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La Repubblica Rassegna Stampa
23.01.2006 Il nuovo slogan è: "Israele deve trattare con Barghouti"
ma la svolta moderata del capo terrorista ancora non c'è stata

Testata: La Repubblica
Data: 23 gennaio 2006
Pagina: 12
Autore: Renato Caprile - Renzo Guolo
Titolo: «Palestina, tutti contro Hamas Fatah gioca la carta Barghouti - Le regole della politica»

La Repubblica di lunedì 23 gennaio 2006 pubblica una cronaca di Renato Caprile sulle imminenti elezioni palestinesi. Fin dal titolo,  "Palestina, tutti contro Hamas Fatah gioca la carta Barghouti" è evidente il tentativo di accreditare Marwan Barghouti come nuovo leader palestinese e futuro  interlocutore di Israele nel processo di pace. Una speranza che potrebbe anche rivelarsi illusoria. In quanto poi all'affidabilità dei giudizi di Caprile, per stimarla basti citare quest'altro, sempre riferito sempre a Barghouti: "D´altra parte sono proprio gli uomini che la guerra l´hanno fatta, vedi Sharon, quelli dai quali ci si può aspettare la pace".  Peccato che Barghouti non abbia fatto la "guerra", ma del terrorismo, mirando intenzionalmente non a obiettivi militari legittimi, ma  civili non combattenti. Ignorare questa differenza fondamentale tra lui e Sharon significa non poter comprendere cosa sia davvero necessario perché Barghouti, da uomo della perpetrazione infinita del conflitto, diventi un possibile aiuto per la sua soluzione: che rinunci, definitivamente, all'uso della violenza . Una prospettiva che non sembra molto prossima a realizzarsi, stando almeno al richiamo all'eredità politica di terroristi come Yasser Arafat e Ahmed Yassin Ecco il testo:      

RAMALLAH - A poco più di 48 ore dall´apertura dei seggi, il quartiere generale di al Fatah a Ramallah sembra un campo di battaglia. Telefoni che squillano a ripetizione, interminabili riunioni e un andirivieni di «generali» e «soldati» che urlano.
Tensione a mille, dunque. Bisogna ridimensionare Hamas, questa la parola d´ordine. Convincere gli incerti e soprattutto fare in modo che qualcuno dei 414 candidati indipendenti getti la spugna. Il rischio che la dispersione dei voti tra proporzionale e maggioritario possa favorire gli avversari è grande, nonostante gli ultimi sondaggi assicurino al partito di Abu Mazen sette punti di vantaggio (42 a 35) sulla formazione rivale. E per tirare dalla propria parte i delusi che non ce l´hanno fatta a entrare nel listone nazionale non c´è che da offrire loro qualcosa. Un posto d´ambasciatore, una poltrona da governatore o da vice ministro. Si può fare, si deve fare. E allora, incontri, telefonate, pressioni e promesse. Ma solo un paio avrebbero detto sì, meglio che niente visto che si prevede una lotta all´ultimo voto. Già, perché stavolta anche se dovesse spuntarla, al Fatah non godrà di quella maggioranza assoluta che l´ha accompagnata fin dalla nascita. Sarà insomma costretta ad alleanze.
Il che, sono in molti a pensarlo, non potrà che fare bene alla causa palestinese.
Lacerata da divisioni interne tra vecchia e nuova generazione, accusata di inefficienza e sospettata di corruzione, la creatura politica che fu di Arafat offre il fianco ai duri e puri di Hamas, cui altri sondaggi attribuiscono un ritardo di soli due punti percentuali. Come dire che l´elettorato palestinese sarebbe praticamente diviso a metà tra chi crede al dialogo e chi no. Tra chi punta sul negoziato e chi privilegia lo scontro armato. Tra due giorni un milione e 340mila palestinesi (811 mila in Cisgiordania, 530 mila nella Striscia Gaza) dovranno, dalle 7 alle 19, scegliere tra queste due opzioni nell´eleggere i 132 deputati del nuovo Consiglio legislativo. Abu Mazen, il presidente dell´Anp, assicura che sarà rispettata, quale che sia, la volontà del popolo.
Nell´immediata vigilia fanno sentire le loro voci i capilista delle due formazioni che si contendono il primato. Marwan Barghouti, il numero uno del cartello di Fatah, e Ismail Hanyeh, leader di Hamas. Da anni in carcere condannato a cinque ergastoli per aver ispirato numerosi attentati, Barghouti ha avuto dagli israeliani un permesso davvero speciale. Di essere cioè intervistato nell´istituto in cui sconta la sua pena dai due più importanti network panarabi, al Jazeera e al Arabyia. E Barghouti ha parlato da leader super partes. Ha esortato gli israeliani a riprendere i negoziati di pace - per dare vita a uno Stato palestinese nei Territori occupati nel 1967 - e i palestinesi ad andare in massa alle urne per onorare la memoria dei loro grandi martiri: Yasser Arafat (al-Fatah), lo sceicco Ahmed Yassin (Hamas) e Abu Ali Mustafa (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), gli ultimi due uccisi da Israele con «esecuzioni mirate». Un discorso da premier in pectore, cui non è escluso che sull´onda di un prevedibile plebiscito Israele decida di concedere la grazia. D´altra parte sono proprio gli uomini che la guerra l´hanno fatta, vedi Sharon, quelli dai quali ci si può aspettare la pace.
Anche Hanyeh si dice favorevole a uno Stato palestinese «temporaneo» nei Territori occupati nel 1967, ma sottolinea, e qui sta tutta la differenza, che Hamas non rinuncerà mai al principio della liberazione della intera Palestina.
Sia Barghouti sia Hanyeh hanno comunque concentrato i loro interventi sulle necessità del medio termine. Barghouti vagheggia un governo ampio e forte, capace di realizzare riforme che non possono più aspettare. Formalmente d´accordo anche Hanyeh, che si dice disposto a collaborare con le altre forze politiche per migliorare le istituzioni palestinesi. Spot elettorali, si dirà, ma che comunque lasciano ben sperare. Perché se è vero che Hamas continua a negare l´esistenza stessa dello Stato di Israele, è parimente vero che entrando nell´agone politico non potrà non accettarne le regole e i compromessi. Il ministro degli Esteri egiziano ne è convinto: «Hamas finirà con il riconoscere il diritto di Israele all´esistenza»; decisamente meno il premier israeliano Olmert e la sua squadra, che ieri alla questione hanno dedicato una lunghissima riunione. La domanda centrale, rimasta senza risposta, è stata che fare se Hamas dovesse emergere come prima forza politica o comunque tale da condizionare un nuovo governo palestinese e la sua politica.
Già, che fare? «Ci dobbiamo preparare - è opinione del capo di stato maggiore Dan Halutz - a un nuovo ciclo di violenze» se Hamas non rivedrà in toto la propria piattaforma politica e non rinuncerà alla lotta armata. Senza contare la possibilità - che molti analisti israeliani non scartano - che in caso di sconfitta Fatah non sia disposta a cedere il potere senza fare resistenza.
L´ipotesi che meno spaventa è che il dopo voto produca un governo di coalizione. In cui Hamas si assumerebbe i portafogli sociali, lasciando ad Al Fatah la gestione dei rapporti con Israele.

La scommessa su Barghouti appare conveniente anche a Renzo Guolo, che però, nel suo editoriale "Le regole della politica" si spinge anche ipotizzare una conversione al realismo politico di Hamas, una volta giunta al potere. Si tratta ' appunto di un'ipotesi. Vagliandola occorre tener presente gli esempi contrari (la partecipazione di Hezbollah al parlamento libanese non ha portato questo gruppo  a rinunciare alla distruzione di Israele e al terrorismo)  e il contesto internazionale (il sostegno dell'Iran alla prosecuzione della jihad terrorista "antisionista", ad  esempio).  In ogni caso, occorre evitare ingiustificati salti logici. Come quello compiuto da Guolo che scrive che Hamas "in un ottica di lungo periodo, potrebbe persino negoziare con Israele se quest´ultimo si ritirasse dai territori e permettesse il ritorno dei profughi. Condizioni impossibili da accettare per Israele ma che lasciano intravedere la possibile caduta della terrificante pregiudiziale ideologica del gruppo". La confusione è evidente: rassegnarsi a trattative con Israele per giungere ad accordi pratici o a temporanee tregue (anche di medio-lungo periodo) Hamas lo potrebbe fare senza  lasciar cadere la "terrificante pregiudiziale ideologica" della distruzione di Israele.
Va anche rivelato che Guolo sceglie di utilizzare,  sempre tra virgolette, il linguaggio della stessa Hamas per riferirsi alle azioni e agli obietitvi del gruppo, cautelandosi con un ampio uso. Meglio togliere le virgolette e chiamare le cose con  il loro nome, almeno una volta nell'articolo. Le "operazioni di martirio", ad esempio, sono atti di terrorismo suicida. E sarebbe opportuno scriverlo, nonostante il parere contrario di chi li programma e organizza.
Ecco il testo:
 
 

E se Hamas vincesse le elezioni, oppure ottenesse un risultato tale da non poterla escludere dal governo? Il movimento islamista ha il vento nelle vele dopo il successo alle recenti amministrative, mentre la crisi dell´Anp è sotto gli occhi di tutti. Fatah è divisa tra la vecchia guardia "tunisina" che seguì Yasser Arafat nel suo lungo esilio, corrotta e incapace di controllare le milizie armate, e la giovane guardia cresciuta nei Territori che ha come riferimento Marwan Barghouti. Un leader che gli stessi israeliani fanno ora riemergere dalle carceri dove è detenuto consentendogli di rilasciare un´intervista-appello che mira a rovesciare i pronostici. Barghouti, duro verso Israele ma anche convinto fautore della formula "due popoli, due stati", è diventato l´unica speranza di quanti, di fronte all´evidente declino della leadership di Abu Mazen, sono decisi a opporsi a Hamas.
Per buona parte dell´opinione pubblica occidentale, che in Hamas scorge soprattutto il gruppo autore dell´efferata pratica degli attentati suicidi, è difficile comprendere come una simile formazione possa raccogliere consenso. Un fatto che non può essere spiegato solamente con la sua lunga azione di "resistenza". Anche la Jihad islamica compie azioni armate e terroristiche contro Israele, ma questo gruppo si muove esclusivamente come "avanguardia armata". La forza di Hamas non trova fondamento solo nelle azioni delle brigate Ezzedin al Qassam, il suo braccio militare, ma soprattutto nel suo essere organizzazione capace di fornire identità e far funzionare una sorta di welfare religioso. Uno "stato sociale" ispirato a criteri di "giustizia" islamica, che fornisce sussistenza e permette socialità altrimenti inesistenti. Hamas proviene dalla filiera Fratelli Musulmani, della quale è la branca palestinese, e, come tale agisce. In un contesto segnato dalla distruzione delle infrastrutture seguita a quella seconda Intifada che ha contribuito a radicalizzare, Hamas dispone di scuole, ospedali, una preziosa banca del sangue, mense per i poveri. Il tutto finanziato grazie alla capillare raccolta della zakat, l´offerta rituale che costituisce uno dei "pilastri" dell´islam, e dalle ingenti donazioni private che provengono dai paesi islamici. I suoi militanti sono percepiti generalmente come non corruttibili. Sulla scorta dell´Hezbollah libanese, editore di Al Manar, anche Hamas si è ora dotata di una televisione, Al Aqsa. Strumento destinato, in prospettiva, a espandere ulteriormente la sua egemonia.
Come l´Hezbollah libanese, Hamas è un gruppo islamo-nazionalista, un ibrido tra un tipico movimento neo-tradizionalista che promuove la reislamizzazione "dal basso", a partire dalla società, e uno radicale, che agisce "dall´alto", dal Politico, inteso come contrapposizione estrema secondo la logica amico/nemico. Una logica in cui le cosiddette "operazioni di martirio", giustificate in nome della lotta per la liberazione nazionale, sono espressioni di forme del Jihad non collocabili all´interno del progetto della guerra totale all´Occidente teorizzata da Al Qaeda. Tanto che Hamas ha sin qui rifiutato l´adesione alla rete di Bin Laden e guarda con timore ai tentavi di Zarkawi di radicare sue cellule in Palestina.
Che farà Hamas dopo le elezioni? Alcuni suoi esponenti affermano che un conto è l´ideologia, che proclama la cancellazione dello stato di Israele dalle carte del Medio Oriente, un conto la politica. Lasciando capire che, in un ottica di lungo periodo, potrebbe persino negoziare con Israele se quest´ultimo si ritirasse dai territori e permettesse il ritorno dei profughi. Condizioni impossibili da accettare per Israele ma che lasciano intravedere la possibile caduta della terrificante pregiudiziale ideologica del gruppo; anche se, su una simile possibile svolta, peserà la divaricazione interna tra la pragmatica ala di Gaza, guidata da Zahar, e quella intransigente "siriana" guidata, dall´esilio di Damasco, da Meshaal.

Critiche a cura della redazione di Informazione Corretta 

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