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La Repubblica Rassegna Stampa
25.01.2006 Monaco 72 : Israele condannato per legittima difesa
da Sandro Viola e da Abu Daoud, che ideò e pianificò la strage

Testata: La Repubblica
Data: 25 gennaio 2006
Pagina: 18
Autore: Sandro Viola - Alix Van Buren
Titolo: «Quei giorni di Monaco ‘72 spirale di sangue senza fine - Daoud:»

Un lungo, orripilato racconto della risposta israeliana alla strage di Monaco, dopo brevi e freddi cenni al crimine che l'aveva resa necessaria. E' questo il modo scelto da Sandro Viola su La REPUBBLICA del 26 gennaio 2006 peraffrontare gli argomenti trattati  dal film di Steven Spielberg Munich. L amancanza di equità di questo procedimento propagandistico è evidente. 
Aggiungiamo che Viola, riferendole le dichiarazioni di Spielberg trascura quelle relative alla legittimità e alla necessità dell'operazione israeliana. In questo modo la tesi del regista, che il conflitto israelo-palestinese possa avere solo una soluzione negoziata, viene considerevolmente forzata. Essa non esclude di logica, il ricorso da parte di Israele a mezzi militari per garantire la propria sicurezza. E, di fatto, Spielberg a spiegato di ritenere che Israele abbia tutto il diritto di rispondere con la forza alle aggressioni terroristiche. Per Viola invece, la necessità del dialogo significa che israele non ha il diritto di difendersi.
Ecco l'articolo:

   Poche vicende dell´ultimo mezzo secolo mi stanno tanto ancorate nella memoria, inamovibili, come quella raccontata in "Munich", il film di Steven Spielberg che arriva venerdì nei cinema italiani, preceduto dal fragore delle polemiche che ha suscitato nei Paesi dov´era già apparso. Discussioni e controversie che non riguardano la qualità e riuscita del film (visto che esso ha riscosso il plauso d´una grande maggioranza della critica), bensì il suo contenuto. La storia della rappresaglia condotta dai servizi segreti israeliani contro i presunti organizzatori dell´attentato che "Settembre nero", un gruppo terroristico palestinese, compì nel villaggio olimpico di Monaco all´alba del 5 settembre 1972.
Riassumo rapidamente la vicenda. Il commando palestinese penetrò negli alloggi degli atleti israeliani, ne uccise due e ne sequestrò nove. Seguì una trattativa con le autorità tedesche.
Al termine della trattativa gli uomini di "Settembre nero" ottennero d´essere condotti, con i loro ostaggi, in un aeroporto militare, da dove intendevano partire per il Cairo.
Lì giunti (e se nel frattempo gli israeliani avessero liberato circa 200 prigionieri palestinesi), s´impegnavano a rilasciare gli ostaggi. Ma all´aeroporto, attorno alla mezzanotte, gli eventi precipitarono. I tiratori scelti della polizia tedesca presero a sparare contro i terroristi, e questi - subito ai primi spari - fecero esplodere i due elicotteri dove si trovavano gli atleti israeliani, uccidendoli tutti.
Nel film, la sequenza di Monaco è breve e serve ad introdurre il vero racconto. Vale a dire la caccia all´uomo che il Mossad intraprese nei giorni successivi alla strage, eliminando uno dopo l´altro, fallendo un solo bersaglio, i rappresentanti di Arafat in Europa che gli israeliani presumevano coinvolti nella preparazione dell´attentato. Ora, da dove nascono le polemiche che stanno accompagnando l´uscita del film? Riassumo anche qui.
Alcuni (israeliani, organizzazioni ebraiche della diaspora, ma anche osservatori imparziali) sostengono che "Munich" descriva l´accanimento e la spietatezza di quella caccia all´uomo senza dare il giusto peso alla necessità politica - e al diritto morale - che Israele aveva di reagire alla strage dei suoi atleti. Altri hanno visto una propensione del regista a comprendere meglio, "di più", le motivazioni della lotta armata palestinese che non le esigenze di sicurezza israeliane. E non c´è dubbio che la discussione s´accenderà nei prossimi giorni anche da noi.
A chi è insorto contro lo spirito del film, Spielberg ha risposto che egli lo ha girato avendo in mente un´idea, per lui stesso almeno, molto chiara. Dimostrare che le rappresaglie servono quasi soltanto a partorire altre rappresaglie, a versare altro sangue, a desolare comunità e famiglie, a incancrenire gli odi, rendendo così sempre più difficile, sempre più lontano, il solo modo di risolvere un conflitto come quello israelo-palestinese: il dialogo. Sedersi a parlare, e restarvi sino a quando - per usare le parole di Spielberg - «i sederi degli uni e degli altri non abbiano preso la forma d´una sedia».
Non entro, per ora, nella discussione. Intendo solo fornire una testimonianza su quanto vidi in Israele (e poi in Libano) nelle ore e giorni successivi all´attentato di Monaco.
Giunsi a Tel Aviv, infatti, nel pomeriggio del 6 settembre, all´indomani della strage all´aeroporto. Trovai la città attonita, come folgorata. Il colpo sferrato da Settembre nero aveva avuto, inutile dirlo, un effetto psicologico terribile. D´un tratto, il sentimento di sicurezza che la propria potenza militare aveva dato agli israeliani, nel ‘67, con la strepitosa vittoria nella guerra dei Sei giorni, sembrava dissolto.
Le bare degli atleti erano giunte poche ore prima, accolte da migliaia di persone dai volti impietriti, all´aeroporto di Tel Aviv. Essendo morta quello stesso giorno una sua sorella, il primo ministro Golda Meir non c´era. Ma c´erano Dayan, Allon, Peres, Eban, Eizman, Begin e tutti gli altri esponenti politici del paese. Non venne organizzato un funerale collettivo. Dopo una breve, sobria cerimonia, ciascuna famiglia prese la sua bara e partì per il cimitero della propria città.
Benché in tutti i discorsi che s´ascoltavano fosse chiaro che la gente aspettava di vedere quando e come Israele avrebbe reagito, per quasi due giorni non accadde nulla. Ma il terzo giorno, quando già mi preparavo a rientrare in Italia, il governo Meir dette inizio alla rappresaglia. Raid aerei su Siria e Libano contro i campi profughi e le basi delle formazioni armate palestinesi, incursioni di mezzi corazzati oltre il confine libanese sino al fiume Litani, la zona da cui i fedayn di Arafat lanciavano le loro azioni contro Israele ed era perciò chiamata Fatahland. L´8 settembre l´aviazione bombardò in Siria i sobborghi di Damasco e Latakia, e in Libano la regione tra Tiro e Nabatyeh. Ci furono molti morti, e già nei tre o quattro giorni successivi - i bombardamenti continuavano senza interruzioni - calcolammo che le vittime della rappresaglia israeliana dovevano ormai essere 10-15 almeno per ognuno degli atleti uccisi a Monaco.
In quei primi giorni, se bisogna credere alla ricostruzione di Spielberg, l´azione d´un commando del Mossad contro i rappresentanti dell´Olp in Europa non era ancora stata decisa.
Il film mostra infatti una riunione cui partecipano ministri e comandanti militari, durante la quale Golda Meir annuncia che il Mossad avvierà una serie d´esecuzioni mirate contro i probabili organizzatori dell´impresa terroristica di Settembre nero. E lì un alto ufficiale interviene a mezza voce, perplesso: chiede se la risposta militare in Siria e Libano, che ha già provocato tanti morti, non possa considerarsi sufficiente. Obbiezione cui la Meir, se ricordo bene, non risponde. La cosa certa è che il 14 settembre, dopo quasi una settimana di bombardamenti, il primo ministro annunciò alla Knesseth che Israele avrebbe reagito all´eccidio dei suoi atleti «con misure mai prese» sin allora.
Fu quindi attorno alla metà di settembre che gli agenti del Mossad incaricati della caccia all´uomo descritta nel film, arrivarono in Europa. Di questa missione dei servizi segreti circolò subito, a Tel Aviv, qualche vaga voce. Un giornalista israeliano mi raccontò che a capo della missione poteva esserci l´ex generale Sharon, un nome che fuori d´Israele era a quel tempo pressoché sconosciuto. L´ex generale aveva comandato a suo tempo l´unità 101, una formazione semi-regolare che negli anni Cinquanta era stata famosa per le rappresaglie condotte in vari villaggi palestinesi, alcune tanto sanguinose da provocare lo sdegno dello stesso primo ministro d´allora, David Ben-Gurion.
Il 101, continuò il giornalista, figurava da anni come formalmente disciolto, ma era ben possibile che fosse stato rimesso sui binari per eseguire la ritorsione annunciata dalla Meir. Dal bar del Dan dov´eravamo, telefonai allora a questo signor Sharon nella sua fattoria del Negev. Il generale mi rispose con cortesia. Mi consigliò di non credere alle leggende che correvano attorno all´unità 101, col quale lui, comunque, disse di non aver più a che fare. E quanto alla possibilità di ricevermi, gli dispiaceva molto ma gliene mancava assolutamente il tempo.
Poiché era soprattutto il Libano l´obbiettivo delle rappresaglie, noi giornalisti che nella prima settimana avevamo seguito da Tel Aviv la risposta militare del governo Meir, ci trasferimmo - via Cipro - a Beirut. Vi ero appena arrivato, il tempo di poggiare la valigia nella mia stanza al Saint George, quando sentii alla radio che le quattro colonne corazzate israeliane entrate nel Sud Libano nei giorni precedenti, avevano cominciato a ritirarsi. Con due colleghi italiani ci precipitammo allora verso Tiro e oltre, tra il Litani e Nabatyeh. Le prime devastazioni le incontrammo a Juaya. I campi stavano bruciando, bruciava la macchia tra le colline e il mare, sulle case annerite dagli incendi s´alzavano ancora densi pennacchi di fumo.
Nel piccolo paese, ci condussero a vedere i morti tra le macerie: un paio già infilati nei sacchi di plastica, un paio appena lavati e composti, e un vecchio ancora nel suo letto, rigido in posizione seduta e cosparso dai calcinacci del tetto sfondato a colpi di cannone, morto probabilmente d´infarto. Ma fu all´uscita da Juaya, tornando verso Beirut, che ci aspettava l´immagine più sconvolgente. Un taxi schiacciato dai cingoli d´uno o due carri armati pesanti, ridotto a un ammasso di lamiera come quelle sculture dette "compatte", e tra le lamiere i corpi straziati di varie persone, forse un´intera famiglia che stava fuggendo verso nord. Un tragico errore di manovra, ci sforzammo di pensare, da parte dei carristi. Tutta l´area era comunque devastata. All´ingresso di Tiro una scuola era stata interamente demolita, a Nabatyeh l´ospedaletto palestinese era mezzo diroccato, a Bent Jibail contammo una quindicina di case semidistrutte.
Certo, in quegli stessi luoghi avrei visto dieci anni esatti dopo, quando l´esercito israeliano invase il Libano al comando di Ariel Sharon ministro della Difesa, anche più morti e maggiori distruzioni. Eppure il ricordo che conservo di quel settembre ‘72, degli effetti che otto o nove giorni di bombardamenti israeliani avevano provocato nei piccoli villaggi e cittadine del Sud Libano, è più nitido, più penoso.
Quel che allora non sapevo, tuttavia, è che s´era trattato soltanto d´un prologo. D´una specie di "ouverture funebre".
Perché intanto gli uomini del Mossad stavano per iniziare in Europa la parte più significativa della rappresaglia.
Cominciando da Roma, dove esattamente un mese dopo avrebbero ucciso con quattordici colpi di rivoltella il nostro amico Wael Zwaiter, un intellettuale amico anche di Moravia e Pasolini, che ancor oggi proprio non riesco a immaginare nei panni del terrorista. Il Mossad ne sapeva più di noi? E´ possibile: ma quando i suoi servizi segreti ammazzano qualcuno, il governo d´uno Stato democratico dovrebbe forse dire (e se non subito, dopo un certo tempo) due parole sulla necessità che aveva di crivellarlo a rivoltellate. Non a caso, quando nel film il capo dei giustizieri del Mossad comincia, dopo aver già eliminato vari esponenti palestinesi, a nutrire qualche dubbio sulle ragioni morali dell´operazione, dice più o meno: «Senza prove certe della loro colpevolezza, ucciderli è un puro e semplice assassinio».
Sì, certo, la polemica s´accenderà nei prossimi giorni anche in Italia. In parte essa ricalcherà le stesse divisioni che esistono nella nostra opinione pubblica, ormai da decenni, tra pro-israeliani e pro-palestinesi. Divisioni che non si sono mai ricomposte perché né gli uni né gli altri hanno mai voluto riconoscere che nel conflitto tra i due nazionalismi di Palestina nessuno è completamente dalla parte del torto, e tutti hanno anzi le loro ragioni. Ma soprattutto verrà discussa la "tesi Spielberg".
Vale a dire: hanno avuto un´utilità politica le rappresaglie, e le rappresaglie alle rappresaglie, e i kamikaze, i servizi segreti, gli omicidi mirati, insomma l´interminabile, terribile catena di violenze snodatasi nei trentatré anni trascorsi dal massacro di Monaco a oggi? O non hanno ammorbato ancor più gravemente il contesto del conflitto israelo-palestinese? E´ vero che rimanere inerti sotto i colpi dei terroristi non è possibile. Ma quando la spirale attentati-rappresaglie aveva ormai mostrato d´essere inarrestabile, col solo risultato d´annichilire ogni tentativo di dialogo tra le parti, non si sarebbe potuto, dovuto, mettere in discussione l´utilità e il fine di tante carneficine?
Perché la violenza - Spielberg ha ragione - distorce, ammala la mente degli individui. «All´inizio», dice nel film il capo dei giustizieri israeliani alludendo alle prime esecuzioni operate dalla squadra, «era davvero molto duro. Ma adesso posso andare ad uccidere senza farmene un problema».

All'articolo di Viola, REPUBBLICA  affianca un 'intervista di Alix Van Buren ad Abu Daoud , uno dei pianificatori della strage. Senza repliche Daoud rivendica il crimine, cerca di scaricarne la responsabilità sul rifiuto israeliano di liberare terroristi condannati per altri delitti, afferma, implicitamente, la legittimità dell'uccisione di qualsiasi israeliano abbia fatto il servizio militare, nega che gli israeliani abbiano ricercato i responsabili della strage, sostenendo che volessero invece colpire indistintamente,  distingue capziosamente tra operazione antiterroristica contro i responsabili della strage e "guerra segreta" contro l'organizzazione che l'aveva voluta politicamente. Parole squallide e agghiaccianti, che avrebbero meritato di essere presentate per quello che sono: le farneticazioni di un criminale. REPUBBLICA non lo ha fatto, e anzi ha conferito con l'impaginazione alla rivendicazione di Daod la stessa dignità di quella di Ehud Barak, all'epoca membro delle forze speciali israelinae impegnate nella neutralizzazione dei terroristi. Ecco il testo:

DAMASCO - Abu Daoud sibila: «Monaco, lo rifarei daccapo». Trentatré anni dopo il massacro, l´uomo che ideò e progettò l´operazione è un gigante con la chioma canuta, anziano guerrigliero errante tra le capitali arabe alla ricerca di un rifugio da un passato che lo incalza.
Abou Daoud, il mondo ha ancora negli occhi l´orrore di quel massacro. Perché architettarlo?
«L´idea è nata il mattino del 13 luglio a Roma. Sedevamo a un bar del Pantheon. Aspettavo Abu Iyad (ministro degli Interni di Fatah, ndr). Con Fakhri al Omari, il suo consigliere, sfogliamo i quotidiani arabi. Fakhri legge un trafiletto: il comitato olimpico respinge la domanda di partecipazione della Palestina. Avevamo spedito a Ginevra montagne di richieste, mai una risposta. Ed ora eccola, in quelle poche righe. Motivo del rifiuto: la Palestina non esiste. Bene, dico io, questa è l´occasione giusta».
Giusta perché, secondo lei?
«Per imporci agli occhi del mondo. L´Occidente a quel tempo ignorava l´esistenza della Palestina. Noi l´avremmo imposta a 500 milioni di spettatori».
E per questo lei ha scelto un teatro di sangue?
«No, le cose dovevano andare diversamente. Fatah condannava i dirottamenti perché colpivano i passeggeri. I nostri obiettivi dovevano essere militari».
Allora gli atleti che cosa c´entravano?
«A Monaco eravamo tutti combattenti, di due fronti avversari. I nostri erano fedayin, mettevano in conto la morte. Quanto agli israeliani, erano militari prima che sportivi. Joseph Romano, il campione di pesi, partecipò alla guerra dei Sei giorni in Cisgiordania e Golan. Moshe Weinberg, l´allenatore, era anche lui dei commando speciali. Ma non doveva finire così. Noi confidavamo nel negoziato, per liberare i prigionieri palestinesi. Non avevamo previsto l´intransigenza di Golda Meir».
Ma così iniziò anche una nuova scia di sangue, la vendetta di Israele. Abu Daoud, com´è vissuto lei in questi trent´anni?
«Era difficile venire a prendermi fra i miei uomini, nelle basi militari. Gli israeliani per ritorsione colpirono gli obiettivi più facili, i campi profughi palestinesi in Libano. A me spedirono un killer, ma molti anni dopo, a Praga. Però, ascolti: per anni gli israeliani non hanno saputo chi fosse davvero dietro il sequestro di Monaco. Spielberg racconta soltanto una leggenda. La verità è un´altra».
Qual è?
«Che fra noi si combatteva una guerra nell´ombra. Il Mossad tentava di infiltrare le nostre organizzazioni, di eliminare gli intellettuali e i moderati che davano voce alle ragioni palestinesi. E noi, di eliminare gli agenti avversari. Non è vero che la squadra di Golda Meir abbia sbagliato obiettivi. Era una guerra camuffata sotto il manto di Monaco: non uno dei palestinesi abbattuti ha partecipato a quell´operazione».
Qualche esempio?
«Wael Zwaiter, il rappresentante dell´Olp a Roma. Un filosofo, un intellettuale, parlava cinque lingue, amico di Moravia, non aveva mai impugnato un´arma. Come Ghassan Khanafani, giornalista e scrittore, ucciso a Beirut alla vigilia di Monaco, e così pure Abu Yussef, Kamal Adwan e Kamal Nasser, assassinati sei mesi dopo a rue Verdun, dal commando di Ehud Barak. Ma con l´assassinio di Zwaiter a Roma, il conflitto venne esportato in Europa».
Gli attentati in Italia, noi li ricordiamo bene: il terminale petrolifero in fiamme a Trieste, la bomba sull´aereo El Al decollato da Roma. E poi quali altre piazze d´Europa?
«Madrid, gennaio ‘73; con l´uccisione di Baruch Cohen, liquidammo l´intera rete del Mossad in Spagna e nelle maggiori capitali europee. In Italia, nel ‘74, concludemmo un accordo con il governo. Se l´Italia avesse impedito agli israeliani di colpirci, noi avremmo terminato ogni azione. Quell´anno Fatah liquidò anche Settembre Nero. Il nostro obiettivo era raggiunto. La causa palestinese era sull´agenda delle cancellerie occidentali».

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