Avvenire di mercoledì 11 gennaio 2006 pubblica un'intervista di Andrea Lavazza allo storico Emanuele Ottolenghi, sulle prospettive di successo elettorale del partito Kadima, privato della leadership del suo fondatore Sharon. Ottolenghi sviluppa un'analisi della situazione politica inetrna israeliana persuasiva e fondata su solidi argomenti.
Ecco il testo:
«Ha aperto una via, ha indicato la strada, non ha potuto completare l'opera che la gente gli chiedeva. Sharon lascia un'eredità importante, ma incompleta. Tocca ai suoi successori portare a termine il progetto». Emanuele Ottolenghi, docente di Storia di Israele all'Università di Oxford, tra gli analisti emergenti della questione mediorientale, traccia un ritratto sostanzialmente positivo della carriera politica del primo ministro, «che ha dimostrato grandi abilità nel servire gli interessi del suo Paese. E, negli ultimi anni, ha assunto importanti decisioni le cui conseguenze si potranno valutare pienamente soltanto fra alcuni anni. Zone d'ombra? Certo, ma inevitabili quando si sta in prima linea per 50 anni in un contesto di esacerbata conflittualità».
Che cosa ha significato la svolta dell'ultimo Sharon?
È stato infrangere un tabù, creare un precedente che non si potrà cancellare. Ha abbandonato le posizioni che per 30 anni destra e sinistra ritenevano immodificabili. Da una parte, i laburisti sostenevano che la concessioni erano obbligate per ottenere la pace e che, una volta nato lo Stato palestinese, si sarebbe arrivati a una convivenza serena, con l'accettazione da parte araba della legittimità di Israele. Il Likud era invece convinto che il mondo arabo-musulmano sarebbe stato per sempre ostile allo Stato ebraico, che le occupazioni dei territori fossero funzionali alla sicurezza oltre che un diritto storico e religioso; i palestinesi alla fine si sarebbero rassegnati. Sharon, con parte dell'opinione pubblica, ha capito che sbagliavano entrambi.
Qual è stata la sua intuizione, allora?
Quella di intuire che la destra aveva ragione nel non fidarsi della controparte (si vedano il terrorismo e l'intransigenza di Hamas) e la sinistra era nel giusto quando dichiarava che difendere gli insediamenti all'infinito risultava impossibile. Di qui è nata la linea "centrista" del ritiro unilaterale.
Non è stata quindi una sincera volontà di chiudere il conflitto in quanto tale?
Il realismo è una componente della politica. Sharon ha visto che il sentimento generale resta quello di sfiducia verso la leadership dell'Anp. Col ritiro da Gaza si è dimostrato più lungimirante della destra, il cui progetto di grande Israele è diventato insostenibile per le stesse condizioni storiche.
La svolta di Sharon si è concretizzata anche con la creazione di un partito, Kadima. Che futuro vede per la nuova formazione?
L'uscita di Sharon dalla scena pubblica per ora non sembra incidere sui destini elettorali di Kadima. Anche gli ultimi sondaggi lo danno in vantaggio. Sharon poteva valersi del suo carisma e della sua popolarità personale, ora Kadima sembra essere premiata per il programma e le altre figure di primo piano.
Chi emergerà nel confronto per la successione? Il partito avrà la forza di reggere senza il suo fondatore?
Ritengo che Ehud Olmert abbia le capacità e l'esperienza politica per prendere le redini. È stato ministro della Sanità, del Commercio, delle Finanze; a lungo sindaco di Gerusalemme, dove ha dovuto gestire la difficile situazione di una città tenuta sotto i riflettori di tutto il mondo; e ultimamente, come vice primo ministro, ha trattato i dossier più delicati, avendo accesso alle informazioni segrete. Se tutti gli riconoscono qualità e dirittura morale, difetta di calore e simpatia, e non è quindi un trascinatore di folle. Sa però circondarsi di ottimi collaboratori e l'intenzione di dare ruoli di vertice agli ex laburisti Peres e Barak così come a Dan Meridor, uscito dal Likud, servirà a rafforzare l'immagine centrista di Kadima.
Che mosse è prevedibile adottino adesso Netanyahu e Peretz?
Sharon, forte del consenso preventivo, avrebbe potuto tenere una posizione "ambigua", del tipo «fidatevi di me, so che cosa fare e quando farlo». Olmert sarà invece costretto a essere più esplicito e, quindi, più attaccabile. Il Likud insisterà sul fatto che ai palestinesi è stato concesso troppo senza alcuna contropartita. Peretz si trova in maggiori difficoltà, poiché voleva puntare la campagna sui temi di politica interna, la situazione economico-sociale, ora però la discussione verterà di nuovo sulla sicurezza e la diplomazia internazionale. Entrambi, comunque, cercheranno di riportare nelle proprie file i transfughi verso Kadima di questi mesi. Vedremo con quanto successo.
Il Muro, molto contestato dai palestinesi e all'estero, sarà un tema del dibattito in vista del voto?
La barriera di protezione sembra ormai un dato accettato. Qualche perplessità nasce solo da tracciato, che molti temono possa diventare una linea di confine.
Le elezioni palestinesi del 25 gennaio avranno contraccolpi sul fronte di Gerusalemme?
Solo se stravincerà Hamas. Allora il Likud potrebbe giovarsi dei timori dell'opinione pubblica. Altrimenti, i probabili risultati non influiranno sulle urne israeliane.
Resta da chiedersi come si muoverà ora Bush, che ha perso un alleato importantissimo sullo scacchiere mediorientale?
Le relazioni tra Israele e Stati Uniti sono così salde che non vi saranno scompensi nemmeno per la traumatica scomparsa dalla scena di Ariel Sharon. Con Olmert potrebbe continuare la strategia avviata dall'attuale amministrazione: non dimentichiamo che si dice come sia stato proprio il vice premier a convincere definitivamente Sharon al ritiro da Gaza. Più problematica sarebbe invece una collaborazione con Netanyahu, malgrado le apparenti affinità ideologiche con i repubblicani. Ma Washington sarà sempre al fianco di Gerusalemme.
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