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La Stampa Rassegna Stampa
16.01.2006 Rientra sulla scena Ehud Barak
l'intervista di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 16 gennaio 2006
Pagina: 7
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Barak: non sarà un voto democratico»

Importante l'intervista di Fiamma Nirenstein sulla STAMPA di oggi 16.1.2006 a Ehud Barak, già leader laburista e oggi vicinissimo alle posizioni di Kadima, il nuovo partito fondato da Ariel Sharon.

Ecco il testo:

Non ci stupiremo affatto se Ehud Barak di qui a poco si decidesse a saltare il recinto della sinistra e scegliesse Kadima. La sua sintonia con la nuova leadership del partito laburista, l’Avodà, è men che zero, mentre la sua analogia con Ariel Sharon è evidente; lui stesso la accarezza, la mette in evidenza mentre nega ogni risposta diretta su se stesso. Peretz, il nuovo segretario socialista, teme e frena un grande ritorno in giuoco dell’ex primo ministro che ha tutto quello che a lui manca: una grande esperienza sia nel campo militare, essendo stato Capo di Stato Maggiore e il soldato più decorato d’Israele, che nel campo della pace, avendo tentato l’accordo di Camp David cui alla fine Arafat oppose un rifiuto. Insomma tutto quello che potrebbe fare di Barak uno degli eredi politici del grande malato Sharon.
Onorevole Barak, chissà quante esperienze militari vicino a Arik...
«Tante, ma non ho intenzione di rievocare niente di personale».
Perché?
«Perché oggi sono solo uno dei molti che prega e spera. E’ un così grande dolore che le possibilità di vederlo tornare al lavoro stiano calando. Sharon è un eroe leggendario».
E la leggenda è meritata?
«Sì, lo è a pieno: oltre a difendere Israele ha compiuto negli ultimi due anni passi di primaria importanza per la pace. E’ stato un percorso drammatico. Nel ’73 tornò alla politica dopo la Guerra del Kippur, e poi fu isolato dopo la guerra del Libano, quando era ministro della Difesa. La sua adesione al movimento dei coloni e il suo impegno nella guerra al terrorismo si accompagnava alla convinzione che sarebbe riuscito a sconfiggere il terrorismo con la forza e a dettare accordi ai palestinesi. Eppure, ha capito, contro il suo passato, che la strada era il disimpegno, il recinto, la via unilaterale».
Insomma, ha cambiato strada. Perché?
«Per le stesse ragioni che mi avevano portato nel 2001 a capire esattamente le stesse cose. La strada obbligata per salvaguardare il sionismo democratico è la sicurezza dei cittadini. Se dà un’occhiata alla piattaforma del 2001 dovrà usare la lente di ingrandimento per trovare differenze fra quello che dicevo io e quello che oggi dice il ministro Tzipi Livni per spiegare Kadima. Per me questo è insieme gratificante e frustrante. Perché avevo ragione, ma non riuscii a convincere neppure i miei compagni che Arafat non era un partner. Ci sono volute migliaia di morti da ambo le parti».
Anche lei è un Primo Ministro che ha cambiato idea.
«Si, dopo Camp David, quando si è visto che senza partner occorre procedere unilateralmente, loro di là e noi di qua, con rinunce territoriali e forte difesa».
Il recinto è visto nel mondo come una scelta negativa.
«Ed è sbagliato: chi lo paragona al muro di Berlino sa bene che quello divideva uno stesso popolo spaccato pretestuosamente dalla guerra fredda. Qui ci sono due popoli diversi e in conflitto, e la necessità di evitare il terrorismo».
Fin dove arriverebbe per difendere la sicurezza di Israele? Di fronte ai missili kassam, tornerebbe a occupare Gaza?
«Andrei ovunque per battere il terrore, per minimizzarlo, anche se non lo si sconfigge mai del tutto. Ma non penso che si debba rientrare a Gaza».
Sharon secondo lei avrebbe proseguito con il disimpegno?
«Dal modo in cui si è spiegato, anche se è impossibile saperlo, penso di sì, a meno che Hamas non ci avesse condotto a una grande nuova ondata di terrorismo. E’ l’incognita che si accompagna al fatto che Abu Mazen non abbia fermato Hamas e la Jihad Islamica. Forse voleva farlo, ma non l’ha fatto. Nei suoi primi cento giorni avrebbe dovuto cancellare la proliferazione di bande armate e l’aggressività di Hamas e della Jihad Islamica. Nessun potere sovrano può operare se ce ne sono altri che passeggiano armati per le strade. E anche le prossime elezioni, non sono democratiche se i concorrenti girano armati».
Il governo israeliano fa bene a lasciare che Hamas partecipi al voto?
«Il governo fa la cosa giusta, non fornendo ai palestinesi la scusa che Israele impedisce loro il voto».
Lei pensa che il consenso del 42 per cento che Kadima raccoglie oggi, declinerà quando la gente realizzerà che Sharon non c’è più?
«Per ora sembra un consenso stabile. Ed Ehud Olmert...».
Suo coetaneo.
«No, io ho un paio di anni di più. Ehud Olmert è un leader solido, intelligente,esperto, scaltro».
Non ha esperienza della materia più importante: la sicurezza.
«Questo lo pensa chi non sa di quante materie segrete, di quanti lavori di commissioni delicate, di quante informazioni preziose egli sia stato messo a parte in questi anni, e quanto contributo sappia dare. Mi creda, capisce di sicurezza come di tutto il resto. Io gli auguro ogni bene».
Signor Barak, che ci sta a fare ancora nell’Avodà? Si vede da lontano che il suo futuro è in Kadima.
«Non parlo di me stesso».
Cosa deve fare Israele di fronte alla minacce iraniane?
«Intanto, sapere che sono molto serie. In secondo luogo, non sono minacce solo contro Israele, ma contro tutto il mondo. Credo che ci sia ancora tempo perché il consesso internazionale agisca portando il caso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Occorrono serie misure di sanzione e visite di ispezione molto frequenti dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Israele è solo uno degli attori in questa vicenda».

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