Anche martedì 11 gennaio 2006 Il Mattino e il suo cronista Vittorio Dell’Uva dimostrano che le critiche mossegli in questi giorni erano totalmente fondate: no, proprio non riescono ad essere imparziali e almeno un po’ obiettivi, non riescono a dare di ciò nemmeno una minima parvenza. Certo, Yehoshua non è Ytzhak Laor o un Nemr Hammad qualsiasi, è sicuramnete persona più equilibrata, ma come lui stesso si definsice nell’intervista è di sicuro un esponente della sinistra israeliana non certo vicino a Sharon e a chi ha governato Israele in questi ultimi anni, e questa intervista non fa che confermarlo. Quattro interviste su quattro, quindi, senza che al lettore sia stata la possibilità di guardare a Sharon e a Israele partendo dalle opinioni di chi in Israele vive e ha una visione diversa delle cose, di chi, con il suo sentire, rappresenta la maggioranza dei cittadini israeliani. Ma ribadiamo, e non ci stancheremo mai di farlo, che la linea de Il Mattino non è quella di permettere al lettore di valutare soggettivamente quale, tra diversi punti di vista, sia il più convincente, bensì quella di inculcare il pensiero unico che vede Israele se non responsabile di tutti i mali quantomeno di una più che cospicua maggioranza di essi. Un esempio: su quattro interviste tra domande dell’intervistatore e risposte dell’intervistato non si pronuncia mai la parola: terrorismo. Soltanto Yehoshua alla fine dell’intervista accenna timidamente ai razzi Qassam.
Ecco il testo:
Gerusalemme. «Prima era il diavolo adesso è il padreterno. Mi sembra che si stia esagerando». Abraham Yehoshua, il più noto tra gli scrittori israeliani, non condivide lo psicodramma che parte del Paese continua a vivere e che induce qualche commentatore a suggerire di non dipendere più dai bollettini emessi dall'ospedale Hadassah. «Ormai - osserva - non abbiamo bisogno del medico per sapere che Sharon è uscito di scena. Meglio pensare al futuro». E chi crede che sarà chiamato a gestirlo? «Non avremo più un uomo che suona tutti insieme gli strumenti. Ehud Olmert, un politico abile, potrebbe farcela anche se prima deve essere eletto. Ha buone prospettive visti i sondaggi che danno ancora Kadima come formazione vincente. Certo non ha il carisma e l'autorità di Sharon, alle cui ultime scelte ha contribuito, ma ha accumulato una grande esperienza. Non è un falco pur provenendo dal Likud. Nel suo cuore è più moderato. E poi potrà accettare più compromessi di quanti non abbia voluto fare il vecchio leader. È l'unica via per continuare il negoziato di pace». Un’eredità comunque di per sè molto pesante, soprattutto sul piano delle relazioni internazionali. Il leader, creato dalle circostanze, rappresenta per molti ancora un’incognita. «Su di lui sarà necessario esercitare molte pressioni. Non è come Sharon cui bastava il supporto degli Stati Uniti e dell'Unione europea». E per quanto tempo bisognerà ancora misurarsi con il disorientamento degli israeliani? «Si è parlato di trauma e di disastro. Ma ci troviamo di fronte ad una malattia, non ad un assassinio come nel caso di Rabin. Non siamo all'uscita dalla vita pubblica di un Ben Gurion. Non dimentichiamo che Sharon ha commesso errori che gli hanno attirato l'antipatia di parte del Paese. Ha avuto la geniale intuizione di fondare un nuovo partito che gli avrebbe assicurato il trionfo. Ma mi ricorda anche Nixon ai tempi del ritiro dal Vietnam». Qualcuno sostiene che lei avrebbe paragonato Sharon al generale De Gaulle. «No, sono stato frainteso. Sharon è stato un generale di talento, non una personalità speciale o storica. Ho soltanto detto che Kadima è un partito di tipo gollista». È comunque disponibile a rivedere il suo giudizio su uno dei «padri» di Israele? «Direi che Sharon negli ultimi tempi aveva capito. Nessuno gli credeva quando aveva cominciato a smantellare gli insediamenti per i quali si era battuto con forza. Si vede che la vita è davvero strana mentre a pensarci bene, non c'è niente di strano nelle sue ultime scelte. Semplicemente è stato realistico. L'assurdità era stata mettere ottomila coloni in mezzo ad oltre un milione e duecentomila palestinesi. Non occorreva un’intelligenza superiore per capire che bisognava andarsene. Rinunciare era logico». Ehud Olmert dice che resterà agganciato al progetto tendente a favorire il processo di pace. A lui si può credere? «Non so se lo farà, penso che debba assolutamente farlo. L'ideologia dell'espansionismo è finita. La soluzione è non conservare un solo metro quadrato di terra che non ci appartiene. Poi naturalmente va considerato l'atteggiamento dei palestinesi. Se vogliono il processo di pace debbono smetterla di lanciare missili Qassam contro Israele e di litigare tra loro. Mi pare che non abbiano colto l'occasione storica del ritiro da Gaza». Dà ad Olmert un buon voto in politica, pensa di poter votare il 28 marzo per lui e per Kadima. «Mai. Io sono un socialdemocratico schierato contro le disparità sociali». Ma l'adesione di Shimon Peres al nuovo soggetto politico non potrebbe anche favorire l'affermarsi delle istanze dei laburisti? «Di Peres non parlo. È soltanto un volgare opportunista».
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