Il Corriere della Sera di mercoledì 25 gennaio pubblica un corretto articolo di Elisabetta Rosaspina che riportiamo:
GERUSALEMME — Non specifica dove né quando, ma Ehud Olmert, primo ministro ad interim, conferma che Israele si ritirerà anche da parte della Cisgiordania, dopo aver abbandonato la Striscia di Gaza.
Conserverà le colonie principali, il controllo su zone strategiche per la sicurezza, i luoghi sacri a Israele e, soprattutto, Gerusalemme unita sotto il suo controllo. Ai palestinesi lascerà territorio quanto basta perché possano creare un loro Stato indipendente, purché rinuncino, beninteso, a guerreggiare con Israele e neutralizzino gli estremisti. In meno di mezz'ora di intervento alla Sesta conferenza di Herzliya, organizzata dal centro di studi strategici, Olmert delinea il suo programma nel primo discorso ufficiale da capo di governo, dopo il ricovero di Ariel Sharon in ospedale il 4 gennaio scorso.
Olmert anticipa così anche i suoi cavalli di battaglia elettorale, in vista delle consultazioni politiche del 28 marzo. Interrotto da un paio di scrosci di applausi, il vice di Sharon, candidato alla sua successione quale capolista del nuovo partito, Kadima, non rappresenta più soltanto la voce e la volontà del premier in coma, ma le intenzioni dello schieramento favorito dai pronostici: «L'assoluta priorità di Israele, ora, è di stabilire confini certi con i palestinesi per salvaguardare la maggioranza ebraica all'interno dello Stato» ha detto ieri sera.
Spiegando perché gli israeliani devono prepararsi a rinunciare ad altre porzioni di territorio: «Dobbiamo scegliere tra permettere agli ebrei di vivere ovunque nel territorio di Israele o in un Paese a sicura maggioranza ebraica. Non possiamo più permetterci di controllare aree a maggioranza palestinese». Per questo motivo, ha chiarito Olmert, il ritiro da Gaza è stata una svolta decisiva nella storia della nazione israeliana.
Riferendosi alla road map e alla sua intenzione di rianimare il piano di pace patrocinato dagli Stati Uniti e dall'Europa, Olmert ha assicurato che Israele appoggerà la creazione di uno Stato palestinese: «Uno Stato moderno, democratico e del tutto indipendente sarà possibile, però, solo se l'Autorità palestinese riuscirà a fermare gli attacchi terroristici». La domanda era nell'aria, dentro la sala della conferenza di Herzliya, pochi chilometri a Nord di Tel Aviv: e se domani, a scrutini terminati, dovesse essere sancita la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi? «Mi auguro — ha implicitamente risposto Olmert — che i palestinesi non scelgano ancora una volta gli estremisti che li hanno condotti di tragedia in tragedia a una vita piena di dolori».
Se i negoziati dovessero fallire, se Israele non dovesse trovare interlocutori nel governo che oggi sarà partorito dalle urne palestinesi, Olmert non esclude il ritorno a decisioni e iniziative unilaterali: «Preferiremmo un accordo, secondo i passi stabiliti dalla road map, ma, se i partecipanti non terranno fede ai loro impegni, garantiremo la sicurezza e gli interessi degli israeliani con ogni metodo».
Di seguito, l'editoriale di Antonio Ferrari:
Se cinque mesi fa, con il ritiro israeliano da Gaza, la pace offriva almeno la speranza d'essere più abbordabile, ora è decisamente meno vicina, e da stasera potrebbe essere molto lontana. Quale che sia l'esito delle elezioni di oggi, nulla sarà più come prima.A poche ore dal voto palestinese, mentre frettolosi sondaggi sembrano riprodurre una crudele fisarmonica, allungando e accorciando la distanza fra i due maggiori partiti, Fatah (laico) e Hamas (confessionale), gli estremisti scaldano i muscoli. A Nablus, un attivista del Fatah è stato ucciso da un commando delle Brigate Al-Aqsa, espresse dal suo stesso partito, soltanto perché la vittima aveva reagito al tentativo di distruggere un manifesto del capolista. E' solo un'anticipazione di quanto potrebbe accadere quando saranno noti i risultati di una minuscola elezione che inquieta e preoccupa il mondo intero. Perché, se non prevarrà la ragionevolezza, c'è il rischio di precipitare nel caos.
E' inevitabile che, nelle ultime ore febbrili, si moltiplichino i colpi bassi e si diffonda il sapore di probabili irregolarità. L'altro giorno, in un minuscolo ufficio postale all'estrema periferia della Gerusalemme araba, due ragazze, capo coperto da foulard colorati, impegnate a raccogliere le registrazioni per il voto, annotavano le generalità degli elettori; un'altra ragazza, con i capelli sciolti e i jeans, controllava i documenti. «Vuole iscriversi anche lei?» «No, grazie. Sono un giornalista straniero». «Se ha un documento, potremmo anche registrarla» ha risposto con un sorriso la giovane palestinese, soddisfatta della propria battuta di spirito. Ma sarà stata solo una frase scherzosa? L'eventualità di brogli, per correggere un voto cruciale per la giovane storia dell'Anp, non va sottovalutata. La posta in palio non sono solo i 132 seggi del Parlamento, ma il futuro del processo di pace e la possibilità (o meno) di isolare degli estremisti.
Gli ultimi sensori della volontà popolare sembrano rincuorare un poco i laici del Fatah, mentre gli integralisti di Hamas continuano a inseguire. Un anno fa sarebbe stato un disastro; oggi la previsione è persino rosea, perché si stava prospettando un umiliante sorpasso. Che avrebbe conseguenze, interne e internazionali, assai pesanti. Ma la dietrologia, che qui a Ramallah, capitale virtuale dell'Anp, regna sovrana, ha già provveduto a mischiare le carte, offrendo letture contrapposte imbevute dei più disparati sospetti. Pochi accettano la realtà come appare: con la vecchia guardia del Fatah in affanno, e con Hamas trasformato in un ampio contenitore di estremismo, di protesta e insieme di verbale ragionevolezza, e come tale pronto a diventare per la prima volta autorevole partito politico, magari con qualche presenza nel futuro governo.
Davanti alla Muqata, non lontano dalla tomba di Yasser Arafat, il picchetto d'onore è in marcia per il cambio della guardia di fine mattinata, ma il piazzale è desolatamente vuoto. Negli uffici del governo palestinese, invece, è tutto un rincorrersi di persone, fax, telefonate, sospiri. Alcuni attivisti discutono già su chi potrà essere il capo del futuro governo: se l'inossidabile Nabil Shaat, che un tempo veniva vezzeggiato dalle cancellerie occidentali ma che non gode di grande sostegno popolare, oppure l'ex ministro dell'economia Salam Fayyed, ritenuto un esempio di integrità e soprattutto gradito sia agli Usa sia a Israele, che si presenta assieme ad Hanane Asrawi nel piccolo partito della «Terza via». Al di là dei consensi che otterrà, sembra il favorito per il posto di primo ministro.
Eppure, in caso di vittoria del Fatah, il più votato sarà l'ergastolano-capolista Marwan Barghouti, che dalla prigione israeliana ha lanciato un appello perché il futuro governo sia una «grande coalizione», proprio con Hamas. Ipotesi possibile, anzi probabile, perché l'assunzione di responsabilità da parte degli integralisti dovrebbe contenerne gli aspetti più violenti.
Rafiq Husseini, capo di gabinetto del presidente Abbas, mi riceve con un sorriso rilassato nel suo ufficio alla Muqata. La grande paura del sorpasso sembra passata. E anche le voci di un aperto sostegno degli Usa ad alcuni candidati del Fatah vengono frettolosamente liquidate. «Non è una sorpresa sapere che gli americani sostengono l'Anp. I quattrocento milioni di dollari all'anno che ci danno non sono opere di carità ma aiuto politico. Noi siamo per la legalità internazionale, per Oslo, per la Road Map. Se Hamas accetta di condividere i nostri valori, la collaborazione è possibile». Ottimismo che nasce dalla volontà ma che tende a soffocare il timore di un fatale salto nel vuoto.
Interessante l'articolo di Lorenzo Cremonesi sul ruolo dei "clan" nella politica palestinese:
Il gruppetto di uomini in civile, ma armati di Kalashnikov e bombe a mano, cammina veloce senza guardare il carnevale di manifesti elettorali, slogan e bandiere verdi gialle e rosse lungo la strada. La gente li lascia passare intimorita. Loro sventolano i mitra come fossero clave. La polizia se ne resta a distanza. Sono una pattuglia degli Al Masri, il clan famigliare di Bet Hanun, appena a Nord di Gaza City, che da un mese fa battaglia con quello degli al Kafarnah. Il motivo? «Tutto è iniziato dallo scontro stradale tra un carretto tirato da un mulo degli Al Masri e un'auto dei Kafarnah. Si sono sparati contro, sono iniziate le vendette, da allora ci sono stati almeno 10 morti» raccontano a Gaza. Una delle tante storie della progressiva tribalizzazione tra il quasi milione e mezzo di residenti nella «striscia della disperazione», che sino all'ultimo ieri ha condizionato la vigilia delle elezioni. Oggi si voterà in tutti i territori che vennero occupati da Israele al tempo della guerra del 1967. Le seconde elezioni politiche dopo quelle del 1996 e le presidenziali di un anno fa. Ma a Gaza più che altrove resta il timore del caos crescente. Non tanto per la sfida elettorale tra il Fatah del presidente Mahmoud Abbas e il fronte islamico di Hamas (gli ultimi sondaggi indicano che i primi potrebbero ottenere 59 seggi contro 54 per i secondi sui 132 del Parlamento). Ma quanto per la violenza tra i clan famigliari (le Hamule, come vengono tradizionalmente chiamati nel mondo arabo).
Ieri sette tra i gruppi di fuoco più estremisti dei due schieramenti (tra loro le Brigate Al Aqsa per il Fatah e Ezzedin al Qassam per Hamas) hanno firmato un «patto d'onore», in cui affermano di astenersi da qualsiasi forma di violenza per non disturbare il voto e gli scrutini. Ma a Gaza la paura è che le «hamule» tornino a darsi battaglia per questioni di criminalità, onore e controllo del territorio. «Certo questo è un problema grave. Ricordo che, quando venni come osservatore al voto del 1996, la questione sicurezza era inesistente. Oggi rappresenta la grande incognita» afferma il generale dei Carabinieri Pietro Pistolese, che da circa 2 mesi comanda la settantina di osservatori internazionali (gli italiani sono 10) a Rafah, il valico di frontiera con l'Egitto. «La tribalizzazione della società palestinese giocherà un ruolo fondamentale anche alle elezioni. Interi clan famigliari seguono ormai gli ordini di voto dettati dai loro capi» conferma Eyad Sarray, noto sociologo di Gaza.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera