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Il Manifesto Rassegna Stampa
18.01.2006 Una pagina di disinformazione
su Sharon, Hamas e l'Iran

Testata: Il Manifesto
Data: 18 gennaio 2006
Pagina: 8
Autore: Baruch Kimmerling
Titolo: «Il pifferaio di Hamelin: o l'enigma di Sharon - Nablus via alla corsa di Hamas -Riparta il negoziato La proposta di Teheran spacca i duri dell'Onu»

Secondo Baruch Kimmerling Israele, che in realtà riconosce ai suoi cittadini arabi gli stessi diritti di cui godono gli ebrei, sarebbe uno Stato fondato sull'apartheid. Sharon un criminale di guerra che ha distrutto le infrastrutture dell'Anp senza motivo: il sostegno al terrorismo da parte di Arafat non rientra nell'analisi del sociologo dell'Università di Gerusalemme.Egualmente senza motivo sarebbe il suo "unilateralismo". Kimmerling  non si è mai accorto della mancanza di un interlocutore palestinese che ha frustrato i tentativi israeliani di giungere a una soluzione negoziale del conflitto. Inoltre, Sharon avrebbe distrutto ogni opposizione politica in Israele (infatti Kimmerling scrive dal carcere, o dall'esilio...o no?), avrebbe uno stato palestinese senza continuità territoriale (i colegamenti da lui previsti tra le città palestinesi per kimmerling non sarebberro comunque bastati). Ovvio che un articolo del genere venga immediatamente tradotto e pubblicato dal Manifesto. 

  In sociologia si è dibattuto a lungo sulla natura e sulle radici del carisma. Se Max Weber l'ha definito una speciale virtù posseduta da una persona dotata, o attribuitale per il ruolo che essa svolge, per Edward Shills i tratti della persona cui viene attribuito il carisma sono irrilevanti: il carisma è un bisogno disperato, fondamentale, di una società profondamente travagliata e alla ricerca di un redentore. La mia opinione è che l'emergere di un leader carismatico scaturisca dalla combinazione di uno stato di emergenza protrattosi nel tempo con una persona dal carattere speciale. Questa combinazione produce una particolare situazione colmata da una personalità carismatica. Non v'è dubbio che Israele sia un paese molto travagliato, specialmente dalla guerra del 1967. Nonostante l'eccezionale immigrazione di oltre un milione di ebrei e non ebrei dall'ex Unione sovietica, il territorio tra il Mediterraneo e il fiume Giordano contiene circa cinque milioni di ebrei (e di non arabi) e quattro milioni e mezzo di palestinesi (cittadini e non cittadini). Questa realtà demografica ha fatto di Israele un paese binazionale de facto, uno stato basato sull'apartheid.

Le attuali proiezioni demografiche indicano che le cifre sulla popolazione futura vedranno aumentare i palestinesi e faranno ulteriormente traballare l'esigua maggioranza demografica ebraica. I demografi hanno calcolato che, entro il 2020, un totale di 15,1 milioni di persone vivrà sulla terra della Palestina storica: gli ebrei saranno una minoranza di 6,5 milioni di persone. Inoltre, anche all'interno dello stesso stato di Israele, in circa vent'anni la popolazione ebraica si ridurrà dalla sua attuale maggioranza dell'81% a una maggioranza prevista di appena il 65%. Di fronte a questo quadro demografico, alcuni israeliani hanno raccomandato che le aree israeliane densamente popolate dagli arabi siano trasferite allo stato palestinese in cambio dei tre principali blocchi d'insediamenti ebraici nei territori palestinesi occupati.

Nella cultura politica israeliana ebraica vi sono due motivi di ansia esistenziale profondamente radicati: uno riguarda l'annientamento fisico dello stato - una questione che viene frequentemente usata, abusata e manipolata per fare leva sulle emozioni da molti politici e intellettuali israeliani -; l'altro riguarda la perdita della fragile maggioranza demografica ebraica su cui risposano la supremazia e l'identità dello stato. Di fatto, la perdita di questa maggioranza demografica potrebbe essere un preludio al politicidio e alla eliminazione fisica dello stato. Così, il campo favorevole all'annessione si è trovato in una situazione impossibile: un imperativo patriottico, possedere la terra santa, contraddice l'altro imperativo patriottico, assicurare su di essa una massiccia maggioranza ebraica.

Da quando è stato eletto primo ministro, il 6 febbraio 2001, Ariel Sharon ha guidato il popolo di Israele come il pifferaio di Hamelin all'inferno, o come un vero leader carismatico. Sfruttando l'ansia sollevata dagli attentati sucidi palestinesi, egli ha non solo distrutto l'Autorità palestinese ma anche la democrazia israeliana, soffocando qualsiasi opposizione, che provenisse da destra o da sinistra. Dopo l'attuazione forzata del disimpegno dalla Striscia di Gaza di Sharon, lo smantellamento di tutti gli insediamenti ebraici nella Striscia e di alcuni in Cisgiordania, e, soprattutto, dopo la sua uscita dal Likud e la formazione del suo partito personale, molti, sia in Israele che all'estero, hanno visto rinascere sorprendentemente in lui una nuova versione di De Klerk o De Gaulle. Questo nuovo Sharon, essi speravano, avrebbe liberato Israele dalle sue colonie ed evacuato i pied noir israeliani. Dopo tutto, Sharon è stato allevato in seno al pragmatico Partito laburista, ed è stato lui a stabilire il precedente di evacuare gli insediamenti ebraici nel Sinai dopo l'accordo di pace israelo-egiziano.

Effettivamente, in qualche misura, lo Sharon del 2005-2006 non è lo stesso Sharon che invase il Libano nel 1982, che fu giudicato responsabile dei massacri di Sabra e Shatila, e che impegnò Israele in una guerra stile Vietnam. Una guerra che uccise circa 675 soldati israeliani e 17.800 libanesi, molti dei quali non combattenti. Nessuna meraviglia che Sharon sia stato considerato un criminale di guerra da molte persone in tutto il mondo, ed anche da quegli israeliani che si sono rifiutati di seppellire la loro memoria o di perdonare, rifiutandosi altresì di credere che la metamorfosi di Sharon fosse sincera. Come primo ministro, Sharon ha appreso la lezione libanese ed ha capito che doveva creare intorno alle sue politiche un consenso sia interno che internazionale. Egli ha capito che è impossibile raggiungere obiettivi a lungo termine con la sola forza del potere. Negli ultimi tempi la sua retorica è stata relativamente moderata e ambigua, contrariamente alle sue azioni sul campo. Ha dichiarato molte volte che, avendo dovuto ridimensionare le proprie aspettative, i palestinesi hanno diritto a un loro stato. A prima vista questo è apparso come un completo cambiamento di posizione e come un tentativo di rieducare il suo popolo. Sharon ha detto ai suoi elettori che la pace poteva essere raggiunta, ma che questo «avrebbe richiesto concessioni dolorose da parte di Israele». Egli ha detto inoltre che entro cinque anni circa si deve istituire un qualche stato palestinese, e si è rifiutato di ritrattare questa dichiarazione, anche di fronte alle pressioni dei politici di estrema destra, compreso il suo rivale politico Benjamin Netanyahu. Allo stesso tempo ha promesso solennemente di non sradicare mai la maggior parte degli insediamenti ebraici. Comunque Sharon non ha dato alcun segno di aver modificato anche una delle sue premesse fondamentali del conflitto israeliano-palestinese: cioè mantenere la porzione più ampia possibile di territorio, con al suo interno il minor numero possibile di arabi.

La realtà del piano di Sharon è che, dopo aver ridotto le aspirazioni politiche palestinesi e aver distrutto gran parte delle loro infrastrutture, egli voleva imporre loro la sua volontà ricorrendo a misure di natura militare ed economica crudeli ed estreme.

Essendo una persona che sa leggere bene le mappe, Ariel Sharon ha trovato la road map di Bush molto conveniente. Il 5 novembre 2002, parlando al meeting annuale del comitato dei direttori dei giornali e, nello stesso giorno, allo Herzliya interdisciplinary center, Sharon ha espresso una posizione chiara su come dev'essere gestito il conflitto. Egli ha dichiarato che con l'implementazione della road map proposta dal presidente Bush, Israele avrebbe creato in Cisgiordania un'area contigua di territori consentendo ai palestinesi di viaggiare da Jenin a Hebron (dal nord al sud dei Territori occupati, ndr) senza passare attraverso posti di blocco israeliani. Questo poteva essere realizzato con una combinazione di tunnel e ponti. Comunque, Sharon ha poi detto che Israele avrebbe preso misure come «creare continuità territoriale tra i centri abitanti palestinesi». Vale a dire, ritirarsi dalle principali aree urbane e sovrappopolate allo scopo di preservare una solida maggioranza ebraica, mentre i palestinesi avrebbero dovuto essere ancora impegnati a fare «uno sforzo sincero e reale per fermare il terrore». Una volta completate le riforme richieste all'autorità palestinese, secondo Sharon sarebbe scattata la fase successiva del piano di Bush: l'istituzione dello stato palestinese.

Il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza, lo smantellamento forzato degli insediamenti a Gaza e nel nord della Cisgiordania, e soprattutto la costruzione della «barriera di sicurezza», hanno davvero significato una nuova dottrina politica e strategica mirante a imporre ai palestinesi e all'opposizione interna un confine permanente eretto sulla base di un insieme di considerazioni di «sicurezza», la praticabilità politica, l'impossessamento della terra (dal 15 al 29% della Cisgiordania, a seconda del percorso finale del Muro) e i criteri demografici.

L'intenzione di Sharon era evidente. Lo stato palestinese sarebbe stato formato da quattro enclaves intorno alle città di Jenin, Nablus, Hebron e la Striscia di Gaza, prive di contiguità territoriale. Il piano di collegare le enclaves con tunnel e ponti implica una forte presenza israeliana in quasi tutte le altre aree della Cisgiordania. L'unico problema di questo «piano di pace» è che nessun leader palestinese accetterebbe uno stato così frammentato, dopo che la leadership ha già rinunciato al 78% della Palestina storica. Nonostante gli evidenti limiti delle sue politiche, da qui all'eternità Sharon sarà ricordato dai cantori e nella memoria collettiva come un uomo di pace. Il mio auspicio è che questa sia una profezia che si auto avveri, dopo la sua scomparsa dalla scena.

Nella cronaca di Michele Giorgio "Nablus via alla corsa di Hamas" il terrorismo è definito "resistenza". L'articolo "Riparta il negoziato"La proposta di Teheran spacca i duri dell'Onu" dimentica che il negoziato proposto dall'Iran, che ha già chiarito che la riapertura dei sigilli delle centrali nucleari è irreversibile, è con ogni evidenza solo un sotterfugio per guadagnare tempo.

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