A Jenin "non c'è spazio per la speranza ". A causa del " Muro che frantuma in mille ghetti la Cisgiordania, divide villaggi e famiglie, divora terre coltivabili", dei check point... Gaza è rimasta una "prigione a cielo aperto"..
La disinformazione antisraeliana, da quando è iimpresentabile nell'edizione cartacea dell'Unità, si è rifugiata in quella on-line. A curarla non sono solo Maurizio Debanne e compagnia del web. Anche Umberto De Giovannageli, quando entra nella rete, riscopre le vecchie abitudini e ritorna l'u.d.g. che abbiamo imparato a conoscere in anni di disinformazione antisraeliana.
Di seguito, l'articolo "Jenin, la politica è lontana dalla capitale dei kamikaze", del 20/01/2006:
A Jenin, nel cuore della Cisgiordania, non c'è spazio per la speranza. Qui, nella roccaforte dei duri dell'Intifada armata, i sentimenti che predominano sono quelli della rabbia, del disincanto, della devastante percezione che il futuro è sofferenza e il presente è imbevuto di propositi di vendetta. A Jenin l'Autorità nazionale palestinese è una finzione. A Jenin comandano i ragazzi col volto mascherato e perennemente armati. A Jenin l'unica legge che conta è quella dei kalasnikov. Mahmoud, 19 anni, fa parte della cellula locale delle Brigate Al-Aqsa, il gruppo armato vicino all'ala radicale di Al-Fatah. Mahmoud e i suoi compagni non andranno a votare: «È una finzione - dice - non possiamo muoverci, gli israeliani ci danno la caccia per farci fuori, e c'è chi ci chiede di votare per far finta di essere un popolo libero». Fino a pochi giorni fa a Jenin erano presenti i primi osservatori europei chiamati a monitorare lo svolgimento delle votazioni e a super visionare sulla regolarità delle procedure. Gli osservatori hanno dovuto abbandonare i loro nobili propositi e lasciare in fretta e furia la città. Il perché ce lo spiega Mahmoud: «Non ce l'abbiamo con loro - dice - ma non possiamo garantire la loro incolumità. Votare sotto occupazione sionista è una inaccettabile presa in giro. Qui la gente è esasperata, le armi circolano e qualcuno potrebbe inscenare qualcosa di poco piacevole nel giorno delle votazioni». È più che un rischio. È una certezza. Di campagna elettorale nemmeno a parlarne. Sui muri compaiono sporadici manifesti di candidati, qualche slogan pro-voto, ma di comizi neanche l'ombra. D'altro canto, la speranza fa fatica a crescere sotto il Muro che frantuma in mille ghetti la Cisgiordania, divide villaggi e famiglie, divora terre coltivabili; è difficile ragionare di politica o puntare sul dialogo se sei costretto quotidianamente a trascorrere ore e ore di umiliante attesa ad uno degli innumerevoli check-point istituiti dall'esercito israeliano in tutta la Cisgiordania. Gli ultimi sondaggi danno conto di un testa a testa tra Al-Fatah e Hamas, ma nessuno si azzarda a quantificare la partecipazione al voto. Il disincanto è grande, ma è altrettanto grande è la determinazione di quanti hanno comunque scelto di esserci, e da protagonisti, in questa competizione: «Non votare significa rinunciare a un nostro diritto e condannarci alla passività. E io non voglio ridurmi al silenzio o lasciare che a decidere per me siano quelli che si sentono forti perché usano le armi e pretendono di decidere per me», dice Khalida, 22 anni, attivista di Al-Fatah a Ramallah. Lei sa già chi scegliere: «Certo - afferma decisa - il mio voto andrà a Marwan Barghuti, un eroe dell'Intifada tenuto prigioniero dagli israeliani». Per contrastare l'avanzata di Hamas, il moderato Abu Mazen ha dovuto affidarsi a «Mr.Intifada» e riempire la lista di militanti del Fatah in carcere in Israele, di «giovani colonnelli» cresciuti nel fuoco della prima «rivolta delle pietre», di vedove di «martiri», centellinando la presenza di ministri ed esponenti della vecchia guardia.«Per rimontare la china - spiega a l'Unità Sari Nusseibeh, rettore dell'Università Al-Quds di Gerusalemme Est, tra i più acuti analisti politici palestinesi - Fatah deve mostrarsi altra cosa da quell'apparato burocratico che ha amministrato malamente in questi anni i Territori, dilapidando assieme al denaro pubblico anche una buona fetta di credibilità». Ed è su questo aspetto, più ancora che sull'irredentismo nazionalista in chiave islamica, che Hamas ha fatto campagna elettorale e ha rafforzato il suo credito, tra i diseredati dei campi profughi come tra i giovani universitari in cerca di un riscatto identitario. A Nablus come a Gaza City, a Ramallah come nei desolati campi profughi della Striscia, leader e candidati islamici mettono tra parentesi gli infuocati proclami jihadisti per promettere cose più prosaiche: fogne, elettricità, benessere. E una spietata lotta alla corruzione. Un profilo «pragmatico» che ha aperto in Israele una discussione fino a poco tempo fa improponibile: la possibilità che una «prova di governo» modifichi i caratteri di Hamas e permetta l'apertura di un confronto non più (o solo) militare ma politico. Una prospettiva resa meno fantascientifica dalla piattaforma elettorale di Hamas che non fa riferimento esplicito alla distruzione dello Stato d'Israele, anche se ribadisce l'opzione della lotta armata. Di fatto si presenta più moderata rispetto alla Carta costitutiva di Hamas del 1988.La forza di Hamas è nel fallimento dell'Anp. È nell'incapacità dimostrata dalla nomenklatura «arafattiana», «i tunisini», a compiere quel fondamentale salto di mentalità da capi guerriglieri a classe dirigente di uno Stato in formazione. Dietro il caos armato che regna nella Striscia di Gaza e alla scoraggiante inerzia dei servizi di sicurezza dell'Anp, a cui fa da contraltare la disciplinata macchina politico-militare di Hamas, c'è il tracollo di una leadership. C'è un'economia sull'orlo della bancarotta, e questo non solo perché Gaza, a cinque mesi dallo storico ritiro israeliano, resta comunque una immensa prigione a cielo aperto, isolata dal mondo, dove la libera circolazione di merci e di persone è ancora una illusione. Non c'è solo il pugno di ferro israeliano a spiegare una bancarotta che i dati fotografano spietatamente: 2/3 della popolazione della Striscia (in totale 1.280.000 persone) vive con 2,20 dollari al giorno; la disoccupazione ha superato in molte realtà il 52% della forza lavoro attiva; il 70% dei giovani tra i 16 e i 25 anni è senza occupazione. Un esercito di senza futuro alla mercé dei «signori del terrore» ( i più agguerriti dei quali sono gli emissari di Abu Musab al Zarqawi, il capo di Al Qaeda in Iraq che ha deciso di esportare prima in Giordania e ora nei Territori la guerra terrorista e puntare a gestire in proprio una terza Intifada jihadista) che ai potenziali «shahid» non garantiscono solo il passaporto per il Paradiso di Allah popolato da vergini compiacenti, ma anche una manciata di dollari per tirare avanti. Qui a Gaza, Anp è sinonimo di corruzione, di inefficienza, d'incapacità assoluta a garantire «legge e ordine», al punto che l'Unione Europea di fronte al peggioramento delle condizioni di sicurezza nei Territori ha deciso ieri di sospendere temporaneamente le attività umanitarie in alcune aree più a rischio. Nella Striscia la vittoria di Hamas è scontata. Resta da verificarne le dimensioni. La partita è invece ancora aperta in Cisgiordania, dove più che l'appeal (in caduta) di Abu Mazen fa presa, soprattutto nell'elettorato giovanile, il «mito Barghuti». Un mito a cui «Mahmoud il moderato» si aggrappa per affrontare, con qualche residua chance di successo, la «guerra delle urne».
Sull'edizione cartacea, va riconosciuto, u.d.g. propone una cronaca sostanzialmente corretta "Elezioni palestinesi , Abu Mazen spera" e un'interessante intervista all'analista israeliano Danny Rubinstein, "Hamas vuole il parlamnto per il governo aspetterà", che riportiamo:
Le elezioni palestinesi e gli scenari futuri visti da Israele. Ne parliamo con Danny Rubinstein, celebre columnist del quotidiano «Haaretz», uno dei più autorevoli analisti della questione palestinese. Tra i suoi libri tradotti in numerose lingue, ricordiamo «Il mistero Arafat». «Hamas - rileva Rubinstein - non intende ancora cimentarsi con il governo. Ha invece interesse a condizionarne fortemente l'operato, anche attraverso la presenza di quegli indipendenti che ruotano nell'orbita islamica».
Domani i palestinesi dei Territori si recheranno alle urne per il rinnovo del loro Parlamento. I sondaggi indicano un testa a testa fra Fatah e Hamas. Questo è più un segnale di estremizzazione ideologica dell'opinione pubblica palestinese oppure è il frutto del fallimento della vecchia leadership «di Tunisi»?
«I termini della questione non sono così netti e chiari da poter essere posti solo su un piano ideologico o generazionale. Nelle democrazie occidentali siamo abituati a vedere scontri elettorali che scendono su un piano personale. Fra i palestinesi i temi sono differenti. Hamas dice di Fatah e di sé stesso: avete fallito politicamente accettando i termini limitativi di Oslo e degli altri accordi successivi senza che questo portasse a nulla. Non si possono ottenere risultati politici abbandonando la strada della resistenza - parola in codice per libertà di continuare ad attaccare Israele con attentati terroristici -; non presentateci come fondamentalisti perché non siamo Al Qaeda e, qualora venissero a verificarsi determinate condizioni - siamo disposti perfino a parlare con Israele; avete messo in piedi un apparato in cui regna la corruzione; noi siamo gli unici che possiamo correggere tutto questo e restituire pulizia e trasparenza alla gestione politica e onore al popolo palestinese...».
Quale è la replica di Fatah?
«Fatah risponde da parte sua a Hamas: se sul piano politico abbiamo fatto errori, con quale diritto venite a giudicarci? Dove siete stati finora? Dove eravate quando abbiamo creato l'Olp, Fatah e abbiamo guidato la lotta del popolo palestinese? Se c'è oggi un'Autonomia non è certo grazie a voi, che avete sempre posto ostacoli di ogni genere. E se vi opponete così tanto ad Oslo, perché volete inserirvi in dinamiche che stanno avvenendo solo grazie ad Oslo? Se poi la nostra strada è così fallimentare, come mai Americani ed Europei sono pronti a sostenerci e perfino Ehud Olmert ha dichiarato di esser pronto ad aprire la trattativa per raggiungere un accordo definitivo facendo perno su un'opinione pubblica che negli ultimi anni ha cambiato le proprie posizioni? Per quanto riguarda la corruzione, abbiamo fatto degli errori ma siamo pronti a correggerli. Non siamo come voi che non siete pronti ad ammettere errori perfino quando questi costano la vita di decine di persone - come quando alcuni mesi fa sono scoppiati dei missili all'interno di un corteo nel campo profughi di Jabalya? Questa si chiama responsabilità? E infine, grazie al nostro operato e agli aiuti che siamo riusciti ad ottenere dal mondo, esistono oggi infrastrutture nel campo dell'educazione, della sanità, dell'amministrazione. Voi non siete in grado di compiere questo lavoro e se ciò non bastasse, il mondo non sarà disposto a dare alcun aiuto ad un'Autonomia gestita da estremisti che intende mettere l'Islam al di sopra di tutto».
Resta il fatto che anche i sondaggi meno benevoli attribuiscono a Hamas un consenso tale da fare del movimento islamico una forza politica che non potrà essere ignorata dopo le elezioni. Quali scenari può immaginare rispetto alla posizione che Hamas potrà o saprà assumere?
«Io non penso che Hamas entrerà nel governo che si verrà a formare. Almeno non direttamente. Cercheranno probabilmente di dettare la loro influenza facendo entrare nel futuro governo di Abu Mazen, alcuni dei tanti indipendenti che ruotano nella loro area ideologica. Per il momento è più importante per loro conquistare il Parlamento, affermandosi come forza determinante, ma mantenendo allo stesso tempo la propria libertà di azione. Hamas non vuole ancora prendersi alcuna responsabilità di governo e tanto meno vuole trovarsi costretto a sedersi di fronte a rappresentanti Israeliani e a fare delle rinunce politiche».
È possibile cogliere nella società palestinese significativi passi in avanti nella sua democratizzazione?
«Come sempre va sottolineata la necessità di fare i dovuti distinguo. Anche se si usa la stessa parola, l'idea di democrazia in Occidente non è uguale a quella del mondo arabo. Non c'è dubbio che i palestinesi subiscono la forte influenza della vicina democrazia israeliana, ma in ogni caso solo pochi partiti, come la “Terza via” di Hanan Ashrawi e “Palestina indipendente” di Mustafa Barghuti propongono questo modello, senza fra l'altro avere nessuna chance di spiccare in queste elezioni. No, la società palestinese è molto tradizionalista e, tutto sommato, molto simile alle altre società arabe. I cambiamenti avvengono, ma purtroppo molto lentamente».
Per scrivere alla redazione dell'Unità una mail esprimendo la propria opinione cliccare sul link sottostante: