In prima pagina Il Foglio di martedì 10 gennaio 2005 pubblica un'analisi sul futuro politico del partito Kadima, fondato da Sharon. Ecco il testo:
Gerusalemme. Ariel Sharon ha azzeccato la formula. E’ ancora in gravi condizioni, nonostante i medici lo stiano gradualmente portando fuori dal coma farmacologico, nonostante respiri da solo e sembra abbia mosso, sotto stimolo, mano e gamba destre. Eppure, il suo giovane partito, Kadima – che in molti davano per spacciato già dopo il primo ictus, il 18 dicembre scorso – rimane primo nei sondaggi condotti durante il corso del fine settimana: potrebbe ottenere, alle prossime elezioni del 28 marzo, da 35 a 40 seggi, un risultato comunque migliore rispetto ad Avoda, cioè i laburisti, e Likud.
Sharon si è reinventato di centro e ha fondato una nuova entità moderata, basata sull’implementazione della road map, sulla necessità della nascita di uno Stato palestinese e di nuove concessioni territoriali alla controparte, ma ancorata saldamente alla questione della sicurezza e alla creazione di confini che garantiscano stabilità a Israele. La sua spettacolare mossa politica, avvenuta a pochi mesi dallo storico ritiro dalla Striscia di Gaza – portato avanti dal primo ministro nonostante l’opposizione interna al suo stesso partito, le manifestazioni del movimento arancione antidisimpegno e della destra oltranzista – ha lasciato un segno. Il premier ha abbandonato il suo storico partito, il Likud, che ha aiutato a fondare negli anni Settanta, per creare Kadima, Avanti, posizionandolo al centro. Sul volo Milano-Tel Aviv, Shlomo, un israeliano di una sessantina d’anni, dice che “il primo ministro ha fatto scattare qualcosa nella testa di tutti”. Lo dice mimando il gesto di qualcuno che cambia canale su un vecchio televisore. Non si può più tornare indietro.
Sharon, oggi, è in un letto d’ospedale e sembra difficile che possa ricoprire nuovamente un ruolo guida nella vita politica del paese. Nonostante ciò, il suo programma, nei pochi e schematici punti contenuti dalla piattaforma di Kadima, è abbastanza chiaro e potente da mantenere il partito vivo anche in sua assenza. Ieri, fonti interne al movimento hanno fatto sapere che, con grandi probabilità, il numero due della formazione sarà il ministro della Giustizia, la giovane Tzipi Livni. La guida resterà per ora Ehud Olmert, attuale premier in carica ad interim. Entrambi facevano parte delLikud, sotto il primo ministro, e lo hanno seguito nella sua avventura. Il futuro d’Israele, con o senza Sharon, sembra andare dove il premier ha indicato prima della sua malattia: verso il centro, spingendo sempre più a destra e sempre più a sinistra le altre formazioni politiche. Secondo l’analista politicodello Shalem Center di Gerusalemme, Micheal Oren, oggi professore a Harvard, Sharon avrebbe però accelerato un processo in atto da qualche anno. Spiega che già nel 2000 l’idea di un partito di centro aveva ricevuto consensi in Israele: erano i giorni dei negoziati di Camp David e degli incontri tra il presidente palestinese Yasser Arafat, l’allora primo ministro israeliano Ehud Barak e l’allora leader degli Stati Uniti, Bill Clinton. In quell’occasione era nato un “nuovo paradigma storico”, come spiega al Foglio Oren: la maggioranza degli israeliani in quei giorni si era resa conto che l’unica soluzione sarebbe stata l’esistenza di due Stati. E questo è uno dei punti chiave della piattaforma del nuovo partito Kadima, in chiara opposizione alle teorie della destra oltranzista, che è rimasta ostinatamente contro ogni tipo di cessione territoriale e ancorata al sogno della Grande Israele. Il neo partito di centro torna all’eredità di Oslo. L’ex presidente americano Clinton ha detto che Israele “deve continuare il lavoro di Sharon” e che il processo di pace deve andare avanti. Tra il 2000 e oggi c’è stata però la seconda Intifada e lo scoppio di nuove violenze. Il processo di pace si è fermato, assieme alla comunicazione tra il governo di Sharon e l’Autorità nazionale palestinese. Il ritiro dalla Striscia voluto dal primo ministro Ariel Sharon ha creato nuove speranze da entrambe le parti. Nonostante il suo rifiuto di negoziare con la controparte, senza il termine del terrorismo, la mossa del disimpegno è stata un grande successo, un passo verso l’apertura di nuovi negoziati, verso la creazione di confini permanenti e, forse, come vuole la piattaforma di Kadima, anche verso ulteriori concessioni territoriali: tutti punti che fanno parte di un programma di centro. Molti politici del Likud e di Avoda hanno fin da subito criticato l’esperimento Kadima, definendolo “un partito dettato da Sharon e formato da politici opportunistici. Yuli Tamir, membro del partito laburista, è scettica riguardo al nuovo movimento di Sharon. Tamir dice che il movimento “non è democratico”, perché “è Sharon a dettare tutto”. E, i politici del Likud e di Avoda che hanno lasciato i rispettivi partiti per unirsi a Kadima “sono stati opportunisti. Non si sono mossi sulla base di un principio, ma per ottenere qualcosa a beneficio personale. E’ stato un bazaar. E’ stato come una piccola dittatura in uno Stato”. Non punterebbe su Kadima, anche perché pensa che Olmert non avrà lo stesso supporto di Sharon: “Non ha il suo stesso potere mitico o il suo passato storico. Non dobbiamo dimenticare quanto Sharon sia un’icona per gli israeliani. Ha lavorato con Ben Gurion e Yitzhak Rabin”.I recenti sondaggi positivi smentiscono gliattacchi: Kadima, formato sulla persona del premier, può vivere anche senza il premier. La malattia del leader è una prova per i membri del nuovo movimento: l’eredità di Sharon, mantenuta da personaggi come Livni e Olmert, la sua forza, impersonificata dal ministro della Difesa, Shaul Mofaz, e la sua volontà di muovere verso il negoziato, garantita dall’immagine del vecchio leader degli accordi di Oslo, Shimon Peres, potrebbero garantire il consolidarsi del suo progetto di centro. Peres, dagli schermi della Cnn, domenica,ha chiesto agli israeliani di votare per Kadima e ha assicurato il suo sostegno al primo ministro in carica, Ehud Olmert.
A pagina 3 troviamo un editoriale sul "coma politico" dell'Autorità Nazionale Palestinese. Ecco il testo:
A sole due settimane dalla data prevista per le elezioni palestinesi, che dovrebbero tenersi il 25 gennaio, la situazione nei territori è caotica. Il ministro dell’Interno dell’Autorità nazionale palestinese, Nasser Youssef, ha ammesso di non essere in grado di garantire la sicurezza delle operazioni di voto. E’ questa, ora che Israele ha deciso di consentire la campagna elettorale nei quartieri arabi di Gerusalemme, la motivazione che potrebbe portare al rinvio sine die dell’appuntamento elettorale. In effetti, a circa un anno dall’entrata in carica della nuova amministrazione guidata da Abu Mazen, la difficoltà a far rispettare un minimo di ordine appare crescente.
Dopo il ritiro israeliano, la situazione nella Striscia di Gaza va verso l’anarchia. Gruppi di militanti armati, spesso legati alle Brigate dei martiri di al Aqsa che fanno capo a Fatah, irrompono frequentemente negli uffici governativi per chiedere l’assunzione nelle forze di sicurezza o la liberazione di loro compagni. In alcune località le primarie di Fatah sono state sospese in seguito agli assalti dei membri di gruppi armati che volevano interferire nella composizione delle liste elettorali. Spesso i militanti della Striscia rapiscono stranieri a scopo dimostrativo. Nelle ultime tre settimane vi sono stati tre di questi rapimenti lampo e i responsabili sono stati poi liberati sotto la pressione armata dei loro commilitoni. Inoltre il continuo lancio di missili Qassam contro obiettivi israeliani, rivendicato anche dalla rete terroristica di al Qaida, ha accentuato la tensione con lo stato ebraico.
Di fronte alla possibilità che le elezioni, se si terranno, finiscano con una vittoria del movimento terroristico di Hamas, il presidente Abu Mazen ha lasciato filtrare l’intenzione di dimettersi. In questa guerra di tutti contro tutti l’Autorità palestinese sta mostrando di non essere in grado di garantire la sicurezza a se stessa e tanto meno a Israele. Questo, oggi, è l’ostacolo più grave che impedisce un’evoluzione del processo di pace.
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