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La Repubblica Rassegna Stampa
08.01.2006 Una intervista interessante a Ehud Barak
di Enrico Franceschini

Testata: La Repubblica
Data: 08 gennaio 2006
Pagina: 26
Autore: Enrico Franceschini
Titolo: «Barak: spero sempre nel sogno della pace»

Enrico Franceschini è stato corrispondente da Gerusalemme per REPUBBLICA prima di Alberto Stabile. I nostri lettori ricorderanno le sue corrispondenze sempre equilibrate, un lavoro non facile considerando la linea del quotidiano dell'Ing.de Benedetti. Oggi è corrispondente dello stesso giornale da Londra, da dove ha intervistato Ehud Barak a Tel Aviv. Un articolo interessante, nè pro nè contro,ma di informazione, esattamente come dovrebbe impore la professione del giornalista. Già, dovrebbe.

Ecco l'articolo:

Al telefono da Tel Aviv, la voce arriva inconfondibile ma appesantita, velata di tristezza: «Provo un grande dolore», dice l´uomo che cinque anni fa era a un passo dalla pace con i palestinesi. «Tutti noi israeliani, in questi giorni, ci sentiamo come se avessimo un padre che lotta per non spegnersi, in un letto d´ospedale. Comprendiamo che la carriera politica di Ariel Sharon è finita, ma preghiamo che possa sopravvivere». Ehud Barak è stato il soldato più decorato al valore nella storia di Israele, il commando che sbarcò travestito da donna su una spiaggia del Libano per assassinare una cellula di terroristi, poi il capo dei servizi segreti, il capo di Stato Maggiore, il ministro degli Esteri, e infine, dal 1999 al 2001, il primo ministro, il leader laburista che voleva riprendere e portare a compimento l´opera del suo maestro, Yithzak Rabin. Al summit di Camp David nell´estate del 2000, con Clinton e Arafat, non ci riuscì per un soffio, invece della pace scoppiò l´Intifada palestinese, Barak perse le successive elezioni e la premiership passò a Sharon. Ma ora, morto assassinato Rabin, con Sharon in coma profondo per un nuovo ictus, è lui l´ultimo leggendario generale dello Stato ebraico, l´ultimo eroe guerriero che potrebbe tornare alla politica per vincere la battaglia della pace.
È stato davvero un padre, per Israele, Ariel Sharon? E come ricordarlo: il generale irrefrenabile, il fondatore del movimento dei coloni oppure, nella sua ultima incarnazione, il primo ministro che si ritira da Gaza e parla di pace?
«Come lei sa, Israele è un piccolo paese, in cui tutti si conoscono, e io ho conosciuto molto bene, per oltre quarant´anni, Ariel Sharon. Siamo stati a lungo insieme nelle Forze Armate, più tardi siamo stati fieri avversari politici, pur senza perdere mai il rispetto reciproco. Ma quando Sharon mi ha battuto alle elezioni del 2001, prendendo il mio posto, ha intrapreso la stessa politica che a quel punto, dopo il fallimento del summit di Camp David con i palestinesi e lo scoppio dell´Intifada, proponevo io».
Vale a dire?
«Disimpegno unilaterale dai territori palestinesi. Barriera di sicurezza per proteggerci dal terrorismo. Smantellamento delle colonie isolate badando a preservare i blocchi di insediamenti più popolosi e vicini ai nostri confini del ‘67. Ci è voluto un grande coraggio, da parte sua, cioè da colui che ha creato e guidato il movimento dei coloni, ad andare in questa direzione, capovolgendo con pragmatismo i convincimenti di un tempo. Io sono certo che verrà ricordato dalla storia più per questa svolta che per tutto il resto, e soprattutto perciò dobbiamo essergli grati».
Come ha giudicato la decisione di Sharon di uscire dal Likud e fondare Kadima, il nuovo partito di centro, in vista delle imminenti elezioni?
«È stata anche questa una mossa molto importante. Sharon ha fatto emergere la vera questione che oggi divide il nostro paese. Da un lato ci sono coloro, a mio avviso la maggioranza e spero la stragrande maggioranza, convinti della necessità di avere due stati, Israele e Palestina, per due popoli che vivano in pace e reciproca sicurezza uno accanto all´altro. Dall´altro lato ci sono coloro, nell´estrema destra, che vogliono mantenere l´occupazione, convinti che far convivere israeliani e palestinesi sia la soluzione migliore per Israele, e pure per i palestinesi».
E come vede la decisione di Shimon Peres di lasciare il partito laburista per sostenere il nuovo partito di Sharon?
«Capisco che Shimon si sentisse offeso, ferito, per la sconfitta patita nelle primarie laburiste, in cui l´ex-sindacalista Peretz, grazie alla mobilitazione dei sindacati, è stato eletto nuovo leader del partito. Personalmente, dunque, non posso biasimare Peres. Ma politicamente, e come membro del Labour, trovo la sua decisione deplorevole, imbarazzante. Shimon è stato uno dei padri del laburismo israeliano, una delle colonne del partito. Non è bello vedere che se ne va da un´altra parte perché ha perso un´elezione interna. Peres resta un grande simbolo in Israele, nei sondaggi gli viene ancora attribuito un ampio consenso personale. Ma la sua tragedia, come è noto, è che ha sempre vinto tutti i sondaggi tranne gli unici che contano davvero: quelli delle urne».
E lei, Ehud Barak? Si dice che Israele, per fare la pace con i palestinesi e difendere la propria sicurezza, ha bisogno di un coraggioso ex-generale dotato di grande esperienza politica. Rabin è morto, Sharon è in fin di vita, rimane Barak: rientrerà in politica, tornerà a candidarsi alla premiership?
«Prima o poi probabilmente accadrà, ma è ancora prematuro. Considerato che Sharon ha 78 anni e Peres 82, un giovanotto come me (ha 62 anni, ndr) dovrebbe aver tempo fino al 2025 per fare politica. Battute a parte, in Israele si finisce per votare quasi ogni due anni, per cui potrei avere presto un´altra opportunità».
Ma è adesso che potrebbe esserci urgente bisogno di lei. Senza Rabin, senza Sharon, dove sono i leader in grado di unire il paese dietro un programma di pace e sicurezza?
«Innanzi tutto pace e sicurezza non dipendono solo da noi, ma anche dalla controparte, dai palestinesi: e se loro non fanno le mosse necessarie, le nostre non basteranno mai. In secondo luogo spesso sono le circostanze a creare i leader: e credo che i leader in grado di proseguire il cammino indicato da Sharon ci siano, così come ho fiducia che il paese sia con loro».
A proposito dei palestinesi: molti dicevano, lo disse anche lei dopo il fallito summit di Camp David, che fare la pace con Arafat non era possibile, che solo la sua scomparsa avrebbe rilanciato il negoziato. Ebbene, Arafat è morto ma il negoziato non procede, nonostante l´unilaterale ritiro israeliano da Gaza. Perché?
«È un discorso complesso, così riassumibile: Abu Mazen, il successore di Arafat, merita otto su dieci per quello che dice ma due su dieci per quello che fa. Esita troppo, cede ad Hamas, non combatte come dovrebbe il terrorismo, la violenza, l´illegalità tra i palestinesi, come si vede dal caos di Gaza. Un´azione implacabile per ristabilire l´ordine e la legalità tra i palestinesi, viceversa, è la pre-condizione per la ripresa del negoziato di pace».
Bill Clinton continua a sostenere che, il giorno in cui il negoziato di pace non solo riprenderà ma giungerà a conclusione con un accordo finale, esso dovrà basarsi sull´offerta fatta da lei e dal presidente americano, ma rifiutata da Arafat, al summit di Camp David nel 2000, poi perfezionata negli ultimi mesi del suo governo. Resta anche lei di questa opinione?
«Assolutamente sì. Ed è terribile pensare a quanto sangue è stato e verrà versato inutilmente, da entrambe le parti, per tornare di nuovo a quel punto. Avremmo potuto avere già la pace e due stati. Purtroppo non è stato ancora smentito il vecchio detto secondo cui i palestinesi non perdono mai l´occasione di perdere una buona occasione».
Un´ultima domanda, signor Barak. Le capita spesso di pensare al suo mentore ed amico, al primo ministro assassinato dieci anni or sono, a Yithzak Rabin?
«Penso a Yithzak quasi ogni giorno. Lo porto nel cuore. Spero ardentemente che il suo sogno di pace sia completato».
E io, per questo, spero di vederla di nuovo nell´arena politica israeliana.
«Torni in Israele, e un giorno lo vedrà».

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