La vittoria di Hamas conferma l'analisi e la strategia di Sharon, spiega Sergio Soave sul FOGLIO di venerdì 27 gennaio 2007, apagina 1 dell'inserto:
La vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi dimostra in primo luogo che la maggioranza di quel popolo sogna la distruzione dello stato di Israele. Questo conferma la diagnosi di Ariel Sharon, sintetizzata nella sua celebre formula secondo cui è dalla sicurezza che può nascere la pace, e non viceversa. La tesi populista secondo la quale i popoli sono naturalmente pacifici e sono soltanto i governi a puntare alla guerra ha dimostrato proprio nel caso palestinese tutta la sua natura retorica e inconsistente. Con la loro scelta i palestinesi hanno provato la credibilità internazionale del loro autogoverno, e di questo, prima o poi, si dovranno rendere conto tutti gli interlocutori. D’altra parte era già evidente da tempo che i governi dell’Egitto e della Giordania, forse nell’attesa di recuperare l’antico protettorato, rispettivamente sulla striscia di Gaza e sulla Cisgiordania, non investivano politicamente sull’autonomia palestinese, non hanno fatto nulla per favorire gli sforzi di Abu Mazen, e ora tendono a cogliere i frutti dell’ingovernabilità palestinese. E’ in base a una considerazione realistica di questo quadro che Sharon ha scelto la via della sfida unilaterale del ritiro dalla striscia di Gaza, che metteva l’Autorità nazionale palestinese di fronte al dilemma tra combattere seriamente il partito armato di Hamas o soccombere. Quelli che attribuiscono a Israele, o all’America, o persino all’Europa, la responsabilità di quel che è successo, non tengono conto dei dati reali della situazione. Non vedono o non vogliono vedere il carattere bellicoso del fondamentalismo islamico, che si diffonde a macchia d’olio nel mondo musulmano quando non trova sulla sua strada avversari determinati. Ora spetta in primo luogo ai palestinesi, al presidente Abu Mazen, dimostrare che la vittoria elettorale degli estremisti non segna l’irreversibile trasformazione dell’Anp in un’istituzione terroristica. Il sostegno che Abu Mazen ha ricevuto dall’America gli dà la possibilità di imporre anche a Hamas il rispetto delle leggi e della Costituzione palestinese. La vittoria elettorale da parte di una formazione estremistica, infatti, non implica, di per sé, una distruzione del regime almeno formalmente democratico che vige in Palestina. Solo se questa battaglia sarà combattuta con decisione e con successo, si potrà tornare a parlare di uno stato palestinese indipendente. Se invece, come è accaduto per le dittature fascista e nazista, arrivate anch’esse al potere attraverso elezioni multipartitiche ma che poi hanno costruito un regime totalitario, Hamas pretenderà di imporre le sue concezioni teocratiche e terroristiche come dottrina dello stato, bisognerà costruire un cordone sanitario di sicurezza attorno alla Palestina. La reazione dei militanti di al Fatah, che hanno reagito alla provocazione di Hamas che aveva issato il suo vessillo di partito sul Parlamento, dà la sensazione che l’instaurazione del regime fondamentalista troverà un’opposizione robusta, che può sfociare persino in un fronteggiamento armato. L’occidente dispone di importanti strumenti di pressione, a cominciare da quelli economici, Israele mantiene una forza di dissuasione militare di tutto rispetto. C’è da sperare che, dopo che la maggioranza dei palestinesi ha scelto un partito che fa della sua distruzione l’obiettivo fondamentale della sua politica, si smetta di mettere in dubbio il diritto di Israele di difendersi dagli attacchi terroristici con tutti i mezzi, a cominciare dal muro di protezione. Israele, naturalmente, non tratterà con Hamas, come l’America che riconosce solo Abu Mazen come interlocutore, e l’Europa, pur con tutte le tradizionali convulsioni, troverà difficile foraggiare un’organizzazione che ha definito ufficialmente come terroristica. D’altra parte concedere credito a Hamas significherebbe replicare l’errore fatale che le democrazie commisero quando concessero ad Adolf Hitler quello che avevano negato ai governi della Germania di Weimar. In questa situazione disastrosa c’è solo un elemento che può essere considerato positivo: la maggiore chiarezza. Ora è evidente che la pace in medio oriente, se mai ci sarà, sarà una pace tra nemici, che quindi potrà essere raggiunta soltanto in base a solidissime garanzie di sicurezza. Questo lascito politico di Sharon, tanto ingiustamente contestato, si dimostra invece indiscutibile. Nessun partito israeliano, neppure i laburisti, è disposto a trattare con un governo palestinese guidato da Hamas, che d’altra parte, non avendo accettato la road map, non ha titoli per farlo. Solo da qui si può partire per ricostruire un percorso di sicurezza reciproca, senza il quale è inutile parlare di pace.
Carlo Panella spiega perchè difficilmente Hamas modificherà il suo obiettivo di distruggere Israele:
George W. Bush ha posto ieri un’immediata condizione a qualsiasi rapporto tra gli Stati Uniti e Hamas e il nuovo governo palestinese: il riconoscimento pieno del diritto all’esistenza dello stato di Israele. Con la solita elefantiaca lentezza, anche i paesi europei si attesteranno su questa linea. Ma Hamas non potrà mai acconsentire su questo punto. Chiedere infatti a Hamas questo passo significa chiedergli di scindersi, di disintegrarsi. La ragione per cui Hamas non riconosce lo stato degli ebrei, infatti, non ha nulla a che fare con la “terra”, con il nazionalismo; Hamas non è un movimento irredentista, è un movimento islamico. Questa differenza cruciale è perfettamente sintetizzata nell’articolo 11 del suo statuto: “Hamas crede che la terra di Palestina sia un deposito legale (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare a nessuna parte di essa. Nessuno stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e i presidenti messi assieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite, hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam sino al giorno del Giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell’Islam fino al giorno del Giudizio?”. Questa posizione teocratica costituisce l’essenza stessa di Hamas e delimita le sue possibili scelte. Hamas può decidere una “hudna”, una tregua con Israele, può anche fingere di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele; la “taqiyya”, il nicodemismo, il diritto a un comportamento “irregolare” per preservare la comunità musulmana, è previsto e praticato nell’islam, ma soltanto a condizione che sia finalizzato al trionfo dell’islam; Hamas – non è un paradosso – può riconoscere Israele, ma soltanto per meglio distruggere Israele. Né si può pensare che questa sia una posizione recente, che sia nata con Hamas nel 1988, che non abbia ancora attecchito nel corpo del popolo palestinese. E’ storia vecchia di decenni: l’esercito di Hamas si chiama “Brigate Izzadin al Qassam”, in omaggio a un combattente della rivolta antiebraica del 1920, poi “martire” nel 1936, la cui tomba vicino a Haifa è venerata come fosse un santo. Izzadin al Qassam era il braccio destro del Gran Muftì di Gerusalemme che ha guidato il movimento palestinese dal 1920 al 1948, con una presa dentro la società palestinese forse ancora maggiore di quella di Arafat. Hamas, giustamente, rivendica la continuità con un movimento che oggi ha ben 86 anni e che rifiuta Israele in nome di Allah e del Giudizio Universale, non della “terra”. Ed è un rifiuto drammaticamente serio, tanto che Hamas, nel suo statuto, ricorda che il cammino dell’uomo sulla terra, la salvezza dell’umanità, lo stesso Giudizio Universale sono legati, intersecati, con la lotta all’ultimo sangue dei musulmani contro gli ebrei (gli ebrei, non gli israeliani): “L’ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me vieni e uccidilo’; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei”. Questa orrida concezione del Giudizio Universale è un “Hadith”, una frase pronunciata da Maometto e riferita al Bukhari; è un “editto” che lega la più intima fede, l’essenza salvifica dell’islam, alla negazione, alla distruzione dello stato di Israele e addirittura degli ebrei non convertiti all’islam, che dovranno tutti essere uccisi perché l’umanità si salvi. I palestinesi hanno votato ieri in massa per candidati che hanno questo “programma”; queste sono le idee della maggioranza dei deputati palestinesi. Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, può congratularsi con se stesso per aver compreso che questa è l’aria che tira oggi nel mondo musulmano ed essersene fatto alfiere. La domanda, allora, è una sola: si può, comunque, agire in modo che Hamas si scinda? Si spacchi in due? Si possono separare i deputati che la pensano come Ahmadinejad da quelli che sono di Hamas soltanto perché schifati dalla mafia di al Fatah e che sono disposti a scegliere la strada della politica, della trattativa, del compromesso, che possono abbandonare la scelta del jihad? Israele tenterà di farlo. Non sarà facile.
Christian Rocca illustra la posizione statunitense di fronte alla vittoria di Hamas:
Milano. La vittoria di Hamas sembra non aver sconvolto gli americani né l’Amministrazione Bush. Alla consueta conferenza stampa sui temi che il presidente affronterà martedì prossimo nell’annuale discorso sullo Stato dell’Unione, i giornalisti della Casa Bianca hanno rivolto a George Bush soltanto una domanda, la prima, sul voto palestinese, preferendo interrogare il presidente sulle elezioni americane di novembre, sull’economia, sul programma di intercettazioni delle telefonate dei terroristi, sui disastri di Katrina e sulla ricostruzione di New Orleans, sul nucleare iraniano, sulla Corea del Nord, sull’Afghanistan, sull’Iraq e, soprattutto, sul lobbysta Abramoff. La posizione ufficiale dell’Amministrazione è questa: le elezioni sono state un grande evento, ma un partito che ha nel suo programma la distruzione dello stato di Israele non può essere un partner di pace. Quindi Washington non tratterà con un eventuale governo di Hamas, esattamente come non ha trattato con Yasser Arafat negli ultimi anni della sua presidenza. L’apparente incongruenza della posizione americana (elogi per il processo elettorale ma non riconoscimento dei vincitori) si basa su tre elementi, ribaditi da George Bush e Condoleezza Rice: le elezioni sono una grande cosa perché comunque la gente ha mostrato di non essere contenta dello status quo, cioè della corruzione e dell’inefficienza della vecchia leadership conservatrice; Hamas è un’organizzazione terroristica che non vuole la pace; i gruppi armati non hanno posto nel processo democratico. La rivista liberal New Republic ha scritto che le elezioni a Gaza non sono state tra un movimento democratico e un gruppo terroristico, ma tra due gruppi che hanno lo stesso obiettivo strategico, distruggere Israele con metodi diversi. National Review, rivista conservatrice, ha ricordato come le finalità statutarie dei cosiddetti moderati di Fatah non sono così diverse da quelle di Hamas. Per l’Amministrazione, la differenza è l’attuale piattaforma di governo dei due schieramenti: pacifica e volta a trovare una soluzione quella di Fatah; violenta quella di Hamas. Bush ieri ha chiesto ad Abu Mazen di continuare a guidare il suo popolo verso una soluzione pacifica e ha esplicitamente fatto affidamento sulla leadership del presidente eletto dell’Autorità nazionale palestinese. Washington però non tratterà con un’organizzazione che vuole distruggere Israele e mantiene un’ala militare, ha detto esplicitamente Bush. Condoleezza Rice ha già contattato il Quartetto di negoziatori per convocare un summit il prima possibile e, in videoconferenza, è intervenuta al seminario di Davos specificando che “la nostra posizione su Hamas non è cambiata”. Dennis Ross, l’ex inviato di Bill Clinton in medio oriente e capo negoziatore a Camp David, ha spiegato che i palestinesi non hanno votato per Hamas perché favorevoli alla lotta armata contro Israele, piuttosto per rabbia contro i metodi di governo straordinariamente corrotti degli eredi di Arafat: “Hamas si è presentato alle elezioni invocando riforme e cambiamento, anche se non ha abbandonato ciò che chiama resistenza”. Ma, secondo Ross, Hamas ha ricevuto il voto della maggioranza perché andava incontro “ai bisogni e alle politiche locali”. Il rischio, secondo l’ex inviato di Clinton, è che l’Europa e magari anche qualcuno in America comincino a dire che bisogna rispettare il voto e provare a negoziare con Hamas: “Sarebbe un errore molto grave – ha detto Ross – gli Stati Uniti dovranno piuttosto organizzare un ampio fronte comune che isoli la leadership di Hamas, affinché capisca che non potrà raggiungere alcun obiettivo se non rinuncia a quelli inaccettabili”. Concorda Steven Cook, analista del Council on Foreign Relations: “Non facciamoci prendere in giro, specialmente voi creduloni europei, magari pensando che Hamas in qualche magico modo si sia trasformato in un’organizzazione nuova. Certamente c’è stata una evoluzione, ma resta un’organizzazione terroristica”. L’editorialista del Los Angeles Times, Max Boot ha detto al Foglio che “naturalmente la crescita di Hamas è un problema, anche se non bisogna dimenticare che Fatah certo non era rose e fiori”. Entrambi i movimenti, ha ricordato Boot, “hanno una lunga storia di atti terroristici, sebbene oggi Hamas sia molto più estrema”. Boot è un neoconservatore, ma al pari del clintoniano Ross, crede che “la vittoria di Hamas sia dovuta più al disgusto nei confronti della corruzione di Fatah che al desiderio di dichiarare guerra totale contro Israele, anche se questo è certamente l’obiettivo di Hamas”. Alla domanda sul che cosa fare adesso, Boot ha risposto senza esitazione che “Stati Uniti e Unione europea non dovranno dare nemmeno un centesimo alle istituzioni palestinesi guidate da Hamas”, anche se si augura che “l’esperienza di governo possa aiutare a moderare Hamas”. Lo scenario peggiore, secondo Boot, è la nascita di uno stato di tipo talebano in Cisgiordania e nella striscia di Gaza che da lì possa minacciare non solo Israele, ma anche l’Europa e gli Stati Uniti. “Uno Stato che diventi un rifugio sicuro per i terroristi internazionali, potrebbe costringere Israele ancora una volta a intervenire militarmente e questa volta anche gli europei tirerebbero un sospiro di sollievo”. Intanto un nuovo paper dell’Heritage Foundation suggerisce di far entrare Israele nella Nato, come deterrente rispetto a ipotesi di attacco da parte dell’Iran.
Antonio Missiroli dell'European Policy Center analizza la posizione dell'Unione Europea
Bruxelles. Visto da Bruxelles, l’esito delle elezioni palestinesi è un tipico caso di good news e bad news. Good news, innanzitutto, perché le elezioni si sono svolte in modo ordinato, corretto e senza episodi di violenza o sopraffazione – e non era certo scontato. La responsabile della missione europea di monitoraggio del voto, l’europarlamentare belga Veronique de Keyser, ha espresso una valutazione positiva sullo svolgimento delle elezioni, pur con le restrizioni imposte dal governo israeliano a Gerusalemme Est. Tutto questo, unito all’alta affluenza alle urne, rappresenta un indubbio successo per la democrazia palestinese, a dieci anni dalle prime (e fino a pochi giorni fa uniche) elezioni per l’Assemblea nazionale palestinese. Le bad news riguardano invece, ovviamente, il risultato uscito dalle urne. La nettissima vittoria di Hamas, che ha ottenuto una choccante e schiacciante maggioranza assoluta dei seggi all’Assemblea, non lascia infatti spazio all’ottimismo. I colpi di mitra celebrativi sparati in aria nella notte dai militanti dell’organizzazione, le immediate dimissioni del premier Abu Ala, e le prime scaramucce verificatesi già ieri a Ramallah fra attivisti di Hamas e rappresentanti di Fatah proiettano un’ombra preoccupante sul futuro dell’Autorità nazionale palestinese e dello stesso processo di pace. Hamas non riconosce Israele (ed è ancora votata alla sua distruzione), non accetta gli accordi di Oslo né la road map del processo di pace ed è ufficialmente considerata dall’Unione europea (come del resto da Washington) un’organizzazione terrorista. Come sia possibile continuare – semplicemente rimettere sui binari – la road map dopo questo voto appare, al momento, un vero rompicapo. Senza contare l’impatto che la nuova situazione nei territori palestinesi – soprattutto se dovesse condurre a una ripresa della violenza, all’esterno ma anche all’interno – potrà avere sulla campagna elettorale in corso in Israele. Le prime dichiarazioni rilasciate ieri dalla dirigenza di Hamas – che non si riconosce in un leader preciso – sono state, in questo senso, in parte contraddittorie. Da un lato, infatti, hanno ribadito l’intenzione del gruppo di non negoziare con Israele, e neppure di volerlo riconoscere. Dall’altro, hanno espresso la disponibilità a rispettare la tregua stabilita più o meno ufficialmente con il governo israeliano. Il premier ad interim Ehud Olmert aveva dichiarato a caldo di non poter negoziare con un governo palestinese di cui facesse parte Hamas. L’interpretazione che prevale a Bruxelles è che i palestinesi abbiano votato più contro al Fatah che per Hamas, più contro l’estrema corruzione di buona parte del vecchio gruppo dirigente di Arafat che contro la sua recente politica di ricerca di accordi con Israele. Il voto è stato insomma determinato soprattutto da questioni interne ai territori, non dalle posizioni intransigenti e violente di Hamas. In alcuni settori dell’opinione palestinese, inoltre, la convinzione che comunque il processo di pace non stesse avanzando – e che dunque non ci fosse qualcosa di preciso e prezioso da preservare – ha favorito il voto di protesta confluito sulle liste di Hamas. Ed è qui che, di nuovo, pochi inguaribili ottimisti (ne esistono perfino a Bruxelles) esprimono la speranza che, forse, le cose potrebbero finire per migliorare, dopo l’inevitabile peggioramento iniziale. Perché? Prima di tutto perché Hamas dovrà accordarsi su un leader e su un programma di governo: e già questo imporrà uno sforzo di chiarificazione interna al gruppo, e di esplicitazione di un’agenda in positivo, che è finora mancato. Poi perché la forza stessa delle cose – come gestire Gaza, come far funzionare i territori occupati – obbligherà Hamas a trattare con Israele: non a caso, già prima delle elezioni, si era levata qualche voce all’interno del gruppo per negoziare con Israele attraverso “intermediari”. Infine, e soprattutto, qualora tutto questo non avvenisse Hamas si troverebbe nudo di fronte ai suoi stessi elettori, incapace cioè di garantire ordine, sicurezza e sviluppo (nonché una qualche prospettiva di pace), e perciò di durare. Potrebbe essere allora quello il momento in cui Fatah – se si compirà rapidamente l’ormai indispensabile ricambio generazionale, e Mohammed Dahlan e Marwan Barghouti (sempre che Israele lo liberi) ne prenderanno le redini – potrebbe riavere il sopravvento. Per ora, tuttavia, a Bruxelles si insiste soprattutto sugli impegni contratti con l’Ue dall’Autorità palestinese, e che il nuovo governo a Ramallah è chiamato a rispettare. Sia l’alto rappresentante per la politica estera Javier Solana sia la Commissaria alle Relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner hanno insistito su questo punto, lasciando anche capire che gli aiuti e l’assistenza dell’Ue dipenderanno da questo. L’Unione non è infatti soltanto la principale finanziatrice dell’Autorità. E’ anche impegnata a Gaza con due missioni sul terreno: il monitoraggio del posto di confine con l’Egitto a Rafah e l’addestramento delle forze di polizia. Missioni impegnative e rischiose, che potrebbero essere sospese in caso di escalation della violenza. I ministri degli Esteri dell’Ue ne parleranno più a fondo lunedì, alla prima riunione di Consiglio del semestre austriaco. Poi Solana volerà a Londra per discutere il da farsi con i membri del Quartetto, a cominciare dal segretario di Stato Condi Rice.
Anna Barducci Mahjar spiega che dopo la vittoria di Hamas "L'ala dura di al Fatah vuole la resa di Abu Mazen"
Tunisi. La vittoria di Hamas alle elezioni legislative pone un interrogativo sulla sopravvivenza politica dell’attuale leadership palestinese. Abu Mazen, presidente dell’Anp, ha detto che il risultato delle urne deve essere rispettato. Da tempo, una vittoria di Hamas era una prospettiva non più esclusa a Ramallah e a Gaza. La popolazione continuava a ripetere di essere stanca della corruzione del governo e di volerlo “punire”. Per tutto il mese di gennaio i membri di Fatah – timorosi di una sconfitta – hanno combattuto attraverso i media per raccogliere il consenso dei palestinesi, parlando dei propri successi. Farouk Qaddoumi, segretario generale del partito, aveva però messo in chiaro che l’unica chiave di vittoria era l’unità. Le divisioni interne, create con la corrente della nuova guardia al Mustaqbal, e i conflitti tra il presidente e il premier Abu Ala – aggiunti alla corruzione – avevano infatti posto le basi di una “storica sconfitta”. Ora il gruppo armato ha la maggioranza dei seggi e chiede una coalizione di governo. I membri di Hamas sanno infatti di aver bisogno di Fatah, se vogliono ricevere finanziamenti dall’estero e per dialogare con l’occidente. Il partito fino a ieri al potere, in frantumi, preferirebbe però fare una “leale opposizione”. Ha bisogno di tempo per superare la crisi interna e forse per affrontare il cambiamento di leadership. La sconfitta di Fatah è infatti attribuita anche alla mancanza di carisma e di forza di Abu Mazen, che adesso è di fronte a un bivio. “La sua posizione attuale non è invidiabile – dice al Foglio Jamal Hamad, analista palestinese – Non è più riconosciuto come il capo di alcun partito, Fatah è divisa in varie fazioni, e non ha più nessuno che lo sostenga”. Ahmed Abdulkarim el Hih, protavoce di Qaddoumi e membro di Fatah, dice al Foglio che le dimissioni di Abu Mazen sono pertanto vicine: “Tra non più di una settimana”. La politica di Hamas – spiega el Hih – è opposta alla linea del presidente dell’Anp: continuazione della resistenza contro Israele e nessun negoziato. “Il rais non ha quindi altra scelta che andarsene”. La posizione di Abu Mazen è chiara: se la popolazione ha scelto di votare una linea politica diversa da quella per cui era stato eletto vuol dire che ha fallito. Che significato avrebbe rimanere al potere quando né i palestinesi né i membri del suo partito – se mai lo è stato per loro – lo considerano più il leader dell’Anp. Per la popolazione, la sua immagine non è nemmeno più risollevabile. In Cisgiordania dicono che anche lui è coinvolto nella corruzione del partito e che tutti i suoi collaboratori sono dei “gangsters”. Abu Mazen stesso aveva detto, durante la campagna elettorale, che se la situazione fosse diventata troppo difficile avrebbe lasciato l’incarico. Secondo Hamad, l’Egitto, la Giordania e l’Arabia saudita pregheranno Abu Mazen di continuare il suo mandato, promettendo di trovare accordi con Hamas, per scongiurare un ulteriore deterioramento del quadro politico. “Ma anche nel caso che il presidente dell’Anp accettasse questo compromesso e una coalizione col movimento islamico, la situazione non potrebbe durare più di due o tre mesi”. Abu Mazen si dimetterà comunque, dice Hamad. In ogni caso, Fatah ha altri piani, che non rientrano nella coalizione con Hamas. “Il nostro partito vuole lasciare la situazione politica nelle mani del gruppo islamico – dice al Foglio el Hih – Ci distaccheremo e lasceremo che Hamas affronti la realtà”. Fatah, punito dai palestinesi, vuole ora prendersi la rivincita: se l’elettorato ha voluto votare il gruppo islamico deve accettarne le conseguenze. “Nessun paese vorrà dare finanziamenti a Hamas – spiega el Hih – La loro politica porterà i palestinesi solo alla rovina e al disastro economico. Il movimento islamico ha voluto il potere, ma si ritroverà presto in un tunnel stretto e con una fine incerta”. Fatah vuole dimostrare ai palestinesi che hanno sbagliato scelta e quando Hamas avrà fallito allora tornerà in scena ancora più forte. Ma senza Abu Mazen. Per membri del partito, è giunto il momento di unirsi e di ricostruire le basi. Il rais però non può più essere il loro capofila. Questo compito spetterà forse alla nuova guardia, appoggiata probabilmente da Qaddoumi. Da tempo, in cerca di ritrovare un proprio ruolo di rilievo e di rimuovere definitivamente Abu Mazen dal partito e dalla leadership dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Per molti membri di Fatah, infatti, è vitale che l’Olp sia rafforzata e che non smetta di essere l’istituzione che rappresenta i palestinesi, come auspica Hamas. “Prima che avvenga la ricostruzione, però, ci saranno scontri e uccisioni tra fazioni”. E forse anche per questo Abu Mazen preferirebbe ritirarsi.
Tatiana Boutorline pone i risultati delle elezioni palestinese nel contesto mediorientale, dove già è emerso "l'asse dell'odio" tra Teheran e Damasco. Ad esso si aggiungerà ora Ramallah?
Roma. Congratulandosi con Hamas per il trionfo, l’Iran ha subito disegnato lo scenario che la vittoria, vista da Teheran, fa prefigurare. “Sono state scelte la resistenza e la lotta contro l’occupazione”, ha detto il portavoce del ministro degli Esteri, Hamid Reza Asefi, lodando la lealtà alla causa dei palestinesi. Quello che le autorità iraniane non hanno detto è che il capitale elettorale conquistato da Hamas potrà essere opportunamente sfruttato da Teheran. I rapporti tra la dirigenza iraniana e l’ala più radicale di Hamas non sono mai stati tanto solidi. Il leader in esilio dell’ala più radicale del movimento, Khaled Meshaal, è stato nei mesi scorsi un frequente e gradito ospite delle massime cariche istituzionali iraniane. In visita a Teheran il 15 dicembre, a margine di una conferenza intitolata “Il sostegno della Rivoluzione islamica in Palestina”, Meshaal ha detto che, in caso di strike israeliano contro le installazioni nucleari iraniane, Hamas risponderà con altrettanti attentati contro Israele. “Così come la Repubblica islamica difende i diritti dei palestinesi, noi difendiamo i diritti della Repubblica islamica. Siamo parte di un fronte comune unito contro nemici dell’islam”. La validità del patto di mutuo soccorso è stata confermata nel recente viaggio in Siria del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Confortato il rais siriano Bashar el Assad dell’immutato sostegno di Teheran con un patto di difesa che getta più di un’ombra sul Libano, Ahmadinejad ha riunito gli stati maggiori dell’antisionismo. A Damasco sotto lo stesso tetto, sono sfilati luogotenenti e leader delle organizzazioni terroristiche con cui Teheran ha stretto legami: Meshaal e Abdallah Ramadan Shallah di Jihad islamico così come l’amico Hassan Nasrallah di Hezbollah. Come hanno spiegato gli stessi protagonisti, l’incontro è servito a elaborare strategie per allentare la pressione sulla Siria e sull’Iran con la formazione di un fronte comune contro il sionismo e l’imperialismo. La presenza di Ahmadinejad e l’avallo di Assad sono serviti anche a rafforzare il coordinamento tra le diverse organizzazioni. Hezbollah e Jihad islamico condividono una storia di rapporti conflittuali con Hamas che l’Iran è riuscita non solo a contenere, ma anche a sfruttare a proprio vantaggio. Hezbollah si è resa utile nell’addestrare i militanti di Hamas e Teheran ha fatto di tutto per domare i contrasti tra Hamas e Jihad islamico. Hamas ha molte voci e non tutte concordano nel valutare positivamente l’attivismo iraniano, ma i falchi dell’organizzazione guidati da Meshaal si sono convinti che la strada per Gerusalemme passa da Teheran. Da sempre impegnata nel coltivare queste relazioni, senza eccezione per il mandato del presidente- filosofo Khatami, la dirigenza iraniana ha trovato in Ahmadinejad il miglior ambasciatore possibile. Le invettive anti-israeliane del nuovo presidente vanno lette anche come una ricerca di consenso: Ahmadinejad si avvalora come interlocutore privilegiato dei radicali. E infatti i falchi ringraziano: per Meshaal le dichiarazioni choc di Ahmadinejad sono “gesti coraggiosi” che rendono onore alla nazione iraniana. Gratitudine a parte, non sfugge forse a Hamas che il virulento Ahmadinejad persegue un disegno al contempo difensivo e offensivo che ha più a che vedere con la delicata situazione internazionale iraniana che con l’ardore per la causa palestinese. Anche i più entusiasti campioni dell’odio anti-sionista all’interno dell’establishment iraniano ammettono spesso che il sostegno alle organizzazioni palestinesi è oneroso e non paga in Iran in termini di immagine. La solidarietà generica va bene, ma “essere più palestinese dei palestinesi”, come ha sottolineato l’intellettuale iraniano Alavi Tabar, è una linea che da anni lascia tiepidi gli iraniani, frustrati dal dispendio di risorse che potrebbero essere destinate a far crescere il paese. Ahmadinejad intende provare che gli sforzi sinora profusi saranno valsi a qualcosa. L’Iran farà valere adesso come mai prima il suo peso in Palestina. C’è da vedere se l’altra Hamas, quella che non si fida di Teheran, glielo lascerà fare.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail con la propria opinione alla redazione del Foglio