La Stampa di martedì 10 gennaio 2005 pubblica una cronaca di Aldo Baquis sulle condizioni di salute di Ariel Sharon. Ecco il testo:
E’ tornato il sorriso ieri sui volti dei figli di Ariel Sharon quando il premier ha reagito in maniera soddisfacente ai primi tentativi della equipe medica di risvegliarlo dal coma farmacologico indotto in cui veniva mantenuto da mercoledi scorso, quando una severa emorragia cerebrale lo aveva portato quasi in punto di morte. Ieri, stimolato dai medici, Sharon ha avuto prime reazioni. «Non c’è da stupirsi - hanno osservato i figli - si vanta sempre di essere un Caucasico», la regione di origine dei suoi genitori. Appreso che elettrodi applicati alla sua testa registrano oscillazioni quando gli si parla, i figli del premier - che da giovane suonava il violino ed è un appassionato di musica classica - gli hanno fatto ascoltare in serata sereni brani di Wolfgang Amadeus Mozart.
Secondo i medici, il primo ministro resta in pericolo di vita. Ma i figli, che ben conoscono la testardaggine del padre, sono sicuri che riuscirà a sopravvivere alla tre prolungate operazioni chirurgiche al cervello a cui è stato sottoposto nei giorni scorsi e, infine, anche a tornare a casa. «Forse le statistiche dicono diversamente. Ma nostro padre ha sempre ostentato profondo disinteresse per le tabelle di dati…», hanno detto i figli Omri e Ghilad ad una giornalista israeliana.
La giornata era iniziata in un clima di forte tensione mentre i medici dell’ospedale Hadassah Ein Karem tentavano di ridurre gradualmente le dosi di anestetici e di sedativi somministrate al loro paziente allo scopo di iniziare a verificare i suoi riflessi. Si tratta di una procedura delicata: in caso di scompensi improvvisi - è stato spiegato - è possibile immediatamente riportare il paziente in coma profondo.
Invece Sharon ha reagito nella direzione sperata dai dottori. Dopo circa un’ora ha iniziato a respirare spontaneamente. Si tratta in realtà di «inizi di respiri», potenziati da una apposita macchina.
In seguito i medici hanno cercato di vedere la sua reazione agli stimoli del dolore. All’inizio la sua reazione è stata quasi impercettibile. «Sharon ha sollevato la mano destra», ha annunciato drammaticamente a metà giornata la televisone Canale 10: una notizia che ha infastidito i figli del premier. Sperano ancora in un po’ di privacy per loro padre, che fino ad una settimana fa era noto per la sua inesauribile energia: un primo ministro che a 78 anni riusciva a sfiancare di fatica anche i suoi collaboratori più giovani.
In serata la stampa ha potuto incontrare per la prima volta da vicino il professor Felix Umanski, un ebreo immigrato da Rosario (Argentina) trenta anni fa che dirige adesso il reparto di neurochirurgia dell’ospedale Hadassah Ein Karem di Gerusalemme. «Sono fiero di essere al suo fianco», ha detto il direttore dell' ospedale, Shlomo Mor Yosef: «Finora ha assistito Sharon 24 ore su 24, non aveva trovato il tempo di parlarvi».
Secondo la stampa Sharon è stato due volte in fin di vita: nella nottata di mercoledì e nella mattinata di venerdì. Umanski è l’uomo che lo ha strappato alla morte, con interventi chirurgici protrattisi per lunghe ore. Ieri il neurochirurgo ha sottratto otto minuti alle cure di Sharon per aggiornare i giornalisti sulle cure praticategli. Ha notato che i piccoli movimenti della mano e del piede destro sono divenuti più significativi via via che diminuiva la dose di sedativi somministrata. Ha rilevato che Sharon «reagisce al dolore», non sono semplici riflessi cioè, e che gli stimoli hanno provocato un aumento della pressione sanguigna, di per sè positivo.
Di fronte alle impazienze della stampa, il neurochirurgo ha ricordato che la natura ha tempi più lunghi, e che non è possibile adattarli alle esigenze dei telegiornali. L’apertura degli occhi sarebbe uno sviluppo importante nelle condizioni di Sharon: «Ma non è possibile prevedere se avverra fra ore, o fra giorni». E’ troppo presto inoltre, ha ammonito, per stabilire l’entità delle lesioni eventualmente patite dalle facoltà mentali del primo ministro in seguito alla emorragia e alle operazioni. Solo fra giorni sarà possibile sapere se potrà recuperare le capacità cognitive, e in quale misura.
Nel corso della giornata le condizioni di Sharon sono rimaste gravi, ma stabili. I piccoli progressi registrati dai medici nella sua stanza sono tuttavia serviti ad allentare la tensione nel suo entourage. Qualcuno si è anche permesso una piccola facezia. Ricordando il proverbiale ed inesauribile appetito del primo ministro, è stato detto scherzando che per risvegliarlo basterebbe fargli avere due porzioni di «shwarma»: pane arabo farcito di pezzettini di carne di montone o di tacchino, con salse mediorientali come il hummus e la thina.
Intanto, al settimo piano dell’ospedale Hadassah la solidarietà degli israeliani comincia ad essere ingombrante. Al premier ricoverato sono giunti da Israele e dal mondo sacchi di lettere. Nel corridoio si sono visti anche: un nuovo cappello da cowboy, un orsacchiotto di pelouche e vivande varie, fra cui pentole di cous-cous.
Affianca il pezzo di Baquis un trafiletto sul giudizio di Le Monde sulla trasparenza con cui Israele è stato informata della malattia del suo leader, comparata alle scarse informazioni date ai cittadini francesi sul recente ictus del loro presidente. Ecco il testo:
La gestione delle notizie sulla malattia di Sharon dovrebbe servire da lezione per i politici francesi. Lo sostiene l’editoriale di Le Monde. Alla trasparenza delle autorità israeliane sullo stato di salute del primo ministro corrisponde una reticenza di quelle d’Oltralpe. «Israele è un Paese in guerra, dove la censura militare è sempre in vigore per tutto quello che riguarda la sicurezza», scrive il giornale, «ma è anche una democrazia, dove la salute dei politici non è tabù». Le Monde cita l’esempio dell’ictus che ha colpito Jacques Chirac il 2 settembre 2005 e sul quale le autorità «si sono espresse con il contagocce», e i precedenti di Georges Pompidou e di Francois Mitterrand: il fatto che governassero malati di tumore è stato tenuto segreto fino alla loro morte.
Segnaliamo l'analisi di Fiamma Nirenstein sulle imminenti elezioni palestinesi. Ecco il testo:
Ormai la data è così vicina, e le risposte invece tanto lontane: la confusione regna sovrana nel futuro palestinese mentre si avvicina la data delle elezioni del 25 di questo mese, e Sharon giace nel letto dell'ospedale Hadassa di Gerusalemme. Si terranno le elezioni? La confusione vincerà? Hamas risucirà a farne lo strumento del suo nuovo potere? Le speranze di pace che la violenza di queste settimane fanno impalladire verranno spazzate via da una grande affermazione di Hamas, o Israele impedirà, almeno a Gerusalemme, che si possa votare per l'organizzazione terroristica?
Mentre Israele comincia a cedere sul voto dei palestinesi a Gerusalemme Est, dal giornale giordano Al Dastour in un'intervista Abu Mazen segnala il suo grande disagio: se Hamas dovesse vincere il 25 di gennaio, dice, io lo considererei un segno di sfiducia verso la mia persona, e mi dimetterei. D'altra parte, aggiunge il presidente, ho pensato più volte di lasciar perdere. Questa desolata ammissione fa da contraltare alle parole fiere pronunciate da Abu Mazen durante la conferenza stampa di ieri, nel tardo pomeriggio, e che tuttavia lasciano di nuovo aperta una via di fuga nel caso la situazione si faccia insopportabile: «Oggi - ha detto in sostanza Abu Mazen - gli americani hanno finalmente promesso che potremo tenere elezioni a Gerusalemme come le tenemmo nel ‘96. Io non accetterò nessuna limitazione al voto; e durante questa campagna elettorale, se Israele ci infastidirà, allora fermerò tutto». Come dire: io contrariamente a quanto si dice, voglio che si voti. Però, il voto potrebbe saltare. In effetti Israele, che al momento si è impegnata a lasciare fare la campagna elettorale, può controllare i candidati e impedire la partecipazione di Hamas. E allora, che farà Abu Mazen?
Minacciando le dimissioni o la bancarotta, Abu Mazen mette in ansia il mondo con la prospettiva del caos e di fatto della resa dell'Autonomia Palestinese alle forze di Hamas; e, d'altra parte, prospetta l'ipotesi che Israele intralci i lavori. Ma il suo vero nemico è Hamas, che al contrario del Fatah, immerso nel caos, prepara le elezioni con geometrica determinazione.
Israele ieri, come dicevamo, ha dato i primi segni di cedimento dopo che aveva dichiarato urbi et orbi che mai in Gerusalemme si sarebbero tenute elezioni con la prospettiva di Hamas candidato: un'organizzazione armata e terrorista che ha come scopo dichiarato la distruzione dello Stato d'Israele, ha detto anche Sharon, non può governare un popolo con cui si deve fare la pace. Piano piano la proibizione si è mitigata anche perché gli Stati Uniti premono affinché le elezioni si compiano a tutti i costi, e anche in memoria delle elezioni del ‘96.
Ieri il ministro della Difesa Shaul Mofaz ha detto che secondo quelle regole, voto per posta dai seggi di Geraselemme Est o dai dintorni, si potrà votare: ma non ha parlato delle intenzioni di Israele verso le liste di Hamas. Netanyahu ieri ha disegnato un panorama pessimista, con Hamas che da Gerusalemme Est sparerà con le katiushe a spalla sul centro della Gerusalemme ebraica. Il ministro della Pubblica Sicurezza Gideon Ezra intanto ha specificato che Israele consentirà la campagna per le elezioni legislative purché non ad «appartenenti di gruppi militanti», ovvero ad Hamas. Le liste devono sottomettere una richiesta alla polizia, e i gruppi violenti saranno rifiutati.
Abu Mazen è nella strana posizione per cui il nemico di Israele è al momento il suo nemico: Fatah arriva spaccato e indebolito da mesi di scontri interni con morti, feriti, rapimenti e ricatti, e anche con la spaccatura interna fra i cinquantenni di Marwan Barghuty, che attaccano la corruzione e non rinunciano alla violenza e il gruppo dei «tunisini» giunti con Arafat e accusati di corruzione. Hamas ha invece costruito una credibilità sulla onestà personale dei mullah e dei capi armati. E non passa giorno che un leader di Hamas non rivendichi il diritto alla violenza. Ma nonostante i suoi 70mila uomini armati, e nonostante la Road Map lo obblighi a questo, Abu Mazen non ha deciso di disarmare i gruppi che ormai minacciano soprattutto il futuro palestinese. Le elezioni, è chiaro, egli non le desidera affatto in queste condizioni; e sembra che non sarà Israele a togliergli le castagne dal fuoco.
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