La Repubblica di mercoledì 18 gennaio 2006 pubblica una cronaca di Alberto Stabile sulla vicenda dell'evacuazione delle otto famiglie ebraiche dal quartiere arabo di Hebron. Come la cronaca di Cremonesi segnalata il 16 gennaio (Non una cronaca fondata sui fatti, ma una dichiarazione di sotilità ai coloni) l'articolo di Stabile ostenta l'antipatia dei coloni del suo autore, del tutto sordo alla loro ragioni (è un fatto che dalle case che hanno "occupato" i terroristi hanno perpetratrato l'assassinio di una bambina. Ed'è un fatto che la comunità ebraica di Hebron venne massacrata e cacciata nel 1929: difficile dunque parlare di completa "arbitrarietà", riguardo alle loro rivendicazioni). Molto discutibile anche il titolo "Hebron, l'intifada dei coloni". "Intifada", che pure significherebbe "rivolta", indica abitualmente la campagna di terrore lanciata contro Israele dal terrorismo palestinese. Niente a che vedere con la condotta dei coloni di Hebron
(a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco il testo:
Nel silenzio della città deserta la voce dell´altoparlante risuona sinistra: «Per ordine del comandante militare della Regione centrale, generale Yair Naveh, tutte le persone non residenti, o non autorizzate devono lasciare questo quartiere entro 15 minuti, o saranno arrestate». Dalle terrazze dell´insediamento Avraham Avinu, il "Padre Abramo", nel cuore di Hebron, dove i coloni nazionalisti hanno scavato la loro ultima trincea per difendersi dalla storia, risponde un coro di scherno: «Avvoltoi!». «Voi non siete ebrei! Gli ebrei non espellono altri ebrei!», urlano senza farsi vedere. Dopo le pietre e le uova dei giorni scorsi, dopo i saluti nazisti esibiti ai loro fratelli in divisa, dopo le spedizioni punitive contro famiglie di palestinesi senza colpa, è arrivato il momento per i coloni asserragliati nel mercato di Hebron di giocare al gatto col topo con le forze di polizia.
«La tolleranza zero», imposta da Olmert contro gli adolescenti della cosiddetta Intifada ebraica, s´è, infatti, tradotta nella chiusura ermetica del vecchio centro di Hebron. Una catena di posti di blocco tutt´attorno all´insediamento ha impedito, ieri, che forze fresche provenienti da altre comunità arrivassero per dar man forte ai ribelli. Ma almeno duecento estremisti, questa è la stima di uno di loro, Uriel Amar, 19 anni, d´origine francese, sono riusciti ad infiltrarsi nei giorni scorsi e adesso si nascondono nelle case dei 500 coloni residenti ad Avraham Avinu.
A giudicare dal numero di agenti speciali, guardie di frontiera, poliziotti a cavallo schierati a semicerchio davanti al quartiere ebraico, la polizia è decisa a dare la caccia ai clandestini. Ma questi evitano di scendere in strada. Sperano che le forze dell´ordine non osino entrare nelle case. Peccato d´ingenuità. La polizia israeliana sa come fare, quando vuole. La jeep con gli altoparlanti fa un ultimo giro nel quartiere. Gli agenti in tenuta antisommossa, caschi e manganelli, fingono di ritirarsi mentre un altro reparto entra nell´insediamento da un ingresso secondario, vicino alla Tomba dei Patriarchi, la moschea-sinagoga che incombe sulla città come una fortezza medievale. E comincia la ricerca casa per casa.
Uriel si si nasconde con altri amici in un appartamento vicino a una delle due jeshiva di Hebron, i collegi talmudici dove studiano i giovani ebrei che vogliono vivere di religione. Appena i poliziotti bussano alla porta, i più arrabbiati cominciano a dare in escandescenze. Si barricano dentro, lanciano oggetti e latte di pittura contro gli agenti. Quattro vengono fermati con la bava alla bocca, in piena crisi isterica. Uriel, nella confusione riesce a scappare, nascondendosi in un deposito che immediatamente circondato.
Sono scene che abbiamo già visto ad agosto nella ville di Neveh Dekalim, nella sinagoga di Shirat Ayam, nella Jeshiva-laboratorio artistico di Sa Nur. Vale a dire: in quasi tutti gli insediamenti del Gush Katif e nei quattro della Cisgiordania evacuati dall´esercito israeliano nell´operazione Ritiro voluta da Sharon.
Un´operazione che ha segnato la rottura del dogma ideologico della Grande Terra d´Israele e la sconfitta politica, storica del movimento dei coloni.
Ora, sarebbe troppo semplicistico, vedere negli incidenti di Hebron il tentativo della destra nazionalista e messianica di vendicarsi della debacle subita ad agosto. Se mai c´è un significato recondito nelle vicende di questi giorni, è quello di un avvertimento lanciato contro Ehud Olmert, l´uomo che ha dovuto raccogliere lo scettro di Re Arik, e che sembra destinato a succedergli, affinché, dopo il ritiro da Gaza, non osi mettere mano ad altri ritiri, ipotizzabili da alcune zone della Cisgiordania.
Qui, tra l´altro, non è in discussione l´esistenza, pur controversa, dell´insediamento di Hebron, ma l´occupazione illegittima di alcune botteghe del mercato coperto da parte di nove famiglie di coloni. Occupazione cominciata nella primavera del 2001 per ritorsione contro l´uccisione, il 26 marzo di quell´anno, di una bimba di nove mesi, Shalhevet Pass, centrata da un cecchino palestinese appostato in una casa di Abu Shnena, il quartiere che fronteggia l´insediamento ebraico.
Tanto è arbitraria l´espropriazione di quelle botteghe, che l´Alta Corte israeliana ha deciso che vengano restituite ai loro legittimi proprietari arabi. Ma tutto questo, nel linguaggio propagandistico dei coloni diventa «espulsione», «discriminazione», «persecuzione».
Il rabbino Benny Elon, deputato e leader dell´Unione Nazionale, che incontriamo davanti alle botteghe occupate del mercato, spiega come l´estrema destra interpreta quel che sta succedendo sotto ai nostri occhi. «L´Ordine del giorno del governo israeliano è semplice: dopo il ritiro da Gush Katif, il prossimo passo sarà Hebron», dice.
«Il governo non ha la forza di espellere gli arabi, perciò espelle gli ebrei», ripete il capo riconosciuto dell´insediamento, Noam Arnon. E ricorda che questa zona era appartenuta agli ebrei che abitarono ad Hebron fino al pogrom del 29, quando vennero costretti a fuggire (l´inizio, dice Arnon, del «terrorismo islamico»). Conclusione: «Abbiamo tutti i titoli per vivere in questo quartiere, del quale anche le botteghe fanno parte».
Ma è vita, quella che conducono cinquecento ebrei circondati da una popolazione di 130 mila palestinesi, o è una guerra d´attrito che va avanti da 35 anni?
Nel panorama che ci circonda non c´è nulla di pacifico. Le palazzine di Avraham Avinu si stagliano, con la loro pietra chiara, contro uno scenario di macerie, muri di cemento eretti a protezione dell´insediamento, reti metalliche, case abbandonate i cui proprietari, palestinesi, hanno smesso, per stanchezza, di rivendicarne il possesso.
Dai vicoli del mercato che sfociano nello spiazzo davanti all´insediamento, proviene un odore acre d´incendio. Alcune saracinesche sono rimaste annerite dal fumo dopo le incursioni del fine settimana. Su altre è stata dipinta, come una sorta di documento di rivendicazione, la stella di Davide nera.
E´ mentre parliamo con Noam Arnon che un ufficiale di polizia, il colonnello Uri Oran, fisico asciutto da cinquantenne atletico, berrettino blu con visiera, s´avvicina e, dopo aver, come si dice, identificato il nostro interlocutore, gli da formale lettura dell´ordinanza emessa dal generale Naveh, secondo le disposizioni assunte dal governo israeliano. Chi non risiede nell´insediamento deve andarsene o verrà arrestato.
Qualche secondo, e il capo dei coloni ha addosso le telecamere.
«Noi abbiamo fatto di tutto per mantenere la calma - dice con un filo d´emozione nella voce - Hebron è la città più tranquilla d´Israele, e loro ci rispondono con una provocazione».
I tiratori dell´esercito si sono già appostati sui tetti del quartiere, compreso quello delle botteghe occupate. L´operazione sta per iniziare. Chiadiamo a Miriam, 20 anni, 3 figli, sposata a Yair, perchè ha scelto di venire a vivere proprio qui, al mercato di Hebron. «Perchè è mio», risponde senza tentennare.
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