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Avvenire Rassegna Stampa
26.01.2006 Per il giorno della memoria Franco Cardini pensa bene di dare agli ebrei la colpa dell'antisemitismo
citando un violento libello antisraeliano

Testata: Avvenire
Data: 26 gennaio 2006
Pagina: 26
Autore: Roberto Beretta
Titolo: «Anche i Giusti entrino nella Storia»

Avvenire, in occasione della Giornata della Memoria, intervista quattro storici sulla sua proposta di ricordare i Giusti che salvarono vite umae durante la Shoah. Tra gli studiosi interpellati c'è anche Franco Cardini. Il medievista, per due volte cita il libro di Norman G. Finkelstein "L'industria dell'Olocausto", un violento attacco a Israele e a esponenti dell'ebraismo americano favorevoli a Israele. Cardini , con Finkelstein, ritiene che casi di quel che Finkelstein ha definito "lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei" – a livello politico, massmediale e anche economico – abbiano sinistramente contribuito (pur, va da sé, senza minimamente giustificarle) alla sopravvivenza e perfino alla rinascita di varie forme di pregiudizio an tisemitico. L'antisemitismo, dunque non è giustificato, ma è colpa degli ebrei che "sfruttano la Shoah".Tale "sfruttamento", nel testo di Finkelstein consiste nell'istituire un collegamento tra la memoria della Shoah e la difesa di Israele. Per esempio: è certamente "sfruttamento" della Shoah, generatore di antisemitismo, mettere in guardia dai piani genocidi di Ahmadinejad , o dalla propaganda apertamente antisemita diffusa in tutto il mondo arabo islamico. E' "sfruttamento" chiamare antisemitismo la demonizzazione di Israele, la negazione del suo diritto ad esistere, l'uso di un doppio standard morale nel valutare le sue azioni e quelle degli altri stati.
A queste idee allude Cardini. Nessuna replica da parte di Avvenire, né degli altri storici interpellati, forse perché i quesiti sono stati  loro sottoposti separatamente

Ecco l'articolo.  

Domani è la Giornata della memoria: non solo per le vittime ebree della Shoah, ma anche per i Giusti che collaborarono a salvarne molte. Questa l'idea che «Avvenire» ha proposto a 4 storici, due di parte ebraica e due cattolici. Anzitutto Alberto Cavaglion, studioso d'ebraismo, che ha pubblicato «Le interdizioni del Duce. A 50 anni dalle leggi razziali» (Meynier 1988) e «La Resistenza spiegata a mia figlia» (L'Ancora del mediterraneo 2005). Andrea Riccardi è docente di Storia del cristianesimo; tra le sue opere: «La pace preventiva» (San Paolo 2004) e «Il secolo del martirio. I cristiani nel '900» (Mondadori 2000). Il medievista Franco Cardini si è occupato anche di temi contemporanei, per esempio con «Noi e l'Islam: un incontro possibile?» (Laterza 1994) e «Fratelli in Abramo. Breve storia parallela dell'ebraismo e dell'islam» (Il Cerchio 2000). Infine Liliana Picciotto Fargion del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano ha appena pubblicato «Giusti d'Italia» (Mondadori) e ha all'attivo «Il Libro della Memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia» (Mursia 1991) e «Per ignota destinazione. Gli ebrei sotto il nazismo» (Mondadori 1994).

Pur senza cadere in indebiti «revisionismi»: credete che sia utile o necessario (nonché possibile) «rivedere» la storia della Shoah tenendo maggior conto dell’apporto dei «Giusti», ovvero di coloro che – in tutte le forme e le nazioni – si opposero all’Olocausto con i mezzi a loro disposizione? E in che senso: fino al punto di rivedere anche l’idea filosofica di «male assoluto» spesso incarnata nell’idea dello sterminio?

CARDINI: «Cominciamo col distinguere tra il "revisionismo" – brutta e ambigua parola che ormai sta a indicare un atteggiamento ideologico travestito da istanza di ricerca storica – dalla revisione continua dei fatti del passato e dei documenti sui quali si basa la loro ricostruzione. Il lavoro dello storico è in larga parte revisione. Che la Shoah sia stata un’immensa tragedia, e dotata per giunta di caratteri che la distinguono da altri tentati genocidi, è ormai un fatto storicamente comprovato: ma la sua necessaria e doverosa memoria, che dev’essere condivisa da tutti, non sminuisce affatto il peso degli altri stermini: dagli indiani d’America agli armeni alla Bosnia e al Ruanda. Né il significato della Shoah può esser minimamente intaccato da scoperte relative ad abusi, falsificazioni, strumentalizzazioni (penso ad esempio a quanto è stato denunziato da Norman G. Finkelstein): si tratta di tentativi di adulterare la realtà che non ne sfiorano tuttavia la sostanza. Quanto al "Male assoluto", esso è una realtà metafisica: nella storia, per fortuna, esso non si trova mai allo stato puro. I "Giusti delle nazioni" ne sono appunto la prova. Per noi cristiani, bene e male crescono inestricabilmente intrecciati nelle vicende umane: solo alla Fine dei Tempi sarà possibile separare il grano dal loglio».

CAVAGLION: «Molte storie di Giusti sono da riscoprire, quelle che già si conoscono dovrebbero circolare di più. Va tuttavia distinto il lato "commemorativo", bene studiato da Tom Segev per Israele, e la ricerca storiografica in Italia. Noto che questa distinzione non viene sempre fatta. È vero che il numero di riconoscimenti è inferiore, molto inferiore, alla quantità dei salvataggi, ma lascerei da parte il Tribunale dei Giusti e mi concentrerei sui limiti progettuali della nostra storiografia. Perché nessuno ne parli è presto detto: non è politicamente corretto. Il pendolo della memoria guarda in questo momento più volentieri a Caino. Bisogna interrogarsi sul perché la salvazione della vita diventa a un certo prioritaria. Nel suo ultimo libro Gabriella Gribaudi ha dimostrato come a Napoli abbia funzionato una rete di solidarietà tutta femminile, intrisa di puro spirito evangelico, ma fedele anche a un’antica civiltà che la propaganda del fascismo non era riuscita a scalfire. In Italia il giudizio su quei tragici eventi ha oscillato fra due es tremi: la bontà pura o la crudeltà assassina. Il carattere nazionale, fra 1938 e 1945, manifesta invece "il viluppo di cinismo e di pietà", di cui dice Primo Levi citando Manzoni. Districare il viluppo costa fatica. Dire che siamo tutti bravi o tutti cattivi è più comodo (e alimenta il sogno segreto dei nostri storici: spostare voti)».

PICCIOTTO: «L’apporto dei Giusti è molto importante ma non è che un dettaglio della storia della persecuzione antiebraica nel XX secolo. Se qualitativamente è un elemento di cui tener conto, quantitativamente è stato un fenomeno assai trascurabile. Molto più potente dell’altruismo emerge la mentalità contraria: il disimpegno, l’indifferenza, l’assuefazione alle disgrazie altrui, la pratica della delazione, l’esercizio della violenza. D’altra parte non amo per lo sterminio degli ebrei d’Europa definizioni filosofiche e astratte come "male assoluto", rischiamo di non intenderci. La Shoah si spiega in termini storici e sociali come il disastroso esito di una progetto ideologico teso, tramite l’uso della violenza, all’affermazione dell’ineguaglianza dei popoli e della superiorità spirituale e biologica di una nazione rispetto alle altre. Lo Stato nazista ha operato un letale connubio tra razzismo e antisemitismo e, per la prima volta nella storia, ha avuto la possibilità concreta di realizzare un mito mettendogli a disposizione le sue prerogative e la forza dei suoi apparati: il potere legislativo, il potere esecutivo, la magistratura, la polizia, la comunicazione di massa, la burocrazia, la scuola e molto altro. Queste sono le ragioni che hanno portato dall’ostilità antiebraica proclamata allo sterminio organizzato. L’apporto dei Giusti va letto in un contesto sociale, la loro opera fu resistenza civile che, accanto a quella politica e a quella armata, ha avuto i suoi eroi».

RICCARDI: «La vicenda della Shoah è una storia complessa: storia di vittime soprattutto, tante vittime innocenti, storia di carnefici, storia di indifferenti e di impauriti, storia di stolti e di inermi, e anche storia di giusti. Scrivere la storia di questi ultimi è continuare a conoscere meglio la tragica vicenda dell’Olocausto. I Giusti sono persone singole che a mani nude si sono opposte alla forza dei persecutori e dei carnefici. È una pagina importantissima: una lezione per il nostro tempo. Ricostruire i frammenti (spesso poco documentati) della storia dei Giusti fa anche parte di una conoscenza più approfondita dell’Olocausto. Certo si pone oggi il problema di fronte all’ampiezza della storia: si può ricordare tutto? Si può ricordare sempre? Talvolta la gente non vuole ricordare. Sono convinto che è anche umano dimenticare la storia, anche alcune sue tragedie. Tuttavia, nel Novecento, la Shoah si presenta come un fatto orrendo, immotivato, senza nemmeno l’ombra di una giustificazione. È l’abisso del male. Come dimenticarla? La storia passa; ma la storia della Shoah (e dei giusti) non può passare. Sono stato sempre convinto che la Costituzione europea avrebbe dovuto fissare uno dei suoi riferimenti maggiori nella Shoah: da quell’abisso di male è nata la volontà di una nuova Europa».

Da più parti (compreso il gruppo di ricercatori di Yad Vashem) giungono ormai inviti a considerare l’Olocausto come «patrimonio storico condiviso» dell’umanità e addirittura a studiarlo in paragone con altri genocidi. È legittimo, a vostro parere? Come si accorda tale desiderio con la proclamata «unicità» e «irripetibilità» della Shoah?

PICCIOTTO: «La Shoah ha delle peculiarità, ma nella storia non è affatto l’unico genocidio consumato a danno di un intero popolo. Detto questo, trovo che paragonare la Shoah ad altri stermini sia del tutto improponibile perché questo concetto porta dentro di sè un giudizio quantitativo sul carico di sofferenze che ogni popolo può aver scontato. Gli ebrei hanno terribilmente sofferto nel corso degli Anni Quaranta ma altri popoli, sulla scena della storia, potrebbero essere gli ebrei di domani. In a ltri luoghi, in altri contesti, in altri tempi la Shoah è ripetibile e come!».

CAVAGLION: «Trovo legittima, anzi necessaria qualsiasi attività destinata a salvaguardare la Shoah dal culto di una memoria celebrativa, fine a se stessa. La parola "unicità", logicamente parlando, è priva di senso se disgiunta da "comparabilità". La filosofia insegna che la conoscenza cresce in proporzione alla nostra capacità di considerare insieme la differentia specifica e il genus proximum. Seconda osservazione: perché la Shoah possa diventare un "patrimonio storico condiviso" credo sia vana ogni conoscenza emotiva, "querula", diceva sempre Levi; ma temo altresì una comparazione puramente numerica, giocata a colpi di milioni di vittime, fiumi di sangue versato da vincitori e da vinti. La comparazione seria, quella che aiuta a maturare, dovrebbe innanzitutto "comparare" la storia delle singole nazioni: quelle in cui i principi dell’eguaglianza fissati nell’Ottocento sono stati calpestati e quelle in cui le libere istituzioni hanno retto all’urto dei totalitarismi. Infine, la comparazione dovrebbe avvenire ad un livello culturale più alto: storico, filosofico, ma anche di rappresentazione letteraria o religiosa (la teologia su Auschwitz ha fatto tanti e tali passi in avanti da rendere possibile un ottimo lavoro anche a scuola)».

RICCARDI: «La storia dei genocidi del Novecento è la pagina terribile di questo secolo passato. Si comincia dagli herero in Namibia, poi gli armeni e i cristiani (infatti nella strage degli armeni furono coinvolti anche altri cristiani anatolici), poi gli ebrei, i cambogiani, i tutsi… È stato un secolo terribile. La memoria della Shoah non deve evitare il confronto con questi genocidi: non è un evento metastorico. È un’esperienza che rappresenta la grande piaga del Novecento, la più grande, che mostra la capacità di male raggiunta dall’idolatria della nazione e della razza. C’è tanto dolore e c’è tanto male anche prima e dopo la Shoah nel XX secolo. Ma l ’Olocausto è un patrimonio storico condiviso nel senso che per l’Europa, ma anche al di là di essa, attrae inevitabilmente la nostra attenzione: non si può evitare di parlarne e di ragionarne se si affronta il Novecento. Riflettere sulla Shoah resta un atto dovuto per chi si vuole orientare un minimo nella storia del nostro tempo. Ricordarla resta un riferimento decisivo per la coscienza storica e morale. C’è anche una banalizzazione del modello della Shoah. Oggi si parla di "olocausto" per tante situazioni difficili. Tale banalizzazione, così comune nel linguaggio vittimista del nostro tempo, è da evitare. La Shoah non ha avuto nessun motivo (storico, politico, economico), se non la follia attuata con un’esecuzione razionale. È avvenuta nel Paese del grande illuminismo, di forti tradizioni cristiane, di grande cultura. Vi hanno partecipato vari europei di altri Paesi (tra cui italiani, come è noto), e finanche – seppure in modo marginale – il gran muftì di Gerusalemme».

CARDINI: «Più che di "unicità", parlerei di "esemplarità" dell’Olocausto. Gli ebrei sterminati durante la Shoah rappresentano tutti gli oppressi e i perseguitati della storia, sono i testimoni del suo mysterium tremendum. Io vedo, da cristiano, nella Shoah la tragica conferma del fatto centrale della storia come Storia della Salvezza: la realtà dell’elezione del Popolo d’Israele da parte di Dio. Se non fosse così, quell’orrore sarebbe davvero incomprensibile: può esserlo solo all’interno dell’economia della salvezza. Ma ciò significa che è proprio nel nome dei martiri della Shoah che tutte le vittime di qualunque genocidio vanno ricordate e onorate: è anche a loro che si estende il dovere della memoria. Riflettendo sulla recente visita della delegazione tutsi ruandese in Israele, a Yad Vashem, credo di poter auspicare con forza che proprio da Yad Vashem nasca un’istituzione di ricerca scientifica di alto livello volta non solo allo studio sistematico di tutti i genocidi della storia, ma anche a lle tecniche di elaborazione della memoria. Disponiamo già del resto di un formidabile strumento di sintesi, che dovrebb’essere tradotto in quante più lingue sia possibile ed essere studiato nelle scuole: l’Encyclopedia of Genocide edita nel 1999 negli Stati Uniti a cura di Israel W. Charny, appunto direttore generale di Yad Vashem».

La discussione storica intorno ai «silenzi» di Pio XII e comunque al ruolo dei cattolici di fronte alla Shoah ha ravvivato schieramenti ideologici altrove sepolti, e forse a dispetto della ricerca della verità storica. Come mai, secondo voi?

CAVAGLION: «Non sono un esperto di questo delicato argomento. Stimo molto Giovanni Miccoli e Renato Moro, per lo spirito di equilibrio che li anima. Rinvio pertanto ai loro studi, che guardano con scetticismo a ogni indagine unilaterale, da qualsiasi parte provenga. Del resto il loro stesso lavoro è la dimostrazione degli enormi passi avanti venuti proprio dal mondo cattolico dopo il concilio Vaticano II: conflittuali, direi, se non antagonistici, agli arretramenti della sinistra dopo il 1967. È vero, di recente, la discussione si è riaccesa sul ruolo della Chiesa, ma non mi faccio illusioni: gli schieramenti ideologici non si infiammano soltanto di fronte ai "silenzi" di Pio XII. Per tutta quanta la storia del Novecento è ancora diffusa un’idea "guerresca" di ricerca, nel caso specifico che discutiamo pesano i riflessi della tragedia mediorientale, i modi come questa viene interpretata dalla politica italiana. Spesso il lavoro dello storico è sentito come un prolungamento, con altri mezzi, della lotta politica. Quale che sia la nostra appartenenza, non bisogna arroccarsi su posizioni fortemente identitarie né contrapporre ad ogni lettura strumentale una rilettura di segno opposto. Occorre un faticoso lavoro, metodologicamente, e qualitativamente, più alto. La riscoperta dei Giusti dimenticati potrebbe essere un ottimo banco di prova».

PICCIOTTO: «La Chiesa in Italia segna più nel profondo che altrove la coscienza religiosa e anche la coscienza civile. È logico che da noi il ruolo di guida morale della Chiesa sia sotto osservazione e provochi riflessione. Del resto, quel che si rimprovera da più parti a Pio XII è l’assenza della sua parola di condanna, è mancato in un certo senso un orientamento che inducesse più massicciamente e più decisamente i cattolici a soccorrere i loro vicini ebrei».

RICCARDI: «Bisogna studiare la storia della questione dei silenzi di Pio XII e non solo la realtà. Papa Pacelli non denunciò la Shoah, come Mauriac gli rimproverò negli anni Cinquanta. La sua fu un’altra scelta. Non per questo fu insensibile al dramma degli ebrei che, però, gli sembrò uno dei capitoli – forse il più tragico – di un dramma in corso. Sentiva di avere varie responsabilità in questo dramma e di dover avere un certo equilibrio. Volle che la Chiesa fosse uno spazio d’asilo per i perseguitati, tra cui gli ebrei (lo si vede nel 1943-44 a Roma). Intendeva restare imparziale tra i belligeranti per lasciare aperta la possibilità di una mediazione di pace. Appoggiò la congiura contro Hitler, convinto che il suo regime fosse un’espressione del male. Bisogna studiare a fondo la vicenda al di là della polemica, inquadrarla nella Chiesa e nel contesto storico di quegli anni. Nuove ricerche e nuova documentazione, al di là delle polemiche, aiuteranno una più profonda comprensione non solo dell’uomo, ma della realtà».

CARDINI: «La tragedia dell’Olocausto, purtroppo, va ben al di là del 1945: le sue prossime e remote conseguenze hanno mosso tutto il fangoso fondale della storia, animando ogni sorta di speculazione e di manipolazione. Sono anche convinto che i casi di quel che Finkelstein ha definito "lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei" – a livello politico, massmediale e anche economico – abbiano sinistramente contribuito (pur, va da sé, senza minimamente giustificarle) alla sopravvivenza e perfino alla rinascita di varie forme di pregiudizio an tisemitico; vero è d’altronde che, altrettanto spesso, dietro la denunzia di questo o di quell’abuso, di questa o di quella falsificazione, si è nascosta una pervicace tentazione "revisionista" se non addirittura "negazionista". Bisogna vegliare con rigore e serenità contro queste opposte forme di menzogna, che in realtà si sostengono a vicenda. Riguardo ai "silenzi" di Pio XII, se e nella misura in cui sono stati tali, debbono essere oggetto di studio anche tenendo conto dei possibili esiti di una eventuale più alta denunzia: la storia si può, anzi si deve, fare anche con i "se" e con i "ma". Che cosa sarebbe accaduto concretamente ai cattolici e anche ai molti ebrei che parrocchie, conventi e semplici fedeli proteggevano e nascondevano, in Germania e nei Paesi occupati, se Pio XII avesse parlato chiaro, poniamo nel 1944, dell’Olocausto (ammesso che avesse davvero tutti gli elementi per farlo)? Forse è vero che il conflitto ne sarebbe stato abbreviato: ma a quale prezzo? Credo che in molte "denunzie" tardive e unilaterali dell’atteggiamento di Pio XII prevalga un forte sentimento anticattolico. Invece, mi meraviglio di quanto poco si parli delle reticenze e delle responsabilità dei governi statunitense e britannico, che sapevano e che tacquero; e che addirittura si rifiutarono in alcuni casi di concedere asilo ai profughi ebrei (negli Usa non poterono entrare, fra 1941 e 1943, 40 mila bambini ebrei, respinti nel nome delle "quote d’immigrazione"). Se avessero con forza denunziato il genocidio, attraverso strumenti come Radio Londra, quello sì che avrebbe avuto un effetto dirompente: perché nulla di ciò avvenne?».

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