La Repubblica di lunedì 9 gennaio 2005 pubblica a pagina 11 un'intervista di Alberto Stabile a Shimon Peres, che spiega le ragioni della sua permanenza all'interno di Kadima e riconosce la leadership di Ehud Olmert. Ecco il testo:
GERUSALEMME - C´è chi lo vede già pronto a fare le valigie e a tornare nel Labour e chi, invece, gli attribuisce l´ambizione di guidare Kadima, il cosiddetto partito dei transfughi destinato, secondo i sondaggi, a trionfare alle prossime elezioni. A leggere i giornali israeliani, Shimon Peres, avrebbe deciso di approfittare della malattia di Sharon per rilanciare i suoi progetti personali. E´ per spezzare questa spirale di illazioni, che il Nobel per la Pace, ha annunciato ieri d´appogiare «senza indugio e con piena lealtà», il primo ministro facente funzioni Ehud Olmert, aggiungendo che non ha nessuna intenzione di «tornare alla vita di partito» o di tentare la scalata al vertice di Kadima. Un´investitura in piena regola.
Pressato dalle critiche dei media israeliani, che ritiene infondate, Shimon Peres ha deciso di dare il massimo risalto alle sue posizioni, presentandosi al Convegno internazionale dei parlamentari ebrei dove, assieme ad altri giornalisti, abbiamo potuto rivolgerli alcune domande.
Qualcuno ha sollevato dei dubbi sulla sua volontà di appoggiare Ehud Olmert.
«Ehud Olmert è stato nominato primo ministro facente funzioni da Ariel Sharon, nel caso fosse stato necessaria una sostituzione rapida. Questa eventualità, purtroppo s´è presentata adesso. La scelta di Sharon è stata giusta dal punto di vista legale e intelligente dal punto di vista politico. Ed è stata fatta con il mio completo accordo. Adesso, come allora, Olmert, che è anche un mio amico personale, godrà del mio pieno e leale appoggio, così come di molti israeliani».
Lei si riferisce alla scelta fatta da Sharon nel pieno delle sue funzioni. La malattia del premier, però, e la prospettiva che non possa tornar alla guida del governo, sono fattori di instabilità del tutto inediti.
«Il nostro dovere è di pregare per la salute del Primo ministro. Il mio auspicio personale è che Arik ritorni a svolgere in pieno le sue funzioni di capo del governo. In sua assenza, Ehud Olmert è il premier facente funzioni, ed ha la mia piena approvazione. Davanti alla responsabilità che pesa su tutti noi non c´è spazio per alcun dubbio, né per alcuna manovra. Aspettiamo ancora qualche giorno è sapremo ciò che è stabile e ciò che non lo è. Da parte mia, io non ho cambiato la mia posizione».
C´è chi dice però che lei potrebbe tornare nel partito laburista.
«Non ho alcuna intenzione di farlo. Solo la stampa mi sembra ansiosa di vedermi tornare alla vita di partito... Questo è un momento in cui bisogna cercare l´unità e non agire in base alle politiche di partito».
Il paese è unito?
«Il paese è e rimarrà unito. E´ unito innanzitutto nella preghiera per la guarigione del primo ministro, e credo che sia unito anche nella necessità di continuare sulla via tracciata da Sharon. Il fatto che il nostro sia un sistema basato su molti partiti non mette in discussione l´unità politica del paese. Né quest´unità può essere messa in discussione da un cambiamento di leadership, per quanto traumatico possa sembrare. Sia pure con molta pena dobbiamo andare avanti».
In che modo pensa si debba continuare sulla strada tracciata da Sharon?
«Sharon ha dimostrato un coraggio eroico nel cambiare l´ordine del giorno nel Medio Oriente e in Israele. Noi dobbiamo continuare sulla via tracciata da Sharon tenendo in massimo conto la sicurezza e la pace. Oggi, l´estrema destra e l´estrema sinistra hanno ridotto la loro influenza. Oggi c´è la più ampia maggioranza possibile per la pace. Bisogna rafforzare questo campo della pace ed essere pronti a pagarne i prezzi. Il ritiro da Gaza è stata la dimostrazione che si può fare ed è stato fatto nel migliore dei modi, senza perdite e senza spargimento di sangue. La visione dell´estrema destra, sulla necessità di colonizzare la Terra d´Israele e praticamente e ideologicamente morta. Con il ritiro da Gaza una grande svolta è stata compiuta e il paese è rimasto unito. Credo che si debba continuare su quella strada».
E lo strumento di questa politica sarà Kadima?
«Kadima è un partito nuovo, composto da persone che non si riconoscevano più nei vecchi schemi politici e nei vecchi meccanismi di partito. Oggi è il momento dell´unità. I vecchi schemi non servono più».
Un partito che non le dispiacerebbe guidare
«Non sono interessato a farlo. Come glielo devo ripetere?».
Sarà allora Olmert a guidare il partito?
«La riposta è sì».
Tornando alla questione della pace, come vede la situazione dei palestinesi?
«Voglio citare Ben Gurion. Il quale diceva che è difficile risolvere una piccola crisi, una crisi media si può rinviare, ma se la crisi è grande non ci sono dubbi, va risolta immediatamente. I palestinesi, mi riferisco alla leadership di Abu Mazen, non possono lasciare che la crisi li divori. Questo non è nell´interesse dei palestinesi ma innazitutto nel nostro interesse. Hamas e Jihad sono partiti religiosi basati su una visione fanatica della fede. Gli strumenti della loro propaganda sono le armi, le bombe, gli attentati e il terrore. Non possono governare finchè restano sotto le loro attuali bandiere. I palestinesi devono scegliere: non possono pretendere di negoziare e sparare al tempo stesso».
Interessante, nonostante qualche cedimento alla necessità "politicamente corretta" di attribuire responsabilità a Israele, dimenticando per esempio, nella descrizione dei controlli sulle merci palestinesi al valico di Rafah, il terrorismo che li ha provocati, l'editoriale di Fared Zakaria, ripreso da Newsweek pubblicato in prima pagina e a pagina 17. Sottolinea correttamente che il futuro del processo di pace è compromesso essenzialmente dall'incapacità palestinese di costruire uno Stato. Ecco il testo:
«I cimiteri sono pieni di uomini indispensabili», fece notare una volta Charles de Gaulle. Ariel Sharon parrebbe essere l´eccezione, l´uomo diventato effettivamente insostituibile nei suoi ultimi anni. Tutti paiono concordare sul fatto che la sua dipartita dalla scena politica cambierebbe ogni cosa, aprendo un vuoto politico, pregiudicando le prospettive di un miglioramento tra palestinesi e israeliani. Forse, però, de Gaulle ha ragione, anche in Medio Oriente.
Sharon è approdato a far suo il punto di vista al quale il suo nome è ormai intrinsecamente associato – il disimpegno unilaterale nei confronti dei palestinesi – in modo estremamente riluttante. Il ritiro da Gaza era sempre stato un´idea della sinistra. Infatti, il leader del partito Labour, Amram Mitzna, ne aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna per le elezioni del 2002. Sharon aveva respinto una simile convinzione, credendo fermamente nel "Grande Israele", per conquistare e costruire il quale aveva rischiato la propria vita.
A fargli cambiare idea è stata la realtà demografica, per la precisione la prospettiva che mentre i palestinesi avrebbero continuato a moltiplicarsi, gli ebrei sarebbero diventati una minoranza nel loro stesso Paese. Si aggiunga a ciò una precisa realtà politica: agli israeliani è passata per sempre la voglia di sognare il Grande Israele, perché hanno capito che di esso avrebbero fatto parte anche i palestinesi. Gli israeliani li vogliono fuori. Sharon, da scaltro politico, ha captato queste nuove tendenze e le ha fatte sue.
Questi dati di fatto permangono, con o senza Sharon. È sicuramente questa la ragione per la quale il suo nuovo partito, Kadima, nei sondaggi va bene come qualche settimana fa, anche se gli israeliani sanno ormai che Sharon potrebbe non esserne il leader. Kadima riempie un vuoto politico. La posizione del Likud è quella di limitarsi ad un monotono rifiuto a rinunciare alla terra, qualcosa che l´opinione pubblica israeliana ritiene irrealizzabile. Il Labour, d´altra parte, si oppone all´unilateralismo, argomentando a favore di un accordo negoziato onnicomprensivo con i palestinesi. Gli israeliani pensano che l´idea sia ingenua. «I palestinesi non riescono a mantenere gli impegni. Noi, però, non possiamo rimanere», commenta il politico israeliano Alon Pinkus. «Queste sono le due pressioni che determineranno l´approccio del governo israeliano, quale esso sia». Il che significa una qualche forma di disimpegno unilaterale.
Di sicuro, il ruolo di Sharon è stato di primaria importanza. Egli è stato l´unico leader in grado di infrangere il tabù della restituzione della terra ed evacuare gli insediamenti. Gli israeliani hanno affidato a lui il compito di portare a conclusione una così difficile politica. Egli ha goduto di credibilità a destra, presso le forze di sicurezza e in alcuni segmenti chiave dell´elettorato. Il suo probabile successore, Ehud Olmert, di fatto aveva auspicato il ritiro da Gaza ben prima di Sharon, ma nel mettere in atto qualsiasi nuova iniziativa avrebbe incontrato ancor più grandi ostacoli. Per la destra israeliana la Cisgiordania è di gran lunga più importante di quanto fosse Gaza e inoltre, cosa forse più importante ancora, Olmert non è Sharon.
Pur tenendo conto di questo essenziale monito, non credo che l´assenza di Sharon si rivelerà un ostacolo cruciale e determinante. Questo perché il maggiore ostacolo nei confronti di un reale progresso in Medio Oriente non è più da cercarsi nelle intenzioni di Israele, bensì nelle capacità dei palestinesi. La vera notizia, che nessuno ancora adesso è disposto ad ammettere, è che l´Autorità Palestinese ha fallito, che Gaza è diventata uno Stato mancato e che non esiste neppure una organizzazione politica palestinese in grado di portare ordine nei Territori e di negoziare con Israele. La disfunzione palestinese è ormai la causa primaria che inibisce qualsiasi passo avanti nel processo di pace.
Erano molte le speranze che Gaza potesse diventare un modello di quello che i palestinesi avrebbero fatto, una volta liberi dall´occupazione. La settimana scorsa The Christian Science Monitor ha descritto così il nuovo panorama che Gaza offre: «Mentre il primo anno dal 1967 senza la presenza degli israeliani volge al termine, le milizie armate scorrazzano impunemente per le strade, gli stranieri sono rapiti con regolarità, e quanto valga un uomo in questo territorio lungo la costa non lo si determina dal suo titolo politico o dalle dimensioni della sua casa, bensì dal numero di guardie del corpo armate di Ak-47 che ha alle proprie dipendenze».
Alcuni di questi problemi non sono imputabili in tutto e per tutto ai palestinesi. Israele li ha dominati con durezza, sconvolgendone la vita politica ed economica. Alcuni di questi sconvolgimenti si protraggono anche a Gaza: ai checkpoint occorre scaricare e ricaricare tutte le merci trasportate, la gente è controllata e ricontrollata e tutto ciò ha un prezzo enorme per le normali attività. Sia stato quel che è stato, quali che siano le difficoltà, resta il fatto che a Gaza manca un´autorità centrale, un governo che funzioni, e di conseguenza essa "vive in una condizione di anarchia", per dirla con le parole usate dal The Christian Science Monitor. Non è questo il modello in cui riponeva le proprie speranze il popolo palestinese.
Se gli Stati Uniti e la comunità internazionale desiderano veramente far avanzare il processo di pace, occorre con la massima urgenza creare una capacità di governo palestinese. Senza di questa, le intenzioni di Israele non hanno alcuna importanza. Se i palestinesi riusciranno ad agire concretamente a loro stesso beneficio, i riflettori si sposteranno inevitabilmente sugli israeliani, e a quel punto gli Stati Uniti dovrebbero sollecitare Israele a proseguire nella direzione indicata da Ariel Sharon, staccandosi dalla popolazione palestinese con un processo che inevitabilmente sfocerà nella creazione di uno Stato palestinese su oltre il 90 per cento dei territori conquistati con la guerra del 1967. La sensazione che è proprio questo ciò che Sharon alla fine avrebbe fatto è di cruciale importanza per arrivare a questa soluzione. Da questo punto di vista, Sharon potrebbe ancora dimostrare di essere davvero indispensabile.
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