Molti commentatori, nell'analizzare Israele senza Sharon, si sono lasciati andare a previsioni negative circa il futuro dello Stato ebraico. Non che fossero degli estimatori di Sharon prima della malattia, tutt'altro. Pensiamo ai vari Viola,Man, Valli,Tramballi,Giorgio, e l'innumerevole compagnia cantante. Hanno scritto, senza nascondere una decisa soddisfazione, che era finita l'era dei condottieri, adesso sarebbero arrivati solo politici a guidare la politica israeliana. Certo, per motivi di età, il numero dei fondatori dello Stato è quasi finito, resta Shimon Peres. Ma, a dispetto degli uccelli del malaugurio, Israele è una grande democrazia, dove anche il premier più straordinario e indispensabile, come è stato Sharon, troverà degni eredi che ne continueranno la politica, in base alle indicazioni degli elettori.
Ecco un ritratto di Tzipi Livni, già ministro della giustizia, oggi ministro degli esteri, sulla STAMPA di oggi 15.1.2006
Pilastro del partito Kadima fondato da Ariel Sharon, Tzipi Livni stima «impossibile porre una scadenza al conflitto israelo-palestinese, tanto è profondo e complesso».
Il partito a cui appartiene si chiama Kadima, e cioè “in avanti”. Perché è stato fondato, qual è l’obiettivo?
«La priorità è il processo politico. Kadima si colloca al centro dello schieramento. Israele è la vetrina del popolo ebraico e deve essere democratico. Questo ci porta a dover rinunciare a una parte di Eretz Israel (la terra d’Israele, che include Gaza e la Cisgiordania) e ad accettare l’esistenza di due stati nazionali. Dopo molto tempo la maggioranza degli elettori del Likud, dei suoi iscritti e anche dei suoi dirigenti, ha compreso che alla fine ci saranno due stati e che bisogna fare delle concessioni. C’era un abisso fra i discorsi ufficiali, «Mai uno stato palestinese», e la percezione della realtà. Il Likud era prigioniero degli slogan storici. Ma così come Israele ha posto fine alla questione ebraica moderna, lo stato palestinese dev’essere una risposta definitiva al problema palestinese, tanto per i confini territoriali come per i rifugiati. I palestinesi parlano di due stati ma continuano a invocarne il ritorno. Questo è inaccettabile. Il processo che condurrà allo stato palestinese deve garantire la sicurezza d’Israele».
Che tipo di processo delinea?
«Siamo onesti: è impossibile porre una scadenza. Bisogna tornare alla Road map. È un piano a tappe che porta allo stato palestinese ma che impone anche loro dei doveri, primo fra tutti, la lotta al terrorismo. Ora come ora non mi pare che ci si impegnino davvero. Il processo di pace dipende anche dall’interlocutore. Si vedrà il risultato delle elezioni palestinesi, il 25 gennaio. E a questo proposito mi rammarico che la comunità internazionale si mostri così tollerante riguardo alla partecipazione di organizzazioni terroristiche come Hamas. Il risultato di Hamas e la condotta di Abu Mazen non potranno non influire sulla nostra politica».
Se la spunterà Fatah, negozierete con l’Autorità palestinese?
«È prematuro parlarne. In Medio Oriente succede tutto così in fretta...Oggi noi dubitiamo della capacità di Abu Mazen di gestire la situazione, a partire dal terrorismo. Ma questo può cambiare. Viviamo in un contesto in continua mutazione, con uno scenario internazionale che dà segni d’impazienza e vorrebbe che la faccenda venisse “sistemata”. Ma occorre pazienza, bisogna seguire un percorso ben controllato».
I problemi di fondo si evolvono lentamente...
«Israele non ha nemmeno 60 anni. Fino al 1967 Gaza era egiziana e la Cisgiordania era in territorio giordano. Oggi si parla di stato palestinese. Sessant’anni sono pochi per la Storia. Si può avere la sensazione che le cose evolvano lentamente nella relazione israelo-palestinese ma si tratta di questioni di coscienza, di educazione. Il loro stile di vita è così diverso dal nostro. I loro figli ogni giorno assistono in tv alla sistematica denigrazione d’Israele e vedono esaltare le bande armate. Fino a quando vedranno in ogni israeliano un nemico che è legittimo uccidere sarà difficile fare passi avanti. Ci vogliono generazioni perché questa mentalità si modifichi».
Il processo controllato sarà necessariamente molto lungo?
«Dobbiamo confrontarci con una dissonanza fra le coscienze e le necessità politiche. Ci sono molti fattori da considerare. Ad esempio la globalizzazione. Che pone il problema di un equilibrio con i valori nazionali. Noi abbiamo un problema con la comunità internazionale. Assistiamo a un fenomeno di costante delegittimazione di Israele. A che cosa è dovuto? L’Europa, ad esempio, da 50 anni cerca di costruire qualcosa al disopra dello stato-nazione. Noi, al contrario, vogliamo assicurare la specificità ebraica del nostro Paese. Ora, sempre più spesso si sente dire: “Perché non fare un solo stato? In fondo l’ebraismo non è che una religione”. La globalizzazione genera forti pressioni contrarie agli stati-nazione e movimenti di autoconservazione nazionale. Sotto questo punto di vista io sono arrivata alla conclusione che, sul piano internazionale, più si prolunga il conflitto israelo-palestinese meno il fattore tempo ci è favorevole. Così, da un lato bisogna aspettare che i palestinesi ci riconoscano davvero come stato ebraico, dall’altro siamo in lotta contro il tempo».
Il ritiro da Gaza è stato unilaterale. Intendete mettere fine all’unilateralismo nei rapporti con i palestinesi?
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«È nostro interesse. Ma occorre realismo. Per ora le nostre posizioni sono così lontane che, se vogliamo andare avanti, dobbiamo agire da soli. Loro esigono il nostro ritorno “ai confini del 1967”, come se tutto il problema fosse riconducibile all’occupazione. O, vivono ancora nel 1947 perché esigono il “diritto al ritorno”. È necessario che noi procediamo da soli alla separazione».