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La Repubblica Rassegna Stampa
16.01.2006 Jean Daniel non riesce a smettere di demonizzare Sharon
e, con lui, Israele

Testata: La Repubblica
Data: 16 gennaio 2006
Pagina: 1
Autore: Jean Daniel
Titolo: «L'eredità del generale»

La Repubblica  di lunedì 16 gennaio 2006 pubblica un editoriale di Jean Daniel, totalmente dedicato alla demonizzazione di Ariel Sharon e, attraverso di esso, di Israele, le cui scelte politiche, decontestualizzate, vengono presentate come motivate da una cultura razzista e come le uniche cause del perpetuarsi del conflitto mediorientale. Ecco il testo:

Nessuno più si stupisce che la morte politica del capo di governo di un Paese di sei milioni di abitanti susciti un´angoscia planetaria. Come se fosse naturale che qualunque cosa avvenga in Israele o in Palestina – territori inferiori per dimensioni a tre dipartimenti francesi – possa avere ripercussioni gravi e funeste sulla situazione mondiale.
Evidentemente, l´emozione sarebbe stata minore prima degli attentati dell´11 settembre 2001 contro le torri del World Trade Center, seguiti dalla crociata contro le "forze del male", con le accuse indiscriminate di terrorismo contro ogni movimento di resistenza, senza distinzioni.

Le organizzazioni terroristiche  colpiscono deliberatamente i non combattenti, con lo scopo di intimidire e modificare la politica dei governi. Le ulteriori "distinzioni" a favore di questo  o di quel "movimento di resistenza" (palestinese o iracheno che sia) sono soltanto propaganda, basata sulla pura e semplice  negazione dei fatti o sulla giustificazione dell'ingiustificabile per mezzo di sofismi morali.  

 E l´emozione non avrebbe suscitato gli stessi commenti senza l´interminabile guerra irachena. Detto questo, lo sguardo diverso del mondo verso Israele si spiega anche con altri motivi. Innanzitutto, quel piccolo Paese ha uno status strategico particolare in ragione dei suoi legami con gli Stati Uniti, tanto che esiste oramai un´entità israelo-americana. Negli Usa ci sono più ebrei che in Israele; e i cristiani evangelici sono più numerosi ancora. Peraltro, gli israeliani possiedono la bomba atomica, e un esercito che deriva la sua potenza dalle capacità tecniche dei suoi quadri e da armamenti sofisticati e costantemente aggiornati. Se poi si considera la tendenza del conflitto israelo-palestinese a trasformarsi in un conflitto giudeo-arabo,

Non esiste una "tendenza del conflitto" a trasformarsi in "giudeo-arabo" da israelo-palestinese che era. Esiste invece  la realtà dell'antisemitismo arabo e islamico, che estende, nella retorica,  nella propaganda e talora nei fatti, a tutti gli ebrei l'odio verso Israele.

 con gli islamisti iraniani che continuano a tenere le fila dei movimenti più estremisti del Medio Oriente, vi sono indubbiamente serie ragioni per interrogarsi e preoccuparsi.
Resta da vedere quali speranze abbia potuto suscitare, in questa situazione, una figura come quella di Ariel Sharon, la cui scomparsa politica sta destando un così vivo allarme. Il suo percorso è noto. Si sa che è un uomo del Far West, amante dei ranch, dei cavalli e dei grandi spazi. Un conquistatore, uno che sa fare la guerra a tal punto da non poterla detestare fino in fondo.

Ecco presentato Sharon secondo i più vieti stereotipi demonizzanti: un truce cow boy che ama la guerra, perché, secondo un ragionamento puerile, la fa troppo bene per odiarla fino in fondo.

 In qualche caso l´ha fatta per salvare il suo Paese - come nel 1973, quando ha aggredito alle spalle le forze egiziane del Canale di Suez. Ma altre volte lo ha gravemente danneggiato, come quando ha deciso di attaccare il Libano e poi di prolungare il conflitto armato,

 Daniel non ricorda però che dal Libano partivano gli attacchi terroristici dell'Olp contro Israele. Quindi, quali che siano stati i danni subiti da Israele per effetto della guerra, questa aveva comunque un carattere difensivo.

consentendo tra l´altro alle milizie cristiane di massacrare i profughi palestinesi del campo di Sabra e Chatila.

Si noti l'abile sotterfugio: Daniel non attribuisce a Sharon la responsabilità diretta del massacro, sa che sarebbe smentito. Scrive piuttosto, ambiguamente,  che "permise " alle milizie cristiane libanesi di compierlo. Ma Sharon non era a conoscenza delle intenzioni dei falangisti , dunque non permise intenzionalmente nulla.

Infine, come è noto - o almeno lo si dovrebbe ricordare - per ben due terzi della sua esistenza politica e militare quest´uomo pensava che la guerra d´indipendenza fosse ben lontana dall´essere conclusa. Per lui la sicurezza di Israele passava per la distruzione del movimento nazionale palestinese.

Semmai,dell'Olp, un movimento terroristico votato alla distruzione di Israele che, giunto al potere nei territori, ha rifiutato a Camp David l'occasione di un accordo definitivo. Al di fuori di questo contesto la ricostruzione del percorso politico di Sharon proposta da Daniel è falsa, perché gli attribuisce un' intransigenza motivata da ambizioni espansionstiche e non da una realistica considerazione delle esigenze di sicurezza di Israele. 

 In questo senso, la coerenza dei suoi comportamenti è di tutto rispetto. Si è opposto strenuamente agli accordi di Oslo e alla fondazione di uno Stato all´interno di un territorio che secondo la Bibbia era ebraico. Ed è stato l´alleato obiettivo, anche se indubbiamente non il complice, degli ebrei ortodossi di origine americana che hanno assassinato il suo amico Yitzakh Rabin

Che cosa significa "alleato obiettivo"? Certo Daniel non potrebbe far ricadere su Sharon la responsabilità dell'omicidio di Rabin. Sarebbe facilmente smentito e, plausibilmente, querelato. Ecco allora che chiama in causa la categoria,  dai confini indefiniti, della complicità "oggettiva". Buona per screditare chiunque abbia idee differenti dalle proprie, come insegna la storia dello stalinismo, che ne fece amplissimo uso.

 - un capo militare non meno valoroso di lui, che però era favorevole a uno Stato palestinese. Ma il fatto a un tempo più edificante e meno perdonabile è il suo sprezzante rifiuto, nel marzo 2002, della proposta del principe saudita Abdallah, che in cambio del ritiro di Israele entro i confini del 1967 prospettava una pace garantita da tutti gli Stati arabi, senza eccezione. Proposta che non è stata neppure presa in esame.

Perché esclusivamente propagandistica: quella proposta offriva a Israele, in cambio della cessione di territori importanti per la sua difesa e sicurezza, il riconoscimento della sua esistenza, cioè di un dato di fatto. Chiedeva la spartizione di Gerusalemme e il rientro dei "profughi" palestinesi, condizione, quest'ultima, rifiutata anche da Barak a Camp David, perché destabilizzatrice degli equilibri demografici del paese.

In nessun momento, e quali che fossero le sue responsabilità, Ariel Sharon ha ritenuto di doversi rivolgere ai palestinesi o agli arabi; non si è mai preoccupato di sedurli, né di convincerli. I palestinesi per lui sono vicini estranei, anzi ostili per definizione. Per quale motivo? Semplicemente perché non sono ebrei. E quindi non vanno consultati, neppure quando si tratta di prendere decisioni conformi ai loro interessi. L´esistenza degli arabi e dei palestinesi è concepita solo in funzione dei sentimenti che ispirano agli alleati americani di Israele.

In questo passo Daniel non tiene minimamente conto dell'intransigenza negoziale  e del sistematico ricorso al terrorismo o, nel migliore dei casi, dell' incapacità di imporre un'unica legge  nei territori, che hanno caratterizzato i diversi "interlocutori" palestinesi con i quali Sharon ha avuto a che fare. Sono questi i motivi dell'"unilateralismo " di Sharon, non il fatto che gli arabi "non sono ebrei".  Ma dimenticare queste circostanze serve a Daniel a tacciare Sharon  , tra le righe,  di razzismo.

Parliamo ora della famosa "conversione". Un giorno, Sharon e i suoi si rendono conto che è imperativo prendere decisioni importanti. Decisioni tra loro associate, complementari e inscindibili: costruire un muro tra Israele e i territori palestinesi, evacuare Gaza e rimpatriare i coloni che vi erano insediati. Si tratta evidentemente di gesti di spettacolare rottura rispetto a tutto ciò che ha formato i convincimenti di Ariel Sharon, la sua struttura ideologica e affettiva.
Di fatto, queste decisioni segnano la fine di quella fede nel miracolo così radicata nella maggior parte dei leader sionisti, che li rende restii a definire i confini dello Stato di Israele. Perché tutto può arrivare dalla Provvidenza; e quindi non bisogna temere di essere minoritari nella Terra promessa, poiché gli ebrei del mondo intero saranno chiamati un giorno a raggiungere la loro antica patria. Gli israeliani dicono volentieri: come avremmo fatto, senza un miracolo, a risuscitare una lingua come l´ebraico? O a battere la coalizione degli eserciti arabi? E come mai Arthur Koestler ha descritto la nostra epopea come l´ "Analisi di un miracolo"?
Ma una volta abbandonata la fede in quel miracolo, Ariel Sharon si trincera sempre più nella convinzione che la forza sia più utile del negoziato a garantire la sicurezza. Il progetto di evacuare Gaza è assolutamente estraneo a ogni desiderio di cooperazione, e non traduce neppure il rispetto per la famosa "road map" o la ricerca di interlocutori validi. Ariel Sharon non fa alcuna concessione ai palestinesi, se non sotto pressioni particolarmente insistenti da parte degli Stati Uniti - pressioni peraltro sempre più rare, che immancabilmente sono oggetto di denunce dalla lobby giudeo-evangelica al Congresso Usa.
Di fatto, da quando hanno invaso l´Iraq gli americani non rifiutano più nulla agli israeliani, divenuti i migliori alleati del mondo contro il terrorismo. Ariel Sharon ha avuto il suo vero colpo di genio quando è riuscito, nel corso di una notte di colloqui a Washington, a delegittimare ogni forma di resistenza palestinese facendo intravedere un legame tra Arafat e gli alleati di Bin Laden.

I palestinesi, di fatto, adottano una sola forma di "resistenza": il terrorismo. Dovrebbe essere ovvio che uccidere intenzionalmente donne e bambini innocenti  non è in alcun modo "legittimo".

Tornato a Gerusalemme dopo quel colloquio con Bush, Sharon fa il processo ad Arafat - a lui soltanto - senza neppure una parola di ostilità contro Hamas o la Jihad islamica.

Che Sharon non fosse ostile ad Hamas e Jihad, che ha combattutto con determinazione, ricevendo spesso critiche scandalizzate (per esempio, dopo l'eliminazione di Ahmed Yassin),  è assolutamente falso. Vero è, invece, che Arafat era il protettore e il manovratore del terrorismo. E che ciò nonostante era ritenuto un valido interlocutore da molte diplomazie (in primo luogo europee)  Ovvio che gli sforzi di comunicazione del governo israeliano si concentrassero sul compito di far comprendere l'inaffidabilità e l'estremismo del raìs.

 Dunque, ancora una volta, se grande è il suo desiderio di sicurezza, per lui la via da seguire non è la rinuncia a un territorio, e neppure la ricerca della pace con uno Stato palestinese.
Solo più tardi Ariel Sharon e i suoi scopriranno con sconcerto che nonostante l´afflusso di un milione di ebrei russi (oggi un israeliano su sei è di origine russa), e anche ipotizzando possibili, future immigrazioni in seguito a qualche ondata di antisemitismo in Europa o in America Latina, tutto lascia prevedere che con la crescita della popolazione araba Israele non possa rimanere uno Stato ebraico. E´ questa la constatazione più fondamentale e più determinante.
Sharon si rende conto che Israele rischia di diventare un Paese di occupanti sempre meno numerosi, su un territorio dove gli occupati non cessano di moltiplicarsi. Ora, che cos´è il sionismo? Innanzitutto e prima di tutto, l´idea di avere un "focolare", una patria ove riunire la nazione ebraica, nella terra storica degli ebrei. Il problema è tutto qui, fin dall´inizio. Quando Theodor Herzl scrisse il suo libro fondatore, gli diede un titolo che è stato spesso alterato. Il titolo esatto è "Lo Stato degli ebrei", e non "Lo Stato ebraico". La sfumatura è essenziale. Lo "Stato degli ebrei" può senz´altro significare uno Stato abitato da ebrei. Mentre uno "Stato ebraico" è un Paese abitato, diretto e concepito da ebrei, con riferimento alla Bibbia.
Questa contraddizione, che ho creduto di dover definire una "prigione", non ha mai smesso di tormentare le coscienze. Cosa può giustificare l´esistenza di uno Stato specificamente ebraico? La convinzione della validità di una concezione teocratica dello Stato. Era questa la concezione di Luigi XIV (almeno quando c´era Bossuet a ricordargliela: «Se la monarchia è di diritto divino, è perché Dio dà questo diritto al re»). Ed è la situazione in cui si trovano oggi gli ayatollah iraniani. Ma gli ebrei che hanno concepito il progetto di uno Stato erano per lo più socialisti, laici, anticlericali e talvolta atei. Interrogati sulla loro volontà di essere ebrei, rispondevano di non avere scelta, dato che gli altri li consideravano tali; nel loro "giudaismo positivo", erano testimoni dell´universalità. Ma l´universale ha bisogno del territoriale? E cosa sarebbe uno Stato ebraico se Dio non avesse nulla a che fare con la sua designazione?
Queste domande, se le era poste anche David Ben Gurion, il glorioso fondatore dello Stato d´Israele; ma aveva concluso che non c´erano risposte da dare. («Credo nel Libro, ma non mi interrogo sul suo fondatore»). D´altra parte, Ben Gurion pensava che dopo la Shoah non ci fosse più bisogno di porsi problemi identitari. La costruzione del memorial di Yad Vashem, la solennità del processo contro Adolf Eichmann, il carattere unico del genocidio, il fatto che la Germania abbia preso in considerazione lo Stato di Israele come principale beneficiario delle riparazioni alle vittime del nazismo, le vittorie militari che sembravano porre il sigillo della provvidenza sulla presenza ebraica in una terra straniera - tutto questo ha contribuito al passaggio dei responsabili israeliani dalla concezione di uno Stato degli ebrei a quella dello Stato ebraico.

Questo cambiamento, in realtà, non è mai avvenuto. Israele è rimasto, nei fatti e nelle intenzioni, uno Stato laico. Si noti che non c'è una sola prova, nel lungo passo di Daniel, che i dirigenti israeliani, in particolare  Sharon e Ben Gurion , siano stati convinti dalla Shoah a concepire Israele in termini religiosi e teocratici. Si tratta di un' affermazione del tutto gratuita, alla quale ci viene chiesto di credere senza un valido motivo

Si può allora dedurre e comprendere come Sharon sia arrivato a convincersi dell´impossibilità di concludere una pace con chicchessia. Per lui gli israeliani non saranno mai accettati, e l´antisionismo è eterno come l´antisemitismo; dunque bisogna erigere un muro, affinché israeliani e palestinesi non si trovino più faccia a faccia, e neppure fianco a fianco, ma schiena contro schiena. E´ il muro dell´antico dramma ebraico, il ritorno degli israeliani nel ghetto - ma ciò implica anche la loro protezione da ogni minaccia, la necessità di metterli al riparo dalla crescita di una popolazione non ebraica in seno al loro Stato.
Il bilancio della "conversione" di Sharon è dunque positivo? Sì, senza alcun dubbio. La filosofia che lo ha condotto a costruire il muro e ad evacuare Gaza è un gesto indiscutibilmente coraggioso, un atto di rottura con la tradizione che assoggettava la politica alla mistica storica, al mito trasformato in storia. Una decisione che libera gran parte della destra israeliana dal suo messianesimo suicida. Anche se per converso porta a un rinchiudersi degli israeliani in una fortezza assediata, con l´idea di rimanere più essenzialmente fedeli al messaggio e alla finalità del focolare nazionale ebraico. Tutti, al di là della fortezza, sono considerati virtuali aggressori. Così la preoccupazione della sicurezza finisce per portare all´isolamento armato.
Indubbiamente, si può pensare che a fronte della necessità di preservare il carattere ebraico dello Stato con mezzi diversi dalla forza, Ariel Sharon sarebbe entrato - se fosse rimasto al potere - in una logica di rassegnazione all´esistenza di uno Stato palestinese.

Sharon si  è più volte espresso a favore della nascita di uno Stato palestinese, in condizioni di sicurezza per Israele. Il suo lascito politico non è dunque manipolabile su questo punto 

E´ quello che tutti dicono, per poterlo piangere meglio. In effetti, si era già reso conto che il suo no a uno Stato palestinese poteva passare più facilmente finché era in vita un leader screditato come Arafat, mentre oggi esiste un´autorità palestinese decisa a concludere accordi di pace.
La verità è che gli eredi politici di Sharon hanno la possibilità di muoversi in ogni direzione. Potrebbero interpretare il suo messaggio respingendo qualunque tipo di negoziato - e in tal caso non avrebbero difficoltà a trovare argomenti nelle attuali divisioni, nelle incoerenze, nell´incuria dei palestinesi. Ma possono anche scegliere di assoggettarsi, più o meno, alle ingiunzioni americane, soprattutto nel momento in cui Bush è costretto a ritirare dall´Iraq una parte del suo contingente.

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