa Rassegna Stampa
28.01.2006 Che succede a Gerusalemme, nell'ANP, a New York
nei servizi di Fiamma Nirenstein, Aldo Baquis, Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 28 gennaio 2006
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein-Aldo Baquis-Maurizio Molinari
Titolo: «Olmert chiama Egitto e Giordania- BHL a New York»

Sulla STAMPA di oggi, 28.1.2006, una ottima pagina di informazione sul Medio Oriente. L'analisi politica di Fiamma Nirenstein, la cronaca postelettorale di Aldo Baquis ed una intervista a Bernard- Henry Levy da New York di Maurizio Molinari. Peccato che sempre oggi sia stato affidato ad Igor Man il compito di ricordare la giornata della memoria, che oltre a tutto era  ieri. Un articolo in ritardo ed affidato alla persona meno indicata. lo commentiamo, sempre oggi, in altra pagina.

Ecco il pezzo di Fiamma Nirenstein, intitolato "Olmert chiama Abdullah e Mubarak":

GERUSALEMME
Sgomento e tristezza in Israele. Ehud Olmert e la ministra degli Esteri Tzipi Livni telefonano freneticamente a tutti i leader del mondo. Olmert chiede aiuto a re Abdullah e a Hosni Mubarak. La gente a Gerusalemme, a Tel Aviv, a Haifa, si incontra, si mette le mani in testa, si guarda negli occhi, fa una faccia, a volte scoppia in una risata sarcastica. Hamas al governo dell’Autonomia Palestinese? Come se a suo tempo Renato Curcio fosse stato eletto a grande maggioranza Primo Ministro.
Il mondo intero cerca di consolarsi dicendo che Hamas compie una encomiabile missione caritativa presso una massa di poveri, di malati, di disoccupati; che è stato votato perché il Fatah, al potere da decenni, non ha voluto rinunciare a una sfacciata corruzione operata rubando sui fondi della Comunità Europea, degli Usa, sui servizi pubblici, sulla polizia, sui posti di lavoro.. Ma in Israele ci si ricorda soprattutto che quasi la metà di tutti gli attentati terroristi suicidi sono stati compiuti da Hamas, che dal 1992 il cosiddetto ingegnere Yehie Ajash cominciò a far scoppiare l’uno dopo l’altro gli autobus di Gerusalemme e di Tel Aviv carichi di scolari e di vecchi, che a Gaza, da quando i coloni sono stati sgomberati sono fioriti i nidi di missili Kassam; e che anche ieri, nella consueta litania di minacce, da Damasco (da dove pare si prepari a tornare) Khaled Mashaal, il capo all’estero, quello che tiene i contatti con l’Iran, la Siria e gli Hezbollah, e quindi anche i cordoni della borsa, ha detto che il suo vittorioso partito non ha intenzione di disarmare, e che Israele cederà solo alla lotta armata, come, secondo Hamas, a Gaza.
E quindi qui viene la grande crisi di coscienza e politica della classe dirigente israeliana: cambiano completamente le facce degli interlocutori, non più i grandi comunicatori come Saeb Erakat o i politici quasi democristiani come Abu Ala. Si fa avanti una schiera di giovani islamisti, di professionisti e professorini guidati da leader terroristi che hanno con la morte e con l’ideologia che la propone come martirio una consuetudine civettuola; che odia i locali dove si riuniscono i giovani di Ramallah e di Betlemme e tutto quello che sa di occidente; che porta in parlamento una madre che ha mandato tre dei suoi figli a farsi saltare per aria come shahid, invece di rinchiuderla.
Israele si fa sostanzialmente e con senso di colpa, quattro domande, due da destra, una da sinistra, una neutrale. E sono tutte buone domande. Quelle di destra, le fa Netanyahu e dietro di lui Silvan Shalom, ex ministro degli Esteri, e i partitini oltre il Likud: «Abbiamo porto ad Hamas la vittoria su un piatto d’argento - dice Shalom - perché sgomberando Gaza abbiamo consentito a Hamas di vantarsi del terrorismo e di sostenere che siamo scappati». «Hamas vuole adesso istituire un Hamastan - segue Netanyahu - ci costruisce un fronte di Ahmadinejad in casa. Come pensare a ulteriori sgomberi?».
L’altra domanda di destra riguarda le elezioni, e la fa anche molta gente di sinistra, come il famoso giornalista Nahum Barnea di Yediot Aharonot: «Sharon non si è opposto alla richiesta di Bush e del mondo di lasciar svolgere le elezioni anche se Hamas vi partecipava», dice in buona sostanza Barnea. «Senza farsi fare nessuna promessa da Hamas ha lasciato che corresse senza impacci,anche a Gerusalemme, verso la vittoria. Che razza di stupidaggine è la nostra? Abbiamo lasciato che Abu Mazen, l’unico nostro interlocutore, venisse spazzato via in nome di un malinteso senso democratico».
Poi la critica da sinistra: «Avremmo dovuto - dice Ytzchak Herzog, uno dei nuovi leader del partito laburista - evitare l’unilateralismo, trattare l’uscita da Gaza con Abu Mazen, dargli così un maggiore aiuto».
Infine, la critica neutra: abbiamo sottovalutato, dicono soprattutto gli analisti militari come il generale Shalom Harari, la propulsione islamista che ha invaso tutto il Medio Oriente. Dal centro Sharon non può rispondere, ma i suoi, come Haim Ramon, forniscono tutte le spiegazioni che possono. Ramon dice che comunque uscire da Gaza è stato giusto, per motivi demografici, per difendere il sionismo democratico e la natura di Israele. Che i sondaggi palestinesi sono stati sbagliati fino all’ultimo, e che quindi le elezioni non apparivano così cruciali.
Hamas è stato votato su una piattaforma violenta e antisemita: la sua carta, siglata nel 1988 dal fondatore, sceicco Yassin, fa i conti non solo con gli ebrei d’Israele, ma con quelli di tutto il mondo che «dopo aver rubato la Palestina - recita la sezione 32 - aspirano a espandersi dall’Eufrate al Nilo». In realtà, Hamas ha una forte spinta modernamente legata alla parte più estrema dell’Islam, all’Iran di Ahmadinejad, che infatti ha porto le prime e più vive congratulazioni. «E’ stato un mega attentato politico - dice disperato il giornalista di Haaretz Ari Shavit -. Ora che accadrà? Le guardie dell’autonomia palestinese saranno uomini di Hamas, che invece di arrestare i terroristi secondo la road map, li proteggeranno?».

Ecco il pezzo di Aldo Baquis intitolato "Hamas tenta Al Fatah,governiamo insieme":

TEL AVIV
All'indomani della loro grande vittoria elettorale i militanti di Hamas hanno espresso commozione e entusiasmo affollando le moschee di Gaza, di Gerusalemme e della Cisgiordania. Ma nella giornata islamica della preghiera non hanno perso di vista la necessità di stabilizzare al più presto la situazione dando vita a un nuovo governo che esprima gli umori espressi in maniera così nitida dal popolo palestinese.
Per tutto il giorno si sono dunque intessuti fitti contatti fra la sede del palazzo presidenziale di Abu Mazen a Ramallah, gli uffici del leader politico di Hamas Khaled Mashal a Damasco e le residenze dei dirigenti di spicco di Hamas a Gaza, Ismail Hanyeh e Mahmud a-Zahar. In questi contatti sono stati coinvolti anche i dirigenti egiziani e, secondo la stampa, anche governi europei.
Uno dei progetti in questione prevede infatti un clamoroso ritorno di Mashal a Gaza, forse già la settimana prossima. Mashal (che ha lasciato la Cisgiordania nel 1967 e ha poi vissuto in Kuwait, Giordania e Siria) vorrebbe infatti a questo punto incontrare Abu Mazen per concordare la composizione e le finalità del nuovo governo. In prospettiva, pensa di stabilirsi a Gaza. Ma otto anni fa, ad Amman, uscì vivo per miracolo da un sofisticato attentato del Mossad israeliano. Adesso, prima di avventurarsi nella Striscia, vuole dunque precise garanzie internazionali.
Secondo osservatori palestinesi Mashal avrebbe di certo un effetto moderatore su Hamas: già un anno fa, si dice, fu determinante nel convincere il suo movimento a rispettare la «hudna», la tregua degli attentati. Ma il suo coordinamento con i presidenti Bashar Assad (Siria) e Mahmud Ahmadinejad (Iran) viene seguito con preoccupazione dall'intelligence israeliana.
Hamas ha assicurato che, malgrado abbia la forza di governare da solo, vorrebbe includere dei ministri di al-Fatah. Ma il crollo drammatico di quel partito e la ferita della sconfitta bruciano forte, specialmente a Gaza, dove ieri si sono verificati seri incidenti. Il più grave è avvenuto quando migliaia di miliziani di al-Fatah hanno cercato di dare l'assalto all'edificio del parlamento, hanno dato fuoco ad auto in sosta e hanno invocato le dimissioni in blocco di Abu Mazen e di tutto il comitato centrale di al-Fatah, accusato di incapacità.
In un discorso alla nazione, Abu Mazen ha ribadito che il nuovo governo palestinese non potrà ignorare gli impegni assunti dai suoi predecessori: ossia gli accordi di Oslo, il Tracciato di pace, la disponibilità a negoziare con Israele un accordo di pace. Nei contatti di ieri sono state evocate formule diverse. Ad esempio la nomina alla carica di premier dell'ex ministro delle Finanze Salam Fayad, ben visto dagli Usa. Un'altra ipotesi è che Hamas costituisca un governo di tecnici: ciò per allentare la forte pressione internazionale esercitata sugli integralisti affinché riconoscano Israele, ripudino il terrorismo e smobilitino la propria milizia popolare se non vogliono rinunciare all’assistenza occidentale.
Hamas ha cercato di minimizzare l'entità delle divergenze con la linea pragmatica portata avanti da Abu Mazen. «Verso il premier - ha assicurato Sami Abu Zuhri, un portavoce degli islamici - proviamo un grande rispetto personale. La capacità di lavorare assieme esiste. Non da oggi ma da quando era ancora primo ministro». Su quello che ha qualificato «l'orizzonte politico» - ossia la questione dei negoziati con Israele - non ci sono sviluppi immediati «perché si ostina a non riconoscere i nostri diritti nazionali». Neanche le pressioni internazionali vanno temute più di tanto perché, ha osservato Abu Zuhri, «in Occidente nessuno può contestare il carattere democratico di queste elezioni». Un primo monito è arrivato però ieri sera dal presidente degli Stati Uniti George Bush: gli aiuti statunitensi «non saranno avviati» ai palestinesi - ha detto in un’intervista alla Cbs - se Hamas non scioglierà le proprie milizie armate e non rinnegherà le proprie minacce contro Israele. «Se non lo faranno, noi non avremo a che fare con loro».

Ecco l'intervisa di Maurizio Molinari a Bernard-Henry Levy dal titolo " L'antiamericanismo è il nuovo antisemitismo":

NEW YORK
Completo nero, camicia bianca senza cravatta e capelli spettinati, il filosofo e giornalista francese Bernard-Henri Lévy sceglie la platea del Council on Foreign Relations, uno dei salotti della politica estera americana, per descrivere le incomprensioni a cavallo dell’Atlantico e quando affronta il tema del dilagante antiamericanismo l’approccio scelto non è convenzionale. «L’antiamericanismo non dipende dagli americani proprio come l’antisemitismo non dipende dagli ebrei», esordisce per spiegare che si tratta di «una somma di pregiudizi ed intolleranza».
Il paragone con l’odio antiebraico sta nel fatto che «l’antiamericanismo è oggi un magnete che in tutto il mondo attira gli estremismi peggiori, i fanatismi più pericolosi, andate a vedere chi sono da vicino gli antiamericani e troverete dai nostalgici del nazismo ai nazionalisti più feroci fino ai kamikaze islamici».
Ricordando i viaggi fatti in Pakistan ed Afghanistan ma riferendosi anche alla Francia ed al Vecchio Continente, Lévy vede un filo conduttore fra tutti coloro che avversano l’America: «Ciò che li unisce è il disprezzo per la libertà, per la democrazia, per i diritti dei neri, degli immigrati e delle donne, perché vedono in questi principi una minaccia diretta alle loro ideologie estremiste, razziste». Altra cosa sono le critiche «al Patriot Act, alla pena capitale ed a Guantanamo» perché «in questi casi si tratta di obiezioni a singole politiche, non di odio contro le libertà che l’America rappresenta».
Da qui il fatto che Bernard-Henri Lévy si definisce «non filo-americano ma anti anti-americano» perché l’avversione per gli Stati Uniti è «una degenerazione frutto di generalizzazioni, intolleranza per il prossimo e mancanza di conoscenza» che lo rende parente molto stretto dell’antisemitismo. Ma c’è dell’altro. Al termine di un anno passato ad attraversare l’America sulle orme di Alexis de Tocqueville per conto di «Atlantic Monthly» - compilando una serie di articoli raccolti nel libro «American Vertigo» - il filosofo traccia un parallelo fra quello che ha visto e l’ebraismo: «Ciò che accomuna gli americani è l’associazione volontaria attorno ad un credo comune, proprio come avviene per gli ebrei, mentre in Europa ciò che distingue la popolazione di una singola nazione è il sangue, la terra, la religione».
«Israele è uno Stato nato dall’arrivo su un pezzo di terra di genti diverse unite da un unico credo - aggiunge - e gli Stati Uniti sono nati in maniera molto simile, con i Padri Pellegrini che sbarcarono con l’obiettivo di costruire il Verus Israel, una patria di libertà ed uguaglianza». La conclusione è nel segno della provocazione intellettuale: «Nel loro spirito malefico coloro che bruciano assieme le bandiere di Israele e Stati Uniti arrivano ad individuare l’esistenza di valori davvero comuni fra i due popoli e questo conferma che a volte anche Lucifero riesce ad essere intelligente».
Ma sulla possibilità che il mondo si accorga che l’antiamericanismo è una nuova forma di antisemitismo Lévy confessa di essere scettico: «Ci hanno messo molte decadi per ammettere che l’antisionismo è una forma di antisemitismo, ne serviranno ancora di più per comprendere la vera natura dell’antiamericanismo». A volte però, ed è lui stesso ad ammetterlo, le svolte avvengono come ha dimostrato ieri la prima celebrazione della Giornata della Memoria per la Shoà nella stessa aula dell’Assemblea Generale dell’Onu che nel 1975 paragonò il sionismo al razzismo.

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