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La Repubblica Rassegna Stampa
07.01.2006 Quel che Bernardo Valli dimentica di raccontare
è forse la storia del Medio Oriente. e così non si fa informazione

Testata: La Repubblica
Data: 07 gennaio 2006
Pagina: 1
Autore: Bernardo Valli
Titolo: «Chi raccoglierà la sua bandiere»

Non vogliamo tirare in ballo la buona o la cattiva fede. Accontentiamoci quindi della prima ipotesi. Bernardo Valli, nel suo edotoriale su REPUBBLICA di oggi 7.1.2006, non è Sandro Viola, gliene diamo atto. Ma compie un errore molto più grave delle scemenze scritte da Viola ieri sullo stesso quotidiano. Nella analisi che Valli traccia di Israele manca completamente la conoscenza di quanto è avvenuto in quella regione nel secolo scorso: mai una volta che venga ricordato che i palestinesi uno stato potevano averlo già nel '47 con la spartizione dell'ONU. Potevano averlo addittura prima, se avessero accettao il piano inglese alla fine degli anni '30 che prevedeva appunto una futura creazione di due entità autonome ebraiche e arabe. Sempre gli arabi hanno rifiutato qualsiasi soluzione che prevedesse uno Stato ebraico in Palestina. Dopo il '48 non hanno fatto altro che guerre per distruggere Israele, che non ha potuto fare altro che difendersi, pena la distruzione. Quali fra i nostri severi critici della condotta di Israele si degnano mai di ricordarlo nei loro articoli ? Se i palestinesi si ritrovano oggi nella condizione che sappiamo devono solo ringraziare chi ha avuto come unico scopo non il loro Stato ma la distruzione di un altro, Israele, appunto. Possiamo tranquillamente affermare che se i palestinesi hanno dal '48 ad oggi perso tutti i treni della loro della loro peraltro modesta storia,  il dito non va puntato contro Israele, che si è comportato come qualunque altro stato democratico avrebbe fatto e cioè difendendosi e ,quando è stato possibile e indispensabile per la sopravvivenza, anche attaccando per primo. Il dito va puntato contro chi non ha mai realmente voluto la soluzione dei due popoli due stati, ma un unico Stato, quello palestinese al posto di Israele. Se i nostri storici, analisti, commentatori,inviati speciali raccontassero veramente la storia di quanto è avvenuto in merito al conflitto arabo-israeliano forse informerebbero correttamente i loro lettori, i quali avrebbero finalmente in mano gli strumenti per capire e quindi giudicare. Sono invece, nella maggior parte dei casi, sommersi da propaganda, pregiudizi, ostilità che possiamo riassumere bene nella parola disinformazione.

Questa lunga premessa per introdurre l'articolo di Bernardo Valli che ben  riassume l'informazione monca che ci viene propinata.

Ecco l'articolo:

È senz´altro vero che la Storia non si ripete, ma gli avvenimenti che la scandiscono, e le situazioni che si creano, spesso si assomigliano a tal punto da far pensare il contrario. Quel che sta accadendo in queste ore in Israele, dove i chirurghi cercano di salvare Ariel Sharon dalle continue emorragie cerebrali, senza per questo lasciare serie speranze a un suo ritorno alla vita politica, ci riporta inevitabilmente con la memoria a quel che accadde poco più di dieci anni fa in quello stesso Paese. Mi riferisco alla calda serata del 4 novembre 1995. Quando, dopo un´imponente manifestazione davanti al municipio di Tel Aviv in favore del governo di sinistra, impegnato nel contrastato processo di pace con i palestinesi cominciato due anni prima grazie agli accordi di Oslo, Yitzhak Rabin fu assassinato da Ygal Amir, un´estremista di destra convinto di interrompere con quei colpi di pistola «la blasfema rinuncia al Grande Israele», di cui riteneva responsabile il primo ministro laburista.La similitudine tra il tragico avvenimento di dieci anni fa e quel che accade in queste ore comincia quando Yitzhak Rabin muore prima di raggiungere l´ospedale, lasciando un vuoto politico che nessun altro è in grado di colmare. Ariel Sharon non è la vittima di un attentato, è stato tradito dall´età (78 anni), ma la sua uscita dalla scena politica lascia un vuoto altrettanto incolmabile. Neppure oggi c´è un uomo politico dotato di un carisma sufficiente per portare avanti il suo progetto. Un progetto nebuloso, impreciso, reso credibile dal suo personale prestigio, e dalla sua altrettanto innegabile capacità di interpretare e sintetizzare le aspirazioni del momento di un´opinione pubblica lacerata tra l´angoscia della sicurezza e il desiderio di arrivare infine a un´intesa con i palestinesi.
Sharon non è Rabin. Rabin era un soldato ‘‘duro e giusto". La sua fedeltà alla sinistra sionista era stata lineare. La sua brusca lealtà ispirava fiducia e rispetto. Sharon è un personaggio di tutt´altra natura. È più controverso. È stato un tenace, accanito oppositore degli accordi di Oslo, che portarono al reciproco riconoscimento di Israele e dell´Olp, e furono firmati da Rabin (e da Shimon Peres) e da Arafat. Dieci anni dopo l´assassinio di Rabin, Sharon ne ha ricalcato le orme, a modo suo, abbandonando l´abito del superfalco, partigiano del Grande Israele, ma riservandosi il diritto a ogni decisione, quale depositario di un progetto, ancora impreciso, soltanto annunciato, sul quale l´Autorità Palestinese avrà da dire solo quando avrà messo a tacere i terroristi.
L´abbandono di Gaza, e la drammatica, sofferta distruzione delle colonie ebraiche in quel territorio, hanno dato una forte impronta di serietà alla svolta di Sharon, che altrimenti avrebbe corso il rischio di essere vista come uno dei suoi tanti gesti spettacolari. E al tempo stesso ha assunto peso anche la sua promessa evacuazione dalla Cisgiordania, che prenderà contorni precisi il giorno in cui si darà vita alla famosa road map, con la partecipazione dei palestinesi. La credibilità di Sharon è stata poi rafforzata dalla sua spettacolare uscita dal Likud e dalla fondazione di Kadima, il nuovo partito di cui tanto si è parlato e si parla, e di cui si teme un forte ridimensionamento rispetto ai sondaggi (che ne hanno fatto il più forte partito virtuale di Israele), in seguito all´uscita di scena del suo fondatore. Gli esponenti di sinistra e di destra affluiti in Kadima, perché sedotti dall´opportunità di arrivare a un vero processo di pace nel più breve tempo possibile, o perché convertiti, trascinati dal carisma di Sharon, potrebbero disperdersi e ritornare nei loro partiti d´origine. A destra nel Likud, a sinistra nel Labour.
In comune con Rabin, Sharon ha il passato militare. Un passato che dà sicurezza in una società spinta dall´esperienza (recente ed antica) a non rinunciare al dogma della sicurezza, e quindi a una difesa senza concessioni (il "muro di ferro" evocato dagli storici israeliani). Nessuno, quando Rabin fu ucciso, era in grado di affiancare al prestigio politico l´indispensabile garanzia sui problemi di sicurezza offerta da un soldato di provata intransigenza, quale era il primo ministro assassinato. Shimon Peres, l´immediato successore, non aveva un passato militare. Lui non ha mai indossato la divisa. Forse era più convinto di Rabin della necessità, anche morale, di un´intesa con i palestinesi. Ma sui problemi della sicurezza era troppo incerto. Troppo morbido. Cosi appariva a molti israeliani. Per vincere questo handicap, Peres promosse azioni antiterroristiche e militari che avrebbero dovuto rassicurare gli elettori, ma che ebbero come effetto immediato una forte reazione palestinese. Cosi si moltiplicarono gli attentati e si creo´ una forte clima di insicurezza alla vigilia del voto.
Dopo l´assassinio di Rabin ci fu un forte sostegno di massa alla sua politica. Tutti pensammo che il Paese si sarebbe espresso in favore della sua eredità. Tutti i sondaggi confermavano il crescente sostegno a un compromesso con i palestinesi. Spinto dal vento favorevole Peres indisse nuove elezioni per il maggio del ‘96. Il candidato del Likud, Benjamin Netanyahu, sembrava destinato alla sconfitta. E il processo di pace avrebbe tratto un ulteriore impulso. La ripresa degli attentati rovesciò i pronostici. Gli umori del Paese cambiarono. E Netanyahu sconfisse Peres alle elezioni di maggio.
La democrazia interna israeliana è agitata, spesso rissosa, è frantumata, ma ha strutture che si sono rivelate solide. Abbastanza resistenti ed elastiche per sopportare le crisi, le emergenze militari e sociali, e le ampie fluttuazioni di un´opinione pubblica ancorata al dogma della sicurezza e al tempo stessa ansiosa (al momento, anche grazie a Sharon, con una robusta maggioranza) di arrivare a un compromesso con i palestinesi. Un´intesa in cui includere la nascita del tanto promesso e mai realizzato Stato palestinese.
Il clima è quello che segui la morte di Rabin. Le emozioni suscitate allora dall´assassinio del soldato «duro e giusto» erano spesso passionali. C´era rimpianto e indignazione. Affiorava, senza troppo ritegno, anche una certa soddisfazione in ambienti non soltanto estremisti. Oggi forse il consenso per il processo di pace è più ampio. Le tragedie sono state tante negli ultimi dieci anni. C´è stata un´altra intifada, con pochi sassi, molte bombe e tanti morti. Sharon, l´ex superfalco, ha sollecitato la voglia di pace anche tra gli elettori tradizionali di destra.
Ma i rischi restano quelli di allora. Sulla scena politica c´è sempre il Netanyahu che soffio´ la vittoria a Peres nel maggio ´96. E verso di lui, Netanyahu, adesso capo di un Likud indebolito dalla partenza di Sharon, potrebbero rifluire tanti israeliani scopertisi indifesi senza Sharon. Israele è davanti a una nuova grande prova. Le sue strutture democratiche interne dovrebbero accompagnare il consenso sulla pace creato inaspettatamente da Sharon, dieci anni dopo l´assassinio del suo avversario Rabin. Perché questo accada ci vuole il sofferto contributo dei palestinesi. La suspense è forte e si annuncia lunga.

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