La STAMPA di giovedì 26 gennaio 2006 pubblica un reportage di Fiamma Nirenstein che riportiamo:
E’ imprevedibile e strano un viaggio nelle elezioni palestinesi, una storia di paura, armi, terrorismo. Betlemme si anima la mattina presto; attorno alla Chiesa della Natività vigila qualche centinaio dei 13 mila poliziotti schierati dall’Autorità palestinese. La mattina porta i segni della speranza, il candidato cristiano indipendente Sami Awad, 34 anni, ci accoglie contento: «Betlemme è la chiave della pace mondiale». Ma qui i cristiani sono in continua diminuzione, dal 70 al 30%, e la campagna elettorale ha mostrato tutti i segni del caos che il mondo teme. Scontri e spari fra fazioni di Fatah, minacce delle Brigate di Al Aqsa, che hanno da poco occupato il comune, armate e mascherate. La lista di Hamas è capitanata dallo sceicco Khaled Tafish, quello che dalla Moschea accese tutti gli altoparlanti mentre Giovanni Paolo II parlava e ora si nasconde, accusato di terrorismo.
Al quartier generale di Fatah Nafis Al Rifai, brizzolato, distinto, occhialini da intellettuale, direttore di tutte le Ong palestinesi, spedisce ovunque auto con foto di Arafat per sorvegliare le elezioni. Due telefonini suonano in continuazione. Al Rifai non teme Hamas ed è amico personale di Marwan Barghouti, vede in lui il leader del futuro. Anche Shuruk, 19 anni, una bella studentessa in jeans, non teme Hamas: «Potrei anche volermi mettere il velo, ma per ora non mi va. E nessuno mi può obbligare». Nei seggi tutto si svolge regolarmente. Hamas è ovunque. Nel quartiere di Salah ha Din, dove la povertà riempie di sudiciume le strade, una discussione fra Ahmad e Mohamed, uno di Hamas e l’altro di Fatah, va al cuore del problema. Ad Ahmad, commesso in un negozio di scarpe, non importa nulla di andare al cinema o di uscire la sera. Hamas fa per lui. Vuole dedicare la sua vita alla lotta, non gli importa di morire: con Israele non si parla. Mohamed, poliziotto, gli fa notare che i negozi si sono riempiti di birra senz’alcool, perché la birra piace anche a Ahmad. Lui vuole il dialogo con Israele.
Ma ecco, una macchina scassata si ferma, saliamo; dopo molti giri a vuoto eccoci dentro una realtà elettorale davvero nuova: Muhammad Shehadeh, uno fra i principali ricercati della Jihad islamica, ci aspetta. Gli israeliani lo cercano da 12 anni: le sue foto - un bell’uomo con la barba nera e l’aria decisa - sono su tutti i muri di Betlemme, ma lui la sua campagna la fa al telefono. Ha 43 anni, raccoglie consensi dovunque, ha persino un collaboratore cristiano. Nel 1980 ha beccato 25 anni di prigione, poi è stato rilasciato nell’85 con uno scambio. Ha continuato le sue attività, nel ‘92 è stato deportato in Libano per un anno. Ma una volta che Shahadeh si è qualificato come maestro in bombe e esplosivi e mandante di attentati, dice Israele, i servizi segreti sono tornati sulle sue tracce.
Mi accoglie in poltrona, a fianco il suo M16. Attorno, quattro uomini armati di kalashnikov. «Mi deve scusare - dice gentile - anche stanotte non ho dormito perché mi sono venuti a cercare. Facciamo presto: non sto mai nello stesso posto più di 40 minuti». I suoi controllano i miei documenti, chiedono informazioni sul mio cognome, offrono shawarma e yogurt.
Shehadah racconta: «Partecipo alle elezioni perché ho una missione, un messaggio per il mio popolo: unità, sforzo materiale e politico per progredire insieme». Ok, ma la Jihad islamica non boicotta il voto? «Sono un uomo libero oggi, non ho niente a che fare con la Jihad, sono religioso ma pronto a una visione aperta». Spera nella vittoria di Hamas? Alla fine Shehadah dice che Fatah gli sembra più aperto, anche alle sue esigenze. «Peccato, però, che Abu Mazen sia debole». Perché debole? Shehadah ha buoni motivi personali per dirlo: la mancata riabilitazione che Abu Mazen aveva promesso nel 2005 è grave per i palestinesi che hanno migliaia di persone in prigione o in clandestinità con la paura di essere eliminati, come lui. Shehadah parla molto e in fretta, non mangia nulla. È ansioso di spiegarsi, per lui queste elezioni sono una possibilità di tornare a vivere: «Sono diverso da come mi dipingono, non sono l’ingegnere balistico numero due (Yehie Ayash con la stessa accusa fu eliminato nel 96, ndr) da decenni non dormo nel mio letto. Ho moglie e sette figli, ma li vedo poco. È una vita dura». Come andrà in Parlamento? «Potrò sempre farmi vivo con mezzi elettronici». E se le sparano dal cielo, con gli elicotteri? Ride: «Allora è volontà di Dio». Di Shehadah si dice che persino Fatah lo cerchi invano, che il suo sia uno dei primi casi in cui un sunnita si è convertito all’Islam sciita sulle tracce di un’alleanza con Teheran.
Ma la sua sola verità, in questo momento, è «mettere i fucili da parte. Non abbandonare la resistenza, ma usarla come un mezzo, solo finché è indispensabile». Si può credergli? Di certo se un potere forte uscisse dalle urne e gli facesse una proposta concreta per una vita senz’armi, magari la accetterebbe. Grande e grosso, imbacuccato in una giacca di pelle nera, sembra stanchissimo, ma i suoi incalzano, bisogna andarsene. Ci caricano insieme a lui e alle guardie del corpo su un pulmino, corriamo su e giù per Betlemme seduti su diversi mitra; a una curva il guidatore frena di scatto: un’auto con il bagagliaio aperto corre verso di noi. Un agguato? No. Uno dei suoi mi sorride: «Ho una paura cane», mi dice in inglese. Scendiamo. Arrivederci Shahadeh, va a votare? Per ora no. Sembra isolarsi, stringe il mitra, ringrazia cupo; l’autista dà gas.
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