A volte ci si chiede perché tanto odio e ignoranza intorno a Israele. Una spiegazione la si può trovare sicuramente nel meticoloso lavoro di propaganda anti-israeliana portato avanti da diversi organi di informazione. Il Mattino è sicuarmente tra questi, e occupa, in una ipotetica classifica, una posizione di tutto rispetto. Al servizio della propagandistica e disnformante linea editoriale del quotidiano napoletano in questi giorni c’è Vittorio Dell’Uva, inviato in Israele. Oltre ai pezzi di cronaca in cui racconta l’evolversi delle condizioni di Ariel Sharon Dell’Uva raccoglie quotidianamente, per mezzo di un’intervista, un’opinione di un personaggio pubblico, un intellettuale piuttosto che un politico. Siamo a tre interviste in tre giorni: 2 israeliani e un palestinese. Qualcuno potrebbe pensare che in questo modo, interpellando uomini dei due “schieramenti”, si sia resa un’informazione quantomeno equilibrata, perché entrambe le campane sono state ascoltate. Invece no, il giornalista ha utilizzato il solito trucchetto già stracollaudato. Da parte israeliana si scelgono volutamente quelle voci fortemente critiche con l’operato del primo ministro israeliano e più in generale sul comportamento di Israele sul quale - come è possibile leggere nell’intervista a Yitzhak Laor che Il Mattino ha pubblicato ieri – vengono fatte ricadere tutte le colpe e tutti i mali. (piccola digressione: tutto questo è reso possibile dal fatto che ci troviamo di fronte a un’autentica democrazia liberale in cui ognuno è libero di esporre il proprio pensiero, la propria idea, talvolta il proprio odio) Da parte palestinese, invece, non può che venire una voce omologata a quella di regime, di conseguenza siamo al cospetto delle solite invettive propagandistiche anti-israeliane intrise di vittismo. L’intervista non merita nemmeno commenti, perché il nome dell’intervistato già dice tutto, una garanzia: Nemer Hammad.
Ovviamente, nell’intervista di Dell’Uva non c’è una domanda “scomoda”. Visto il titolo (Incognita Olmert. Aspettiamo i fatti), ad esempio avrebbe potuto chiedere al propagandista che da decenni si sta aspettando che i palestinesi mettano fine al terrorismo stragista e che anche Abu Mazen, oltre alle chiacchiere, non ha mosso un dito contro i terroristi. Ma l’intervista è di quelle “in ginocchio da te”.
Bisogna dunque constatare che l’informazione che anche in questa fase delicata Il Mattino sta offrendo ai lettori è davvero scadente, di un livello decisamente basso. Quando Dell’Uva e Il Mattino riterranno opportuno far sentire anche le ragioni degli altri, della stragrande maggioranza degli israeliani non sarà mai troppo tardi. Ma forse l’obiettivo della redazione esteri e della direzione del quotidiano è un altro, non di certo informare e aiutare a capire. Tanto odio contro Israele non dovrà, poi, meravigliare.
Ecco il testo:
Ramallah. Non meno degli israeliani, i palestinesi si interrogano. È nel segno di Ehud Olmert, conservatore convertitosi al centrismo, che si delinea il dopo Sharon. Le aperture di credito vanno valutate con cura. Nimer Hammad, a lungo rappresentante dell’Anp in Italia, chiamato dall'inizio dell'anno al ruolo di consigliere politico del presidente Abu Mazen, trova che troppi, interrogativi restino ancora in sospeso. Per esprimere giudizi, lascia intendere, è un po’ prematuro.
Eppure Ehud Olmert ha appena detto che intende continuare il tragitto intrapreso di Sharon per far avanzare il processo di pace.
«Tutto il Likud, incluso Olmert, è stato considerato storicamente il partito estremista che ha rifiutato gli accordi di Oslo e negato per anni ai palestinesi il diritto all'autodeterminazione. Certo prendiamo atto del cambiamento di posizione di alcuni e sappiamo che l'uomo chiamato in questi giorni a sostituire Sharon ha approvato il ritiro da Gaza. Ma questo può non bastare. Abbiamo bisogno di conoscere la vera strategia di Olmert».
Potrebbe essere la stessa di Sharon.
«Che nessuno ha conosciuto nei suoi dettagli per quanto riguarda la nascita dello Stato palestinese. Ci sono state proposte per noi inaccettabili riguardanti l'annessione da parte di Israele di grandi insediamenti. Assieme al muro che separa anche la Cisgiordania dalla Giordania è rimasta l'opzione su Gerusalemme. Tutto è vago in relazione alle frontiere provvisorie. La scomparsa politica di Sharon è arrivata prima che il suo nuovo partito Kadima, potesse definire un programma». Elementi di chiarezza potrebbero venire dalla campagna elettorale israeliana. Kadima sembra, comunque, fortemente orientata a portare avanti il negoziato con l'Anp. «Ciascuno può dire di preferire la pace, ma bisogna vedere su quali basi. Non ci resta che attendere. Tutti sanno che i leader di Kadima anche se, come probabile, vinceranno le elezioni, dovranno scegliersi alleati per governare. Ci chiediamo se guarderanno verso ciò che resta del Likud o se preferiranno i laburisti».
Shimon Peres, che con altri fuoriusciti del Labour ha aderito a Kadima, non potrebbe essere in qualche misura garante della svolta moderata?
«Peres è un personaggio flessibile della politica israeliana che ha riconosciuto in Abu Mazen un partner, ma è anche entrato in un partito appena nato. Vedremo che cosa potrà fare. Così come aspettiamo un forte segnale dalla comunità internazionale. Dopo le nostre imminenti elezioni e quelle che si terranno in Israele, quanti hanno a cuore la risoluzione del conflitto dovranno convocare la Conferenza internazionale di pace che deve essere sede di concessioni, compromessi ed accordi».
Domenica scorsa Ehud Olmert ha autorizzato la campagna elettorale palestinese anche a Gerusalemme Est pur ponendo il veto per i candidati di Hamas. Come va valutato, nel suo insieme, questo segnale?
«La partecipazione di Gerusalemme Est alle elezione del 25 gennaio per noi è vitale. Vuol dire che è territorio palestinese. Bandire Hamas rappresenta un errore politico che danneggia Al Fatah e Abu Mazen. Chi è relegato nel ruolo di vittima di Israele non può che trarne vantaggio».
Stando ai sondaggi, anche a Gaza e nei Territori sarà necessario arrivare ad un governo di coalizione. Non è proprio con Hamas che va cercato l'accordo?
«È un movimento che dobbiamo portare nella politica. Fare opposizione e criticare è facile. Bisogna che Hamas avverta il senso di responsabilità istituzionale. Non può continuare a rifiutare l'esistenza di Israele».
Né si può gioire, come accaduto, per la infermità di Sharon?
«Va ricordata la storia di Ariel Sharon. È fatta di massacri che il popolo non può dimenticare. Ma vorrei sottolineare che la dirigenza palestinese non ha espresso soddisfazione. Grande è stata la differenza con le dichiarazioni di dirigenti israeliani in occasione della morte di Yasser Arafat».
Interviste selezionate e condotte con un evidente criterio ideologico, sebbene più raffinato, anche sul Sole 24Ore. Ugo Tramballi raccoglie le dichiarazioni di Tom Segev che sostiene, che la guerra del 1967 sarebbe stata il prodotto del traum dell'olocausto e non di una imminente aggressione egiziana. Uno storico della guerra dei sei giorni come Michael Oren avrebbe certamente dato una versione diversa degli avvenimenti. Va detto che Segev riscatta la stravaganza delle sue opinioni storiografiche con una buona risposta a una domanda faziosa di Tramballi. non è vero, deve precisare lo storico israeliano, che gli israeliani amino essere governati da militari: degli 11 premier di Israele solo tre erano generali: Rabin, Barak e Sharon, mentre la maggioranza dei militari entrati in politica ha fallito. Roberto Bongiorni intervista il palestinese moderato Sari Nusseibeh che lamenta l'"unilateralismo" di Sharon. il vero uomo di pace, afferma Nusseibeh, era Rabin. Ma Rabin trovò come interlocutore Arafat, un terrorista, non un professore di filosofia come Nusseibeh, e la strada del dialogo fallì. Da lì viene l'"unilataralismo" di Sharon, obbligato e realistico (morto Arafat, l'interlocutore palestinese continua di fatto a mancare, vista la debolezza di Abu Mazen).
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