Al Manifesto l'amara riflessione dell'editorialista di Al Sharq Al Awsat secondo la quale ci si interessa solo delle vittime arabe provocate da israele, mentre perpetrate da dittatori arabi non suscitano "alcuna indignazione" calza a pennello. Si capisce quindi che il fatto che simili considerazioni vengano espresse sulla stampa araba desti una certa inquietudine nella redazione di via Tomacelli. Tanto più se l'eresia si spinge fino a contestare la demonizzazione di Ariel Sharon, per altro semplicemente ricordando dati di fatto sistematicamente ignorati, ma noti (come la mancanza di sue responsabilità dirette nella strage di Sabra e Chatila). Ecco dunque che, per correre ai ripari, anziché confrontarsi con gli elementi, inoppugnabili, portatti da Al Sharq Al Awsat si preferisce utilizzare la tecnica del discredito e della delegittimazione. un quotidiano liberale stampato si con denari sauditi, ma a Londra, lontano dal potere repressivo della casa di Saud dunque, diviene così un "quotidiano saudita". E lo "sdoganamento" di Sharon, in realtà accompagnato da forti e coraggiose critiche ai regimi dittatoriali mediorientali che hanno sempre fatto di Israele il capro espiatorio della loro incapacità e dei loro crimini, un'operazione funzionale agli interessi dei governi arabi interessati a buone relazioni con Israele. Queste le tesi dell'articolo di Michele Giorgio pubblicato dal quotidiano comunista martedì 10 gennaio 2006. Ecco il testo:
Testate importanti dell'informazione araba continuano a sdoganare Ariel Sharon ridimensionando gli episodi più sanguinosi della sua carriera militare e politica. «Se l'odio per Sharon è basato sul numero degli arabi uccisi, occorre allora constatare che perderà il confronto con certi personaggi responsabili dell'uccisione di tanti arabi, come durante i fatti del Settembre Nero (nel 1970 nella Giordania di Re Hussein) e come la strage di migliaia (di islamisti) nella città di Hama (nel 1980 in Siria per mano di Hafez Assad)». Così esordisce un editoriale pubblicato ieri dall'autorevole quotidiano saudita Al Sharq Al Awsat, che avverte i propri lettori che «è importante ricordare che i massacri di Sabra e Chatila del 1982 erano responsabilità diretta delle milizie libanesi. Quanto a noi, sembra ci interessino solo le vittime arabe provocate da Israele, mentre quelle perpetrate da noi contro noi stessi non suscitano alcun indignazione». Al Sharq Al Awsat tralascia un dato: per i massacri a Sabra e Chatila Sharon pagò, costretto dalle indagini svolte proprio da una commissione d'inchiesta israeliana, con le dimissioni da ministro della difesa e con l'allontanamento temporaneo dalla cariche pubbliche. Solo le protezioni di cui ha goduto in tutti questi anni hanno impedito anche una sua condanna internazionale. Sorprendenti, ma solo fino ad un certo punto, le parole d'elogio che il quotidiano libanese An-Nahar, ha avuto per il premier israeliano che pure nel 1982 ha portato a termine una devastante invasione del Libano costata la vita a decine di migliaia di persone. «Sharon non ha avuto dalla sua parte la fortuna mentre era all'apice delle sue vittorie politiche. La sorte gli ha impedito di raccoglierne i frutti. Il totale crollo della sua condizione di salute segna la fine di un'epoca della vita politica israeliana, di cui lui era il simbolo», ha notato il giornale di Beirut.
Non è sorpreso di questi giudizi di una parte di essa l'analista Mouin Rabbani, dell'ufficio di Amman dell'International Crisis Group. «Queste posizioni (di certi quotidiani arabi ndr) riflettono l'atteggiamento benevolo che alcuni regimi hanno avuto nei confronti di Sharon - ci ha detto Rabbani - il rigore, la determinazione che il premier israeliano ha avuto nei confronti dei palestinesi, hanno fatto l'interesse o, almeno, soddisfatto alcuni leader regionali. Il ritiro israeliano da Gaza ha infine fornito la giustificazione per un avvicinamento a Israele che cercavano da tempo. La linea, ad esempio, della Giordania in questi cinque anni di Intifada non è mai stata troppo critica della politica di Sharon. Le relazioni tra Egitto e Israele non sono mai state tanto amichevoli come in questi ultimi 2-3 anni. Diversi paesi del Golfo persico nell'ultimo anno hanno manifestato, sia pure dietro le quinte, l'interesse a stabilire relazioni con il governo Sharon. La stampa non fa che riflettere queste tendenze».
Intanto mentre i riflessi sulla politica interna israeliana dell'uscita di scena di Sharon sono stati ampiamente discussi in questi giorni, poco si è parlato di ciò che aspetta il nuovo premier sullo scacchiere regionale. I giornali israeliani hanno riferito dopo il ricovero di Sharon, che Ehud Olmert, subito dopo aver assunto le funzioni di premier ad interim, è stato messo a conoscenza dai capi dei servizi di sicurezza di importanti «segreti» militari di Israele. Una prassi consueta ma che ha assunto un rilievo diverso rispetto a occasioni simili del passato a causa del confronto a distanza tra Israele e Iran. Tel Aviv non ha escluso esplicitamente l'ipotesi di un attacco aereo contro le centrali nucleari iraniane (come fece nel 1981 in Iraq) ma, almeno per il momento, si è allineata alle posizioni internazionali e, lo stesso Sharon, ha affermato che il «problema Iran» deve essere «risolto» dalla comunità mondiale e non da Israele. «Un successore di Sharon più impulsivo, meno popolare e, quindi, desideroso di conquistare il pieno consenso dell'opinione pubblica potrebbe invece scegliere una strada diversa», ha commentato Rabbani. Considerazioni che riguardano soprattutto il nuovo leader e «falco» del Likud Benyamin Netanyahu che all'interno di una futura coalizione di governo potrebbe spingere più di altri per un attacco contro Tehran.
Testate importanti dell'informazione araba continuano a sdoganare Ariel Sharon ridimensionando gli episodi più sanguinosi della sua carriera militare e politica. «Se l'odio per Sharon è basato sul numero degli arabi uccisi, occorre allora constatare che perderà il confronto con certi personaggi responsabili dell'uccisione di tanti arabi, come durante i fatti del Settembre Nero (nel 1970 nella Giordania di Re Hussein) e come la strage di migliaia (di islamisti) nella città di Hama (nel 1980 in Siria per mano di Hafez Assad)». Così esordisce un editoriale pubblicato ieri dall'autorevole quotidiano saudita Al Sharq Al Awsat, che avverte i propri lettori che «è importante ricordare che i massacri di Sabra e Chatila del 1982 erano responsabilità diretta delle milizie libanesi. Quanto a noi, sembra ci interessino solo le vittime arabe provocate da Israele, mentre quelle perpetrate da noi contro noi stessi non suscitano alcun indignazione». Al Sharq Al Awsat tralascia un dato: per i massacri a Sabra e Chatila Sharon pagò, costretto dalle indagini svolte proprio da una commissione d'inchiesta israeliana, con le dimissioni da ministro della difesa e con l'allontanamento temporaneo dalla cariche pubbliche. Solo le protezioni di cui ha goduto in tutti questi anni hanno impedito anche una sua condanna internazionale. Sorprendenti, ma solo fino ad un certo punto, le parole d'elogio che il quotidiano libanese An-Nahar, ha avuto per il premier israeliano che pure nel 1982 ha portato a termine una devastante invasione del Libano costata la vita a decine di migliaia di persone. «Sharon non ha avuto dalla sua parte la fortuna mentre era all'apice delle sue vittorie politiche. La sorte gli ha impedito di raccoglierne i frutti. Il totale crollo della sua condizione di salute segna la fine di un'epoca della vita politica israeliana, di cui lui era il simbolo», ha notato il giornale di Beirut.
Non è sorpreso di questi giudizi di una parte di essa l'analista Mouin Rabbani, dell'ufficio di Amman dell'International Crisis Group. «Queste posizioni (di certi quotidiani arabi ndr) riflettono l'atteggiamento benevolo che alcuni regimi hanno avuto nei confronti di Sharon - ci ha detto Rabbani - il rigore, la determinazione che il premier israeliano ha avuto nei confronti dei palestinesi, hanno fatto l'interesse o, almeno, soddisfatto alcuni leader regionali. Il ritiro israeliano da Gaza ha infine fornito la giustificazione per un avvicinamento a Israele che cercavano da tempo. La linea, ad esempio, della Giordania in questi cinque anni di Intifada non è mai stata troppo critica della politica di Sharon. Le relazioni tra Egitto e Israele non sono mai state tanto amichevoli come in questi ultimi 2-3 anni. Diversi paesi del Golfo persico nell'ultimo anno hanno manifestato, sia pure dietro le quinte, l'interesse a stabilire relazioni con il governo Sharon. La stampa non fa che riflettere queste tendenze».
Intanto mentre i riflessi sulla politica interna israeliana dell'uscita di scena di Sharon sono stati ampiamente discussi in questi giorni, poco si è parlato di ciò che aspetta il nuovo premier sullo scacchiere regionale. I giornali israeliani hanno riferito dopo il ricovero di Sharon, che Ehud Olmert, subito dopo aver assunto le funzioni di premier ad interim, è stato messo a conoscenza dai capi dei servizi di sicurezza di importanti «segreti» militari di Israele. Una prassi consueta ma che ha assunto un rilievo diverso rispetto a occasioni simili del passato a causa del confronto a distanza tra Israele e Iran. Tel Aviv non ha escluso esplicitamente l'ipotesi di un attacco aereo contro le centrali nucleari iraniane (come fece nel 1981 in Iraq) ma, almeno per il momento, si è allineata alle posizioni internazionali e, lo stesso Sharon, ha affermato che il «problema Iran» deve essere «risolto» dalla comunità mondiale e non da Israele. «Un successore di Sharon più impulsivo, meno popolare e, quindi, desideroso di conquistare il pieno consenso dell'opinione pubblica potrebbe invece scegliere una strada diversa», ha commentato Rabbani. Considerazioni che riguardano soprattutto il nuovo leader e «falco» del Likud Benyamin Netanyahu che all'interno di una futura coalizione di governo potrebbe spingere più di altri per un attacco contro Tehran.
Al quotidiano "minuto d'odio" contro Sharon è dedicato anche l'articolo di Ytzhak Laor, israleiano di estrema sinistra. Gli argomenti e le distorsioni di Laor ripetono un vecchio copione. Ci limitiamo a segnalare due passaggi particolarmente inquietanti. Quello in cui vengono definti gli "sharoniti", ovvero "coloro che prima di identificarsi con la sofferenza degli altri, si chiedono prima di tutto cosa sia buono per gli ebrei" e quello in cui si precisa che una simile, attitudine al più feroce egoismo nazionale appartiene all'intera "cultura israeliana" e "più in generale a quella ebraica". Un esemplificazione di cosa dovrebbe essere, secondo lui, la "sinistra israeliana" che , sostiene Laor, ad oggi non esiste: il fronte dell'odio di sè
La televisione israeliana è ora piena di gente che ci racconta il «suo passato in comune con Sharon». Tutti hanno combattuto con lui, nelle varie guerre. Solo i morti non possono raccontarci le sue glorie. Perché lui è diventato un generale, e loro sono morti. Comunque, il sistema militare israeliano è un meccanismo terribile. Sharon è la rappresentazione più emblematica del militare israeliano: ogni essere umano, quando si confronta con le sofferenze altrui dovrebbe provare compassione, a meno che il suo concetto di sofferenza umana non sia quello che ci ha lasciato in eredità Ariel Sharon. Tutti noi stiamo assistendo in questi giorni alle discussioni sulle condizioni del cervello di Sharon e ci ricordiamo che anche lui è un essere umano e che quindi anche lui soffre, che anche i suoi figli e i suoi amici soffrono e noi non dovremmo quindi parlare delle sofferenze che lui ha inflitto ad altri, giacché noi non siamo e non dovremmo diventare «sharoniti» (coloro che prima di identificarsi con la sofferenza degli altri, si chiedono prima di tutto cosa sia buono per gli ebrei).
Ma Sharon non è solo un essere umano. E' un politico. E, come tale, e parte della guerra che si sviluppa intorno a lui. E, nonostante i vari proclami sull'importanza della «memoria collettiva», sembra che da giorni i politici israeliani (insieme ai loro aiutanti, i media) si stanno comportando come se Sharon fosse Mosé sul monte Sinai e che presto tornerà con dieci nuovi comandamenti, o almeno con alcune liste in cui indicherà i membri di Kadima. Sharon saprebbe perfettamente che forma avrà il panorama politico israeliano, anche se nessuno di noi ne ha la più pallida idea. La cosa più importante è che il ministero delle finanze non finisca nelle mani dei laburisti. Anche Shimon Peres, il cocco della sinistra europea, è d'accordo. Storicamente, nessun leader ha incarnato una speranza più forte per le élite al potere - sia militari che civili - di quanto abbia fatto Sharon: salvare Israele dal suo malcontento sociale. Come? Sharon lo sa. Probabilmente. La Borsa si è ripresa in un giorno, a riprova che il sistema funziona.
Il partito di Sharon è stato costruito sull'immagine dell' «eternità di un momento». Oggi è quasi vietato parlare di politica. Si tende piuttosto a «eternizzare la situazione attuale». Olmert è il numero uno, Livni il numero due, e entrambi svolgono il ruolo dei due bimbi che si prendono cura del Vecchio Padre andato a vedere dio, che tornerà a dirci chi è incaricato di assumere il potere. Kadima è stata costruita secondo la visione di Sharon. Nella visione di Sharon, Sharon è l'unica soluzione. E, per quanto ridicola, tale visione è «incidentalmente» compatibile con quello di cui ha bisogno Bush nell'inferno iracheno: un sollevamento generalizzato del Medioriente. Questa è l'unica spiegazione per la «inversione a U» di Sharon. Bush ha bisogno di un salvagente per uscire da quel gigantesco mattatoio. Ma, malgrado ciò, la visione di Sharon - e la sua «svolta», il suo «coraggio di fare la pace» - è la visione prevalente oggi in Israele: non c'è futuro senza Sharon. Sharon è il futuro. In questa battaglia sul futuro, il passato è stato cancellato con l'aiuto di un presente fittizio. Questa è un'altra occasione per capire perché in Israele non esiste la sinistra.
Per esistere, la sinistra ha bisogno di una sua memoria, di un cervello che non sia ottenebrato dal sangue. La sinistra israeliana non ha mai avuto una memoria propria. Ha sempre usato la «memoria nazionale». E' per lo più una sinistra nazionalista. Per questo le discussioni sulla morte di Sharon non erano molto diverse da quelle fatte l'anno scorso in Israele, quando la memoria nazionale israeliana è stata progressivamente cancellata, con tutte le discussioni sulle «somiglianze tra Sharon e De Gaulle». Durante il «disimpegno» da Gaza, siano stati costretti a «perdonare» il passato (in nome di chi perdoniamo? In nome delle vittime? Quali vittime?). Nel nome del presente, che si presume sia totalmente diverso, ci è stato chiesto di dimenticare il passato. Non è nell'ultima settimana che la «guerra in Libano» è diventata una parolaccia. Non è nei giorni dell'emorragia cerebrale di Sharon che Sabra e Chatila sono diventati un piccolo ciglio in un vecchio giornale. Certo, a quanto si dice, Sharon ha costruito gli insediamenti e poi ne ha smantellati alcuni. Certo, si dice, farà lo stesso in Cisgiordania. Che cos'è questo «lo stesso»? Il muro? La distruzione delle abitazioni di decine di migliaia di altri palestinesi? La loro chiusura in un ghetto alla Gaza? Una disoccupazione all'80%?
Questo è il maggior pericolo del culto di Sharon, che diversi giornalisti e politici stanno creando. In questo contesto, la stessa discussione sull'«eredità di Sharon» diventa parte del gioco. In favore di tale «eredità», sono pronti a dimenticare la piccola ambiguità che la cultura israeliana (e, più in generale, la cultura ebraica) richiede agli «uomini di sangue». Rabin almeno aveva dato un po' di spazio a tale ambiguità, riconoscendo che stavamo camminando in una valle di morte, sangue e lacrime. Sharon non ha mai mostrato segni di rammarico. Adesso lo stanno erigendo a simbolo. Ma simbolo di cosa? Di un vincitore. L'unica eredità di Sharon è il successo. Ma quale successo? Quello nel fare la guerra, gli affari e nel vendere un'immagine. Il più ricco premier che Israele abbia mai avuto ci dà l'opportunità, con la sua morte, di cogliere il momento storico tanto atteso da tanti israeliani: assomigliare a un vincitore. Forza Israele!
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