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Il Mattino Rassegna Stampa
09.01.2006 Le interviste "selezionate" di Dell'Uva, i propagandisti arabi di Innaro
come disinformare senza assumeresene la responsabilità

Testata: Il Mattino
Data: 09 gennaio 2006
Pagina: 5
Autore: Vittorio Dell'Uva - Marc Innaro
Titolo: «“A Gaza si muore ancora, questa non è pace” - Gli arabi e Ariel il nemico da rimpiangere»

Continua la campagna de Il Mattino fortemente denigratoria di Sharon e in generale d’Israele. E’ un Dell’Uva chirurgico quello che in questi giorni, da inviato in Israele, seleziona con estrema cura gli intellettuali israeliani da intervistare (devono tutti assecondare la sua visione delle cose viziata da un pregiudizio antiisraeliano) e le opinioni della gente comune in Israele. “Equilibrio” a Il Mattino non sanno nemmeno lontamente cosa significhi. Bastava intervistare la Morgantini o qualunque no-global della strada per avere risposte simili. Non c’era nessun bisogno di andare in Israele e scomodare uno scrittore “pacifista”. Da notare come anche in Israele ci sono persone, come l’intervistato, accecate dall' ideologia. Yitzhak Laor non è affatto preoccupato dei terroristi che continuano a farsi esplodere tra civili innocenti o i razzi Qassam che continuano a cadere, ma è ossessionato unicamente dalle azioni dei suoi governanti. Ecco il testo:

 

Gerusalemme. Non sono pochi gli intellettuali israeliani porogressisti che, pur criticando le scelte politiche di Ariel Sharon, riconoscono oggi che da «uomo di azione» ha garantito stabilità ad Israele. Ma al club dei «revisionisti» non si iscrive il poeta e scrittore Yitzhak Laor, renitente di leva nel '74, autore di brani contro la guerra in Libano, firmatario di un appello per la pace in Palestina che non raccolse per la verità troppe firme tra i suoi colleghi. Nonché «punito» con qualche ostracismo per le sue visioni pacifiste. Nel 1990 l'allora premier Yitzhak Shamir si rifiuto di assegnarli il «Premio del primo ministro per la poesia». Yitzhak Laor ritiene che la grande emozione collettiva che ha colpito Israele per la condizione fisica di Sharon sia sincera e che davvero molti si sentano nella stessa condizione dei figli di fronte al letto di morte dei genitori. Ma per quanto gli riguarda, preferisce rimanere, accuratamente, fuori dal coro.

Eppure, Laor, non crede che dopo il ritiro da Gaza il giudizio su Sharon possa essere modificato? «Ma di quale ritiro parliamo? La guerra si fa anche con altri mezzi. Basta prestare attenzione alle notizie che arrivano da quell'area».

Alle quali, Laor, letto ciò che dichiara non sembra particolarmente attento. Si accorgerebbe che faide intestine, con morti, si combattono tra palestinesi; si accorgerebbe che missili Qassam, a decine, continuano a cadere sui centri abitati dei suoi connazionali dei quali, il “pacifista”, non sembra affatto preoccuparsi

Sembra dubitare della buona volontà di Sharon sul processo di pace. Pensa che il ritiro da Gaza e la nascita del partito Kadima nascondessero anche i tentativi di Israele di consolidare la propria presenza su alcune zone dei Territori occupati?

«Non conosco i segreti di Sharon e nemmeno quelli di Bush. Ma ci sono cose che vedo e che ogni palestinese conosce: il muro, le provocazioni israeliane, la guerra quotidiana di cui nessuno conta le vittime. A Hebron o a Nablus, Israele fa quello che vuole».

Ci sono anche e soprattutto le stragi terroristiche palestinesi sempre a danno di suoi connazionali. Ma come già visto a Laor non importa tantissimo, né Dell’Uva si sforza per farglielo notare (il point of view è lo stesso, del resto). Un vero “pacifista”, non c’è che dire

Resta la decisione di smantellare alcune colonie e di affidare la sovranità di Gaza all'Anp. Considera queste scelte mosse tattiche suggerite dagli Usa?

 Dell’Uva, viste queste due ultime domande, deve essere un cultore dei complotti e delle dietrologie

«Gli americani con l'aiuto di Blair e di Berlusconi son finiti nel bagno di sangue e di lacrime in Iraq. Nessuno sa ancora che cosa potrà accadere. Hanno quindi bisogno di una svolta in Medio Oriente. Ma resta il caos. Bisogna essere davvero razzisti per non riconoscere il dolore delle madri arabe». Anche le opzioni di Israele su Gerusalemme est possono rivelarsi un ostacolo per il processo di pace? «Questo bisognerebbe domandarlo ai palestinesi». Indubbia è la svolta centrista con la nascita di Kadima. Ma si può ipotizzare che questa forza politica, privata di Sharon, sia destinata ad una parabola di breve durata? «Chi lo può dire? Kadima senza Sharon sarebbe come Forza Italia senza Berlusconi. Almeno all'inizio».

 Il Mattino di domenica 8 gennaio 2005 pubblica un articolo di Marc Innaro, "Gli arabi e Ariel il nemico da rimpiangere" Più che analisi di esperti arabi quelle riportate da Innaro nel suo pezzo sono opinioni intrise di propaganda che si reggono sul nulla. Innaro per completae il quadretto ci mette anche del suo. Occhiello  (Non solo Egitto e Giordania: anche la Siria ora teme una brusca frenata nel dialogo con l’Autorità palestinese) e sottotitolo (L’incubo dei vicini: il ritorno di Netanyahu  ) non sono da meno. Il primo contiene un’autentica barzelletta: la Siria (che finanzia e aiuta i terroristi palestinesi) sarebbe preoccupata per il rischio che il dialogo tra governo israeliano e ANP possa incepparsi. Il secondo serve a ribadire il concetto che tutto dipende dagli israeliani, dal loro comportamento, quindi ora l’“incubo” si chiama Netanyahu (per Innaro “catastrofica” la sua breve esperienza da primo ministro). Del resto Il Mattino continua a riportare i timori e i diritti arabi  e palestinesi, dimenticando, ed è una costante, i doveri oltre ai timori e i diritti degli israeliani. Ecco il testo:

 

Paradossi del Medio Oriente. Nella striscia di Gaza, frotte di bambini palestinesi distribuiscono dolci ai passanti per festeggiare la scomparsa dell'odiato nemico di sempre, di colui che ancora oggi tutti definiscono «il boia di Sabra e Chatila». Ad Amman, invece, il quotidiano giordano Al-Dostur pubblica un editoriale eloquente: «Se Sharon fosse stato un leader arabo e avesse fatto per noi quanto ha fatto per Israele, sarebbe stato l'idolo delle masse dall'Atlantico al Golfo». Gli sviluppi, incertissimi, della situazione preoccupano ovviamente gli israeliani, che con Sharon perdono una figura controversa, ma comunque decisiva per il proprio Paese, un leader che, negli ultimi cinque terribili anni da premier, aveva saputo garantire sicurezza e infondere fiducia ai propri cittadini, a spese dei vicini palestinesi. Ma, ecco un altro paradosso, ancora più preoccupati degli israeliani oggi appaiono i Paesi arabi della regione. La prova? L'enorme attenzione, 24 ore su 24, che continuano ad offrire tutte le emittenti arabe, a partire da Al Jazira e Al Arabiya. Un fatto senza precedenti, questo, nemmeno lontanamente paragonabile alla copertura mediatica della lenta agonia, nell'autunno del 2004, di un altro grande vecchio, il leader palestinese Yasser Arafat, nemico storico di Ariel Sharon. Nei palazzi del potere, al Cairo, a Beirut, ad Amman, persino a Damasco, la scomparsa di Sharon significa, prima di tutto, una nuova, pesante incertezza sul processo di pace che, fra mille difficoltà e contraddizioni, sembrava comunque avanzare verso la nascita di uno Stato palestinese. «Non ci sono dubbi che, nel vuoto politico lasciato da Sharon, Benyamin Netanyahu andrà al governo», dice sconsolato al Cairo Abdel Moneim Said, vice-direttore del Centro Studi Strategici Al-Ahram. «In Israele, oggi, non c'è nessun altro vero leader, di centro, destra o sinistra». «Si andà di male in peggio», aggiunge Diaa Rashwan, uno dei massimi esperti egiziani di affari islamici. «Alle elezioni politiche israeliane del 28 marzo, a vincere saranno il Likud e gli ultraortodossi. E il risultato sarà uno solo: la recrudescenza della violenza. Hamas e Jihad moltiplicheranno gli attentati terroristici e la resistenza armata. Israele continuerà con gli omicidi mirati, la creazione di nuove colonie e la costruzione del muro in Cisgiordania». Per una volta, tutti d'accordo: se «Bibi» Netanyahu tornasse al potere dopo la catastrofica esperienza del biennio '96-'98, senza una valida forza politica di centro (Sharon aveva fondato il suo partito «Kadima» solo due mesi fa), la prospettiva di pace fra israeliani e palestinesi si allontanerebbe di nuovo. «Quel che è peggio - conclude Rashwan - è che gli Stati Uniti, più che mai impantanati sul fronte iracheno, e ora con Siria e Iran nel mirino, non si preoccuperanno del conflitto israelo-palestinese, che peraltro l'Europa ha colpevolmente lasciato per intero nelle mani della casa Bianca, ignorando perfino i propri interessi nella regione». La scomparsa di Sharon, la conseguente instabilità politica di Israele e il rischio di una vittoria elettorale del Likud di Netanyahu gettano nell'angoscia molti leader dei Paesi arabi, a cominciare dall'egiziano Mubarak e dal re giordano Abdallah. Li terrorizza l'ascesa, apparentemente inarrestabile dell'Islam politico globale, un insieme di governi, personaggi e movimenti che in nome della fede vogliono unificare il mondo islamico sotto un'unica bandiera. L'incubo di un nuovo califfato toglie il sonno a re, presidenti, emiri, dalle coste africane dell'Atlantico alle steppe delle ex-repubbliche sovietiche dell'Asia Centrale. Un califfato che, se nella sua versione qaedista, brutale e sanguinaria, già da anni lascia dietro di sè un fiume di terrore, di sangue e di kamikaze, nella sua edizione iraniana provoca un brivido lungo la schiena. Le elezioni presidenziali che in Iran, la scorsa primavera, hanno consacrato la vittoria di Mahmoud Ahmadinejad, il pasdaran ex-sindaco di Teheran, ormai non possono più essere considerate un avvenimento interno alla Repubblica Islamica. Dopo aver auspicato la distruzione di Israele o, in subordine, il suo trasferimento in qualche remota regione del pianeta, dopo aver definito una leggenda il massacro degli ebrei nell'Europa occupata dai nazisti, solo tre giorni fa, a Qom, la città santa degli sciiti iraniani, Ahmadinejad ha solennemente annunciato che la missione del suo governo va ormai oltre i confini dell'Iran. Un messaggio minaccioso e chiarissimo per i governi di Giordania, Egitto, Iraq, Siria, Libano. I pasdaran, le milizie islamiche che in Iran controllano saldamente numerose istituzioni e che vantano anche una forte presenza nell'economia, sono ormai ai vertici del potere esecutivo. «La nostra politica estera non sarà difensiva, ma offensiva», ha dichiarato di recente Ahmadinejad, ammonendo che l'Islam è una religione universale e che oggi la responsabilità di imporla al resto del mondo tocca all'Iran. Il suo potenziale militare, convenzionale e nucleare, assieme alla bellicosa demagogia dei suoi leader politico-religiosi, fanno dell'Iran una minaccia per la stabilità dei Paesi della regione. Con il suo cocktail di Islam teocratico, di nucleare, di petrolio e di masse sterminate, terrorizza i regimi mediorientali, dagli Stati autoritari e dispotici fino ai governi impegnati ad avviare timide riforme democratiche. Oggi, Israele è l'unica realtà regionale che ancora incute paura all'Iran. Un Israele stabile, avviato sulla strada della pace con i palestinesi e del dialogo con i propri vicini arabi, costituisce un formidabile deterrente per i piani di espansione dei pasdaran. L'instabilità che potrebbe invece derivare dall'uscita di scena di Ariel Sharon e il possibile naufragio di «Kadima», la sua creatura politica, alle prossime elezioni israeliane, sarebbero per Ahmadinejad e i pasdaran iraniani una vera manna dal cielo. Non è un caso che, subito dopo il ricovero di Sharon in ospedale, gli Hezbollah filo-iraniani libanesi siano tornati a scavare trincee lungo il confine con Israele. Non è nemmeno un caso che, proprio in questi giorni, i leader palestinesi di Hamas e Jihad siano a Teheran, dove è stato loro richiesto di abbandonare l'esilio a Damasco e a Beirut, per far rientro nella striscia di Gaza. Lì dove proprio i fondamentalisti di Hamas si preparano, fra pochi giorni, ad incassare un clamoroso risultato alle elezioni politiche palestinesi.

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