Fiamma Nirenstein sulla STAMPA di oggi 7.1.2006 traccia un ritratto di Ehud Olmert. Ecco l'articolo, accurato e informato come sempre:
QUASI davanti al Consolato d’Italia, in via Kaf Tet be November, fra alberi spogliati dal vento l’inverno giallo e nero di Gerusalemme soffia sulla porta di Ehud Olmert, il primo ministro ad interim che reggerà da adesso per altri 83 giorni il Paese più difficile del mondo. Ieri sera dall’ingresso dello Shabbat, anche se l’ossuto e ironico Olmert non è religioso per niente, il telefono e le visite sono state bloccate quasi completamente, mentre l’ospedale telefona continuamente per aggiornamenti sulla incredibile tragedia in corso. Sono passate solo chiamate di importanza fondamentale, come quella di Condoleezza Rice con le parole affettuose e di avvertimento rivolte direttamente a Ehud («siamo con Israele, ma in particolare con te»). Olmert da quando la tragedia si è abbattuta su Sharon non una sola volta si è seduto nell’ufficio del suo capo, mai ha preso il tono del padrone. Ma lo contraddice la cura con cui la zona è stretta dalle più severe misure di sicurezza, la proibizione di passare dalla stradina se non per motivi precisi. Solo Shimon Peres e i due consiglieri strategici di Sharon sono entrati senza controlli.
Olmert, che ha sessanta anni e occhiaie molto profonde mentre stringe continuamente le labbra molto sottili in una linea bianca, oltre al dolore evidente che tutti sentono mentre il gigante agonizza all’ospedale Hadassah Ein Karem, ha addosso il peso di far capire al mondo che Israele ancora una volta colpito da una tragedia impossibile, continua a far politica, a difendere i suoi confini e a cercare la pace. Si dice che un messaggio è stato lanciato dagli uffici della leadership all’Iran e ai Paesi arabi, e soprattutto agli Hezbollah, i migliori amici di Ahmadinejad, perché si regolino e facciano sapere ai loro protettori: non ci provate. Ma il mondo si chiede adesso se Israele si ripiegherà su sé stesso, porrà fine ai tentativi di pace inaugurati da Sharon, sarà in grado di condurre una politica di sicurezza decisa eppure ben regolata come il grande generale sapeva gestire, e anche se il partito Kadima, fondato l’altro ieri, chiuderà i battenti.
Ma Ehud Olmert è un personaggio che per ciò che è strutturalmente, segnala, e lo si capirà presto, che Israele non perderà la strada di Sharon. Il segnale è forte perché Olmert non è solo, anche se oggi è disperato: tanta gente tiene magari non per lui, ma per la sua linea. Non è un tipo ideologico, non è una figura né di eroe militare né di intellettuale come i precedenti grandi leader di Israele, Moshè Dayan o Yzhak Rabin. Ma forse conquista proprio per il suo carattere di vecchio politico classico e di cittadino che ha fatto insieme a Sharon la strada storico-ideologica che altre centinaia di migliaia di cittadini israeliani hanno fatto dando al nuovo partito Kadima le adesioni che tuttora (anche se certo il numero si restringerà) si mantengono fra il 35 e il 40%. Olmert è ancora giovane, sportivo, ha una esperienza politica consistente (32 anni) sempre nel Likud fino a Kadima, 4 incarichi di ministro inaugurati 18 anni fa; l’esperienza come braccio destro di Sharon, la fortuna certo non da poco di essere stato sindaco di Gerusalemme dal ‘92 al ‘99, dopo aver battuto l’immortale Teddy Kollek.
E’ stato tutto: negli anni ‘70, quando aveva ancora riccioli rossi, ingaggiò una famosa guerra quasi personale contro le gang del crimine; ha lodato Ehud Barak (suscitando scandalo a destra) per la sua determinazione a non dividere la capitale, ed è apparso come il duro (facendosi odiare a sinistra) che aprendo un tunnel poco lontano dal Muro del Pianto dette il via a una rivolta con morti e feriti. Nella sua vita ciò che manca è una consistente esperienza militare: ha fatto il soldato come cronista del giornale dell’esercito. Ma la fiducia che Sharon ha avuto in lui fino a dargli il posto di Netanyahu nella gestione della politica e di conservargli il ruolo di vice primo ministro persino con l’arrivo di Peres nel Kadima, sono la torcia che può far fiammeggiare davanti al pubblico. Olmert se l’è guadagnata: prima di diventare il più stretto collaboratore di Sharon lo insulta (al funerale della moglie di Sharon, Lily, nel marzo 2000, commentò «E’ scomparsa una grande donna che aveva scelto un uomo ben strano») e lo sfida fino a contrapporsi nel 2001 nella corsa per la leadership del Likud. In seguito il rapporto cresce in maniera esponenziale, e ribolle e fuma come una cucina di elaborazione e di difesa senza riserve della scelta dello sgombero. Tanto che fu Olmert, e non Sharon, ad annunciarla al mondo nella stupefacente intervista del dicembre 2003, concertata per aprire la strada al discorso del premier un mese dopo.
La forza che resta nelle mani di Olmert deriva dal fatto che la via di Sharon non deriva come alcuni vorrebbero, da una svolta secca per cui uscito il protagonista di scena resta il vuoto. Sharon vide quello che era ormai molto chiaro agli israeliani e che ha provocato successivamente l’assemblarsi di tanta gente e di tanti politici dal curriculum invidiabile, come Shimon Peres o Shaul Mofaz o Tzipi Livni. Il tentativo di mettere in atto il principio «terra contro pace» non funzionava; né funzionavano le numerose firme apposte ai tanti accordi, quello di Oslo, quello di Wye Plantation. Alla fine un’esplosione, in senso figurativo e letterale, era sempre in attesa dietro l’angolo. Sharon ha scoperto la semplice formula di tendere la mano per la pace in maniera concreta e unilaterale, come ha fatto a Gaza; e ha scoperto che senza la sicurezza qualsiasi cosa avrebbe potuto essere chiamata pace, ma non lo era. Ha gestito i due fronti, sicurezza e pace, contemporaneamente. Così sente e vuole l’israeliano che ha sofferto il terrorismo, e desidera però sperare nel futuro. Si tratta della maggioranza, e Olmert ne fa parte. Bisogna vedere se in 83 giorni sarà capace di convincerne l’elettorato.
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