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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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Il Foglio Rassegna Stampa
13.01.2006 Una gran bella pagina
analisi e commenti sulla situazione politica ( e militare) israeliana

Testata: Il Foglio
Data: 13 gennaio 2006
Pagina: 1
Autore: Rolla Scolari - Carlo Panella - Michael Oren - Daniel Pipes -la redazione
Titolo: «Il Likud rammaricato riparte senza Sharon e con le solite liti - La prossima volta che punta i suoi cannoni su di me la faccio arrestare - Giovani israeliani tifano vecchia guardia, arabi tristi per l'ex nemico - Il soldato biondo - Una tesi critica - Reg»

Il Foglio di venerdì 13 gennaio 2005 dedica a Israele l'intera prima pagina del supplemento, intitolandola "Il soffio di Ariel". Gli articoli, dedicati alla situazione poilitica israeliana nel dopo Sharon, costituiscono complessivamente un ricco e interessante dossier. Di seguito, riportiamo l'articolo di Rolla Scolari, "Il Likud rammaricato riparte senza Sharon e con le solite liti". Ecco il testo:

Tel Aviv. Le condizioni del primo ministro israeliano, Ariel Sharon, restano critiche. E’ stato richiesto l’intervento di altri specialisti. Il soffio al cuore si sta aggravando. I chirurghi hanno asportato una parte della calotta cranica, che conservano per un successivo reimpianto. Ma dopo giorni di sospensione, la vita politica del paese ripresa. Per la prima volta dal ricovero del leader, mercoledì scorso, il presidente americano George W. Bush ha telefonato al premier in carica, Ehud Olmert, che potrebbe presto recarsi in visita alla Casa Bianca. E’ ripresa anche la campagna elettorale, in vista del 28 marzo. Il comitato centrale del Likud ha votato ieri la lista di candidati da presentare alla Knesset, il Parlamento israeliano. Lo ha fatto nel giorno in cui il leader, Benjamin Netanyahu, ha affrontato la maggiore sollevazione interna dall’inizio del suo mandato: i quattro ministri cui aveva chiesto, prima della malattia del premier, di lasciare il governo, hanno rifiutato di dare le dimissioni, ieri mattina. Soltanto più tardi, tre di loro hanno consegnato le lettere. Non ci saranno effetti sul governo. Il quarto, il ministro degli Esteri Silvan Shalom, ha detto che riparlerà di dimissioni sabato. Pensa che la mossa indebolirà il Likud. Il partito non è forte, oggi. Non è più il Likud di Arik; non è ancora quello che vorrebbe Bibi. Ieri, a Ganei Tarucha, la fiera di Tel Aviv, l’atmosfera non era quella dei voti passati. In simili occasioni, la stampa aveva parlato di un carnevale. Netanyahu ha voluto un voto dignitoso, considerate le condizioni del primo ministro. Tuttavia, alla fiera di Tel Aviv, i sostenitori dei singoli candidati indossano magliette e cappellini colorati, con il nome e il numero del loro uomo; distribuiscono spillette con la bandiera del Likud e d’Israele, adesivi che incollano sulle braccia e le borse dei passanti; cantano inni. Ogni candidato ha un tavolo, in una parte della dispersiva fiera, dove il suo team distribuisce pamphlet e informazioni, mentre a poca distanza una fila di stand vende bretzel, hot dog e caffè caldo. Piove. A causa del clima, i vertici del partito temevano un basso afflusso alle urne. Nel pomeriggio soltanto il 40 per cento dei 3.000 membri del comitato centrale si è presentato alla fiera. Non sono soltanto la pioggia e il fango a tenere lontani gli elettori. Molti sono già passati nelle file di Kadima, altri, dicono fonti interne al partito, se ne andranno una volta chiuse le urne. Il movimento deve ancora trovare un nuovo equilibrio dopo l’uscita di Sharon e soprattutto dopo la nascita di un’entità di centro, Kadima, creata dal premier, che ha spinto il Likud ancora più a destra (Netanyahu promette però un partito di centrodestra). Le divisioni interne, che hanno obbligato Sharon a lasciare il suo storico movimento, non si sono annullate con la sua partenza. Il premier aveva fronteggiato un gruppo di “ribelli”, quest’estate, che si opponeva al ritiro dalla Striscia di Gaza. Con il loro costante ostruzionismo, non sarebbe stato in grado di portare avanti il suo progetto, e ha lasciato il Likud, assieme ad altri deputati. Nel partito ci sono ancora membri vicini al primo ministro. Ieri, il quotidiano Haaretz raccontava l’esistenza di una lista nera contenente i nomi dei “ribelli” che hanno portato alla rottura e alla crisi. I compilatori vorrebbero allontanarli, per creare un partito “sano”. Nessuno sa molto a riguardo, alla fiera di Tel Aviv. In molti non possono fare a meno di rimpiangere Sharon. Nir, 27 anni, è lì per sostenere il suo candidato. Indossa una felpa gialla con il numero della lista. E’ triste per la malattia del premier. Continua a considerare Ariel Sharon una sorta di mito, uno dei padri del Likud. E’ rimasto deluso quando il leader ha lasciato il movimento, ma ancora di più dal comportamento di quei ribelli” che hanno provocato la partenza di Sharon. Suzanne Amor è una nuova candidata. E’ una delle donne che sperano di ottenere un posto in una lista che si preannuncia quasi tutta al maschile. Suo marito è stato sindaco di una cittadina del nord del paese. Affondando il viso nel suo collo di pelliccia, racconta al Foglio come il Likud sia sempre sopravvissuto al succedersi dei suoi leader: Menachem Begin, Ytzhak Shamir, Netanyahu, Sharon, ancora Netanyahu. Le dispiace per la malattia del premier. Dice che Bibi è comunque una “persona brillante, incompresa in Israele. Ha fatto cose eccellenti per la nostra economia” e spiega come il partito, senza Sharon, non andrà alla deriva verso l’estrema destra: “Rimane il partito che conosco da trent’anni”. A pochi passi, Liran Strauber, portiere del Tel Aviv Maccabi, una delle maggiori squadre di calcio del paese, abbraccia la fidanzata: Inbal Gavrieli, deputata alla Knesset, membro di una delle più grosse famiglie d’Israele, che cerca di ottenere un altro mandato. Dice al Foglio di non essere molto attivo politicamente. E’ preoccupato per il premier. E’ stato deluso dalla sua partenza dal Likud ma, ammette, “il nuovo, a volte, può rivelarsi buono”.

Carlo Panella riflette sulla figura  e sulla vita, che ha "lo spessore di una storia antica", epica,   di Sharon nell' articolo "La prossima volta che punta i suoi cannoni su di me la faccio arrestare" (è quanto a Sharon disse Sadat nel 1977, all'ingresso della Knesset).
Ecco il testo:

 La prossima volta che passa il Canale di Suez e punta i suoi cannoni su di me, la faccio arrestare”. Così, con un sorriso sulla bocca, dopo avergli stretto con vigore la mano, Anwar el Sadat minacciò scherzosamente Ariel Sharon. Era il 19 novembre 1977, erano all’ingresso della Knesset, e il presidente egiziano si apprestava a prendere la parola, primo e unico leader arabo, nel Parlamento degli israeliani, per costruire la pace dopo la guerra. Gesto per cui sarebbe stato assassinato. In quella stretta di mano, in quel sorriso, in quella frase, in quel rais arabo che rende omaggio al Parlamento degli ebrei, siglando così la pace e assieme la sua stessa condanna a morte, è racchiuso il mistero che la vita di Sharon e quella di Sadat ci consegnano. Perché Sadat era stato nazista, ammiratore di Hitler, nel 1942 da ufficiale era stato imprigionato per cospirazione a favore dell’Asse nazi-fascista, poi, nel 1945, era stato membro dei Fratelli musulmani, aveva combattuto contro Israele tre guerre e l’ultima quella del 1973, era anche riuscito a non perderla. Specularmente, dall’altra parte della linea del fuoco, nel 1942 Sharon, a 14 anni era entrato nell’Haganah, a fianco degli inglesi contro l’Asse, per poi combattere gli inglesi e tutte e tre le guerre contro gli arabi. Contro Sadat. Nel ’73 era a Ismailia, sulla sponda egiziana del Canale, e scaldava i motori dei suoi carri armati, pronto a partire verso il Cairo, che era soltanto a 110 chilometri di distanza. Sadat aveva sentito, letteralmente, il suo fiato nemico sul collo. L’uno e l’altro erano stati spietati in guerra, nel combattersi, e spietato era stato Menahem Begin, e la cornice in cui era avvenuto il primo colloquio tra i due premier, in quel giorno del 1977, lo ricordava in pieno. Begin e Sadat, infatti, prima di recarsi alla Knesset, avevano discusso a quattr’occhi in una sala dell’hotel King David di Gerusalemme. Una normale procedura, non fosse che quella stessa sala era stata distrutta nel 1947 proprio da Menahem Begin, con un attentato terrorista diretto contro il comando militare inglese. Sadat, Begin e Sharon, quel giorno, si strinsero la mano e il trattato di pace che poi siglarono disegnò proprio quella road map che ancora oggi è sul tavolo della trattativa. Si può andare avanti all’infinito a raccontare episodi della cruda odissea che ha forgiato e stroncato i destini di Sharon, Sadat, Begin, Rabin e tanti altri. Ma, anche se letti tutti insieme, ci permettono solo di afferrare i contorni del mistero che intreccia guerra e pace nelle vite loro e dei loro popoli. Resta infatti difficile, doloroso, penetrare il loro nucleo duro, biblico, di militari spietati, che hanno dato ordini feroci, che hanno ucciso e ordinato di uccidere per difendere i loro popoli e che poi – unici – hanno saputo deporre le armi, costruire trattati, fatto la pace. Ariel Sharon, questo è il dramma di queste ore, è l’ultimo di questi cinici eroi della guerra che sanno essere caparbi costruttori di pace. Israele lo sa e prega smarrito. Dopo Sharon verrà un altro premier. Ma sarà soltanto un politico, non un eroe caparbio, e non potrà fare quello che solo lui può fare. Solo lui ha potuto sgomberare Gaza, proprio perché aveva chiesto e ottenuto il voto del popolo di Israele per non abbandonare mai Gaza. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. La vita di Sharon, la ferocia, la determinazione, l’incoscienza temeraria di Sharon in guerra sono stati tali che quando proprio lui ha annunciato a Israele che doveva tradire il mandato ricevuto, la parola data, Israele gli ha creduto. Soltanto lui poteva convincere Israele che quello andava fatto, come è stato fatto. Solo Arik Sharon poteva mandare soldati disarmati a scacciare e abbracciare coloni disarmati, a piangere gli uni nelle braccia degli altri per la violenza terribile che dovevano fare e subire. Così, soltanto lui può trattare sulla Cisgiordania, sapendo di avere Israele dietro di sé. Come sempre, quanto accade in Palestina ha lo spessore di una storia antica, ma nessun poeta cieco lo sa raccontare. Come sempre, ora si imporrà la saggia normalità delle procedure e delle istituzioni. Ma, chiunque sarà, il prossimo premier che giurerà sulla Torah avrà una biografia che non potrà più essere spesa davanti al popolo di Israele. Sarà un politico, un ottimo politico. Ma non un uomo che vuole la pace, per la terribile ragione che sente dentro di sé, perché le ha combattute, una per una, nella sua carne, il peso di tutte le guerre che insanguinano quella terra da mille e mille anni.

Rolla Scolari, intervistando gli studenti dell'Università ebraica di Gerusalemme in uno dei bar dell'ateneo,  racconta i "Giovani israeliani" che "tifano vecchia guardia" e gli "arabi tristi per l'ex nemico", nell'articolo che riportiamo: 

Gerusalemme. Le condizioni del primo ministro Ariel Sharon sono molto gravi. Le televisioni di mezzo mondo hanno smontato le tende del campo improvvisato nel cortile dell’ospedale Hadassah. Il paese aspetta, ma è difficile non pensare che questa sia la lenta uscita di scena del guerriero Arik. Per molti, in Israele, a prescindere dalle appartenenze politiche, Sharon è una della ultime figure di un’epoca mitica. A parte l’ex leader laburista, Shimon Peres, la scena politica è occupata da una generazione più recente, senza legami con quel passato. Il premier appartiene a quel gruppo di uomini e donne che hanno fatto il ’48, che hanno contribuito alla fondazione dello stato d’Israele. Ha servito trent’anni nell’esercito di Tsahal, è un general maggiore. Ha combattuto la guerra dei Sei giorni, nel 1967, la guerra dello Yom Kippur, nel 1973, è stato in Libano, nel 1982. Ha fondato, agli inizi degli anni Settanta, assieme ad altri, il Likud. E’ una figura controversa: per molti è l’eroe delle armi, l’uomo che in più di un’occasione si è rivelato centrale nella difesa del paese. Per altri rimane “il macellaio di Beirut”: era ministro della Difesa ai tempi della strage di Sabra e Chatila, in Libano. Una commissione israeliana lo ha giudicato indirettamente responsabile per il massacro. Ma non è detto che le giovani generazioni vedano tutto questo nella figura del loro primo ministro ricoverato in un letto d’ospedale. Hanno vissuto uno Sharon diverso, un Arik politico, non guerriero. Non è detto che la sua uscita di scena sia percepita allo stesso modo da padre e figlio. La Hebrew university di Gerusalemme è affollata all’ora di pranzo. Shai parla al Foglio da uno dei rumorosi bar dell’ateneo. Ha 24 anni, studia scienze politiche ed economia, ed è attivo nei gruppi giovanili del Partito laburista. Ha accompagnato Amir Peretz, neoleader di Avoda, nella recente campagna per le primarie. Per lui, l’uscita di scena del premier non è un vero problema. Ma – sottolinea – non per le sue posizioni politiche diverse. Crede che il vecchio leader non sia insostituibile. “Il paese esiste dal 1948. Ha molte tradizioni e regole di governo. Il prossimo esecutivo saprà guidare il paese”. In fondo – ricorda – quando Ytzhak Rabin è morto siamo andati avanti. Seduti allo stesso tavolo, Ronen, capo del gruppo universitario dei settlers, e Ariel, ex assistente di un parlamentare arabo laburista, discutono dell’eredità del primo ministro. Per Ronen, il ritiro dalla Striscia di Gaza “non è stato democratico, non è stato umano”. Nonostante ciò, a livello personale, è triste per le condizioni del premier. Dice però di non confondere politica e sentimenti personali. “Il tempo di questi vecchi politici è ormai passato – spiega – è come se a mio nonno gli chiedessi di navigare su Internet”. Ariel non è d’accordo. Per lui il disimpegno è stato un passo importante, nonostante non sia politicamente vicino a Sharon. Ma lui al governo non vorrebbe i giovani. Non si fida. “Sono i vecchi che sanno portare avanti il paese, hanno esperienza e saggezza”. Non hanno paura per il futuro. Entrambi, l’arancione e il laburista, pensano che Israele sia una democrazia. Ronen parla di “una forte democrazia”, Ariel di una “semidemocrazia”. Comunque, non sentono minacce per il paese, in assenza del premier. Sharon, studentessa, crede nel leader malato. E’ la prima volta che vota in Israele, perché ha appena preso la cittadinanza. Prima della malattia del primo ministro avrebbe dato la sua preferenza a Kadima. Adesso che alla testa del partito c’è Ehud Olmert non ne è più convinta. Ha un amico arabo israeliano, Mohammed, che ha appena finito di studiare medicina. Racconta che la sua famiglia prova un sentimento ambiguo. Più di cinque anni fa, dice, ogni arabo avrebbe associato a Sharon la parola “crimine”. Ma quello che è successo dopo è pazzesco: “Mio padre ha circa sessant’anni, ha vissuto tutta la politica d’Israele, dalla sua fondazione”. Mohammed lo ha sentito dire: “Chi lo avrebbe mai detto che un arabo sarebbe stato triste per la malattia di Sharon”. E’ l’unico in Israele che può fare qualcosa per il processo di pace, dice. “Ora sento che tutto quello che stava per succedere non arriverà”. Non crede che Olmert abbia la forza di Sharon per imporre il suo progetto. Sharon si è reinventato. Qualche giorno fa, Zvi Barel, sul quotidiano Haaretz, scriveva, riguardo al premier, che l’eredità degli insediamenti sta lasciando spazio sempre di più a una nuova eredità, quella del disimpegno. Ricorda Sergio Minerbi, ex ambasciatore israeliano a Bruxelles, che oggi la popolarità del primo ministro non deriva dal fatto che abbia combattuto la guerra dello Yom Kippur, ma è dovuta al ritiro dalla Striscia di Gaza, “un’operazione recentissima, che anche i giovani ricordano bene e che ha riscosso un grande successo, contro ogni previsione”. Nel suo salotto pieno di libri, Minerbi dice che “non basta la carta d’identità per essere giovani”. Bisogna vedere se questa età anagrafica più bassa porta con sé cambiamenti e riforme positive.

Nella colonna intitolata "Il soldato biondo", ripresa dal Wall Street Journal, lo storico israeliano Michael Oren spiega "che Arik incarna tutto Israele e lascia una formidabile eredità".

Ecco il testo:

L’uscita dalla scena politica di Ariel Sharon rappresenta non solo la fine della più importante figura nella politica israeliana ma pure la conclusione dell’era formativa della storia israeliana, un periodo che Sharon ha incarnato nella sua persona. Sharon è stato associato a ogni fondamentale evento di questa storia. Ufficiale di fanteria nella battaglia per il corridoio di Gerusalemme nella guerra d’indipendenza del 1948, capo dei parà nella campagna del ’56 in Sinai, fu poi generale e comandante di divisione nella Guerra dei sei giorni nel ’67 e nella guerra del Kippur nel ’73. Come ministro di governo, è stato il principale architetto dell’invasione israeliana del Libano nell’82, e la forza trainante del movimento dei coloni e degli insediamenti nei Territori. Con la sola eccezione di Shimon Peres, è stato membro della Knesset più a lungo di qualsiasi altro, e la sua capacità di costruire coalizioni rimane insuperata. Ha cominciato la carriera politica a sinistra, è passato poi nella destra e si è infine indirizzato al centro. Sharon, più di qualsiasi altro, ha rappresentato gli ideali più alti dello stato israeliano: il suo eroismo, la sua tenacia e la sua versatilità. E, esattamente come lo stato di Israele, è stato un coacervo di contraddizioni. Il partito da lui creato nel ’77, Shlomzion, ha sostenuto i negoziati con l’Olp e la creazione di uno Stato palestinese nei territori conquistati da Israele nel ’67. Tuttavia, dopo essere entrato nel Likud, allora guidato da Begin, Sharon è diventato un nemico implacabile dell’Olp e del suo leader, Yasser Arafat. Alla metà degli anni 70, si è opposto alle proposte di pace del presidente egiziano Sadat e ha promosso la costruzione di insediamenti nel Sinai. Ma nel’82 ha sradicato gli insediamenti e ritirato le truppe dal Sinai per rispettare i termini dell’accordo fra Israele ed Egitto. Numerosi leader israeliani, Begin compreso, temevano che Sharon rappresentasse una minaccia per la democrazia. Ciononostante, quando un’inchiesta lo ha giudicato moralmente colpevole per il massacro dei civili palestinesi da parte dei miliziani cristiani a Sabra e Chatila, Sharon, ministro della Difesa, ha immediatamente accettato la sentenza e ha rassegnato le dimissioni. Nessuna questione ha dimostrato le svolte di Sharon più dei cosiddetti accordi di Oslo che Israele ha sottoscritto con Arafat nel ’93. Sia come leader dell’opposizione di destra sia come ministro del governo a maggioranza Likud guidato da Benjamin Netanyahu, Sharon ha sempre sostenuto che Arafat non avrebbe mai rinunciato al terrorismo e che il processo di Oslo avrebbe condotto Israele al disastro. Le sue previsioni si sono avverate nel 2000, quando il Fatah di Arafat ha fatto causa comune coi gruppi terroristici. Eletto nel febbraio 2001, si è rifiutato di incontrare Arafat, e alla fine ha organizzato una controffensiva che ha distrutto l’infrastruttura terroristica e lasciato Arafat isolato e assediato nel suo quartier generale. Poi, però, ha fatto dietrofront e ha sottolineato la necessità di fare “dolorosi sacrifici” per la pace, ed è diventato il primo premier israeliano che ha approvato la creazione dello stato palestinese. Quelle che sembrano incongruenze di Sharon sono state spesso un riflesso della sua capacità di percepire le preferenze dell’opinione pubblica. Quando è apparso chiaro che la maggioranza degli israeliani non sarebbe più stata disposta a combattere per difendere 8.000 coloni a Gaza, Sharon ha fatto evacuare gli insediamenti e ha lasciato Gaza. Quando gli israeliani hanno dato il proprio appoggio alla costruzione di una barriera in Cisgiordania, Sharon, che originariamente si era opposto, ha cominciato a costruirla. Quando la maggior parte degli israeliani ha mostrato sfiducia nello status quo e nella possibilità di trovare una leadership palestinese in grado di negoziare con Israele, Sharon ha lasciato il Likud e ha fondato Kadima, un partito capace di ridisegnare confini di Israele in modo unilaterale. L’immagine di Israele e dello stesso Sharon è profondamente cambiata dopo la fondazione del nuovo partito. La prima fase del suo premierato è stata contrassegnata da manifestazioni in Europa occidentale nelle quali Sharon è stato paragonato a Hitler e accusato di crimini di guerra. Dopo il ritiro da Gaza, la comunità internazionale ha iniziato a considerare Israele in modo più positivo. Sharon è stato calorosamente accolto all’Onu e applaudito da buona parte dei suoi precedenti critici europei come uno statista e un uomo di pace. Il biondo e affascinante soldato, il politico obeso, il “bulldozer” che ha spinto migliaia di israeliani negli insiediamenti e poi li ha costretti ad abbandonarli, l’appassionato di cultura ebraica la cui lingua madre era il russo, il laico che ha un profondo rispetto per la fede, il combattente di molte guerre e, infine, il campione della pace: Sharon ha avuto molteplici identità. Ciononostante, è rimasto sempre profondamente israeliano, l’incarnazione della natura multiforme e paradossale dello stato d’Israele. Ora Israele sta per entrare in una nuova fase. Meno diviso e più deciso sui confini che desidera e sul tipo di società cui aspira: separato dai palestinesi ma pronto a fare compromessi con loro; in grado di mantenere relazioni costruttive con la comunità internazionale e forte di una salda alleanza con gli Stati Uniti. E’ l’Israele che ci lascia Sharon, un’eredità formidabile per affrontare il futuro.

Lo studioso americano di islam Daniel Pipes presenta invece "Una tesi critica" verso il progetto politico di sharon e di Kadima.

Ecco il testo:  

Il premier israeliano Ariel Sharon è stato colpito da una gravissima emorragia cerebrale e la sua lunga carriera politica sembra a dir poco essere compromessa. Cosa comporterà ciò per la politica israeliana e per i rapporti arabo-israeliani? Fondamentalmente, ciò segna un ritorno alla vita di sempre. Sin dal 1948, anno nascita dello stato di Israele, la vita politica israeliana è dominata da due visioni merito ai rapporti con gli arabi, rappresentate (in base agli attuali nomi dei due schieramenti) dal Partito laburista, a sinistra, e dal Likud, a destra. I laburisti hanno argomentato a favore di una maggiore flessibilità e di un atteggiamento più accomodante nei confronti degli arabi, il Likud ha ritenuto opportuno adottare una posizione più inflessibile. Ognuno degli 11 premier israeliani proveniva da questi due partiti, e nessuno di essi apparteneva numerosi altri schieramenti politici. Likud e il Partito laburista, pur avendo subito un declino di popolarità di lunga data, hanno continuato a essere i cardini e i dominatori della vita elettorale israeliana. questo sino a sei settimane fa. Il 21 novembre scorso, Sharon ha lasciato il Likud per formare un nuovo partito chiamato Kadima. Egli ha scelto di compiere questo passo radicale per due motivi: poiché le sue idee in merito ai palestinesi si erano distanziate dalla linea politica nazionalista del Likud, come mostrato dal ritiro – avvenuto a metà del 2005 – dell’esercito israeliano e dei civili da Gaza, e giacché, a causa della sua accresciuta popolarità, egli riteneva all’altezza di fondare un partito sua immagine. La sua mossa è stata mirabilmente tempestiva e ben riuscita. Immediatamente, i sondaggi hanno mostrato come Kadima sia riuscito a soppiantare Partito laburista e il Likud. Un recente sondaggio condotto da Dialogue ha mostrato vincitore Kadima, che otterrebbe seggi sui complessivi 120 della Knesset, Parlamento israeliano, seguito dal Partito laburista con 19 seggi e dal Likud con appena 14 seggi. Lo sbalorditivo successo di Kadima ha messo a soqquadro la politica di Israele. Gli storici cavalli di battaglia sono stati così tagliati fuori e si è speculato in merito al fatto che Sharon potesse formare un governo senza persino prendersi il disturbo di allearsi con l’uno o con l’altro. Ancor più sorprendente è apparsa l’autorità personale di Sharon in seno a Kadima; Israele non aveva mai assistito alla comparsa di un siffatto uomo forte. (E di rado è successo in altre mature democrazie; un’altra eccezione è rappresentata dal caso di Pim Fortuyn nei Paesi Bassi). Sharon è riuscito a portarsi rapidamente dietro nel nuovo partito illustri politici laburisti, likudisti e appartenenti ad altri schieramenti che hanno poco in comune, a parte la disponibilità a seguire la sua guida. Si è trattata di un’impresa audace, ambiziosa, virtuosistica e acrobatica, una di quelle che riuscirà a durare soltanto a condizione che Sharon mantenga il tocco magico. Oppure se si rimette in salute. Sin dal principio ho espresso il mio scetticismo verso Kadima, definendolo, a una settimana dalla sua fondazione, come un’iniziativa tendente a sfuggire alla realtà che “cadrà tanto rapidamente come è sorto e si lascerà alle spalle un misero retaggio”. Se la carriera di Sharon è finita, sarà così anche per Kadima. Egli lo ha creato, lo ha guidato, ha deciso la sua linea politica, e nessun altro è adesso in grado di controllare i suoi elementi. Senza Sharon gli elementi che compongono Kadima se ne torneranno alle loro vecchie case nel Likud, nel Partito laburista e altrove. Con un tonfo, la politica di Israele torna alla normalità. Nelle elezioni di marzo, il Likud, che in precedenza era previsto al terzo posto, sembra essere il partito che maggiormente avrà da guadagnare dall’uscita dalla scena politica di Ariel Sharon. Infatti i membri di Kadima provengono in modo sproporzionato dalle sue file e adesso il Likud, sotto l’efficace leadership di Benjamin Netanyahu, plausibilmente avrebbe buone possibilità di rimanere al potere. Le prospettive del Likud sembrano sempre più promettenti visto che il Partito laburista ha appena eletto un nuovo leader radicale e inesperto, Amir Peretz. In linea di massima, l’improvvisa svolta a sinistra della politica di Israele, nella scia della svolta personale di Sharon a sinistra, si fermerà e probabilmente sarà perfino ribaltata. Riguardo ai rapporti israelo-palestinesi, Sharon ha commesso errori madornali negli ultimi mesi. In particolare, il ritiro israeliano da Gaza è stata una conferma per i palestinesi del fatto che la violenza funziona, provocando un fuoco di sbarramento di missili sul suolo israeliano e l’infiammarsi del clima politico. Dal momento che Israele tende a tornare a uno stadio più normale della propria vita politica, nel quale nessun politico godrà della popolarità di Sharon, le azioni del governo saranno nuovamente tenute sotto stretta sorveglianza da parte dell’opinione pubblica. Può darsi che ne risulterà una linea politica nei confronti dei palestinesi più realista e meno incline a sfuggire alla realtà e probabilmente vi sarà persino un movimento di avanzamento a favore di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese.

La rubrica "Militaria" porta l'attenzione su "Regia e armi dei pasdaran per la grande offensiva contro Gerusalemme" e sull'intesa anglo-libanese nei campi della difesa ed ella sicurezza.

Ecco il testo: 

Una nuova strategia riunisce tutti i gruppi estremisti palestinesi e gli hezbollah libanesi per concentrare la pressione militare su Israele. Le redini delle operazioni sono sempre più nelle mani dell’Iran, che rifornisce di armi e consiglieri militari dei pasdaran Hamas e Hezbollah, legati da un’alleanza stipulata nel 2000, ma sempre più influente anche sugli altri gruppi palestinesi che di fatto controllano Gaza: il Jihad islamico, le Brigate Martiri di al Aqsa e soprattutto i Comitati di Resistenza Popolare, legati ad al Qaida. L’obiettivo è tenere aperti simultaneamente due fronti militari contro lo stato ebraico, lungo la frontiera settentrionale con il Libano e quella meridionale con la Striscia di Gaza, e per gestire le operazioni è stata creata una vera struttura militare di comando e controllo controllata da ufficiali dei pasdaran. Il comando strategico della nuova campagna contro Israele sembra essere a Bandar Abas, in Iran presso il quartier generale del Corpo delle Guardie per la Rivoluzione islamica, dove si è recato un mese fa il leader di Hamas, Khaled Meshaal. I comandi operativi sono situati invece nel Libano del Sud e a Gaza, dove Hezbollah ha istituito un comando militare con l’aiuto di Hamas. I risultati della nuova offensiva si sono già visti: Israele ha dovuto intensificare le azioni di contenimento lungo il confine libanese e creare una “fascia di sicurezza” a sud, lungo il confine di Gaza, da dove partono i razzi Qassam diretti contro obiettivi civili israeliani. Ieri un kamikaze si è fatto saltare in aria contro militari israeliani vicino a Jenin, senza fare vittime. A Gaza le forze di sicurezza dell’Anp sono sempre più allo sbando e incapaci di garantire la sicurezza e il rispetto degli accordi. Nel complesso su 60 mila poliziotti le autorità palestinesi ammettono che non è stato neppure possibile conoscere i nomi di tutti gli agenti ufficialmente assunti e a libro paga, dei quali circa il 25 per cento non si reca mai al lavoro pur percependo lo stipendio ogni mese. Solo in retribuzioni le forze di sicurezza assorbono oltre 350 milioni di dollari al mese. La Banca mondiale ha inoltre di recente fatto sapere che l’Autorità palestinese rischia la bancarotta. A pochi giorni dalle elezioni. Dopo aver accumulato migliaia di razzi campali con i quali colpire il territorio israeliano, le milizie hezbollah hanno ricevuto dalla Siria nuove armi anticarro russe e i lanciarazzi Rpg-29, considerati tra i più potenti e in grado di perforare le corazzature più resistenti utilizzate da tank occidentali e israeliani. Il governo libanese ha confermato che, dopo gli scontri di confine con le forze israeliane di fine dicembre, Hezbollah ha rafforzato la presenza dei miliziani nel Libano meridionale. Beirut ha deciso di contrastare maggiormente l’afflusso di armi provenienti dalla Siria e dirette a Hezbollah e miliziani palestinesi, ma per farlo ha concentrato gran parte delle sue truppe lungo il confine siriano, sguarnendo la frontiera meridionale con Israele, concedendo così ampi spazi ai miliziani Hezbollah. Preso tra Siria e Israele, il Libano sta stringendo rapporti sempre più forti sul piano della difesa e della sicurezza con la Gran Bretagna. Il ministro della Giustizia di Beirut, Charles Rizck, e l’ambasciatore britannico, James Watt, hanno ratificato a fine dicembre un accordo di estradizione che imporrà a Beirut di consegnare a Londra molti ricercati per terrorismo che da tempo hanno trovato rifugio in Libano. Accordi simili sono stati già firmati da Londra con Libia e Giordania, ma le relazioni con Beirut sembrano particolarmente salde anche sul fronte militare e d’intelligence. In ottobre unità navali libanesi e due fregate britanniche hanno condotto per la prima volta manovre congiunte lungo la costa settentrionale del Libano, a ridosso delle coste siriane, nel quadro della cooperazione bilaterale nella lotta al terrorismo. Londra mantiene una forte presenza militare nell’area ed effettua operazioni di controllo elettronico e intelligence grazie ai sofisticati strumenti presenti nelle basi di Akrotiry e Dekhelya, situate sull’isola di Cipro.

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