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La Stampa Rassegna Stampa
06.01.2006 E' il solito Igor Man
motivo in più per scrivere al quotidiano torinese

Testata: La Stampa
Data: 06 gennaio 2006
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: «Aspettando un miracolo Yankee»

Oggi, 6 gennaio 2006, tutti i giornali riportano ampiamente le notizie su Ariel Sharon. . Igor Man sulla STAMPA in prima pagina,non rinuncia ai suoi stereotipi abituali. Paragona l'integralismo (per carità. non il terrorismo !) di Hamas con il "furore dei coloni sfrattati da Gaza", in modo da parificare Israele con Hamas.Così come infiora il racconto con rifermenti al defunto (ma sempre buono da utilizzare) rabbino Kahana, che "definiva gli arabi pidocchi da schiacciare con gli scarponi chiodati", dimenticando di scrivere che in Israele il partito di Kahana era stato subito messo fuorilegge e lo è tuttora, come si fa in una vera democrazia. Avanti poi con Sabra e Shatila e il bombardamento di Beirut senza dire il perchè e il per come. I palestinesi poi sono "in ginocchio". come se la responsabilità fosse di Sharon e non del terrorismo dei vari gruppi islamisti che impediscono ad Abu Mazen di governare veramente.

Lasciamo ai lettori l'incombenza di leggere il pezzo di Man invitandoli a scrivere alla Stampa il loro parere, cliccando sulla mail sottostante

Lo rimpiangeremo. Paradossalmente chi si è sempre battuto sul terreno pulito della pace in Palestina dopo la gogoliana uscita di scena del generale Sharon vede crollare ogni ragionevole speranza. Soltanto lui, il «soldato Arik», infatti, poteva imporre la pace. Una pace monca, una «bozza» di quella in buona e dovuta forma da tutti sospirata, magari un patto leonino acconciamente truccato, nulla di perfetto, d’accordo, ma sempre meglio che l’attuale disordine nutrito dall’integralismo di Hamas e dal furore dei coloni sfrattati da Gaza.
Le premesse d’una svolta nel segno della road-map c’erano, e buone. Il partito fondato in quattro e quattr’otto da Sharon (Avanti) aveva pressoché prosciugato il Likud; i sondaggi lo davano vincente alle elezioni di marzo. Il «vengo anch’io» di Shimon Peres, il visionario polacco che diede forma scritta al disegno pacifico di Rabin aveva dato corpo al grande slam politico di Sharon penalizzando il partito laburista in piena e faticosa ristrutturazione. Non sembrava dunque eccessivamente ottimistico pensare che Abu Mazen, l’anemico successore di Arafat, avrebbe sfidato Hamas alle imminenti (?) elezioni palestinesi frenando il suo dilagare nei territori occupati. Tutto si tiene: la scontata vittoria elettorale di Avanti avrebbe comportato quella «svolta negoziale» su cui America ed Europa puntavano in termini politici e di business. Nemmeno il «leggero ictus» patito dal premier, per altro subito ripresosi, era riuscito a demolire il clima di speranzoso ottimismo creatosi in Terra Santa, e non solo, dopo il colpo di teatro di Sharon. Una entrata a gamba tesa tipica del controverso grande soldato rivelatosi politico di rango. Ma all’improvviso, il disastro.

Sharon affronta nel suo ranch la difficile battaglia dell’alimentazione controllata (dovrà subito perdere dieci chili), i suoi collaboratori vanno e vengono e «Arik» continua a guarire quando un brutto giorno gli dicono che la polizia sta indagando su di lui sospettato d’aver incassato una bustarella indebita, robusta in dollari. «E’ un colpo basso, tipicamente pre-elettorale - proclama il suo portavoce -, trattasi di una vecchia storia a suo tempo chiarita». Chiarita o no, il vecchio accusa il colpo, la sua convalescenza da facile si fa immediatamente difficile. Il grande soldato non è superstizioso, lui è uno coi piedi per terra, un pragmatico, e, a dispetto dell’età, un uomo postmoderno: ma come non pensare ad influssi negativi? Israele è un paese ipersviluppato, tecnologicamente dieci anni, almeno, più avanti dell’Europa, è una potenza atomica, ha una sanità pubblica e privata d’alto livello, la sua aviazione è superiore del 40% a quella della Nato e via così: è soprattutto un paese laico dove tuttavia non pochi rabbini sono caparbiamente rimasti ancorati al passato biblico. E alle sue derivazioni insane. Alcuni di codesti rabbini sono rimasti fedeli a quel Kahane che considerava gli arabi, in particolare i palestinesi, pidocchi da schiacciare con gli scarponi chiodati. Ora si vuole che scioccati dalla rivoluzione copernicana di Sharon, già nel mirino per aver sfrattato i coloni da Gaza, alcuni rabbini dei più fanatici abbiano affatturato il premier con una specifica pulsa de nura (frusta di fuoco in aramaico), una maledizione cabalistica. La cerimonia malefica si tiene in una stanza rischiarata da candele nere, dove dieci «probi» reciteranno la maledizione.
Israele è un paese «ricco di miraggi e di fantasmi», disse De Gaulle dopo la guerra dei sei giorni, giuocando sui nomi degli aerei che triturarono in 70 minuti l’aviazione di Nasser, i phantom e i mirages, giustappunto. E Ben Gurion, il padre della patria che incontrai nel suo kibbutz di Sdè Bokèr, nel deserto del Neghev, non si stancava di ripetere sorridendo ironico che «chi non crede nei miracoli non può capire Israele». Per quel che può valere, personalmente non credo che la pulsa de nura abbia eccessivamente turbato un uomo roccioso come Sharon. Ho detto del malocchio per dare un’idea del clima in cui il premier-soldato si apprestava alla battaglia sua finale. Una sfida storica segnata dal più malandrino «I changed my mind» (ho cambiato idea). L’uomo politico che aveva puntato tutto sulla sicurezza e che s’era visto i terroristi suicidi in casa, il soldato che aveva rovesciato l’equazione dell’ebreo errante sempre angariato quando non gasato, praticando e predicando la violenza gestita scientificamente, col cinismo d’obbligo, e senza «stati d’animo», il leader discusso e censurato da personaggi come Moshe Sharret (già ministro degli Esteri e premier: vedi i suoi Diari), il generale che «non si accorse» della strage di Sabra e Chatila durante l’improvvida spedizione «pace in Galilea» che vide, nel 1982, il mostruoso bombardamento di Beirut (per altro senza conseguenze positive per Tsahal) e lo sfilarsi, sotto il suo naso, di Arafat, il nemico con cui ha duellato lunghissimamente - insomma un gigante, in ogni caso, nel bene e nel male, Arik Sharon è uscito di scena e Israele si vede assediato da una torma di buchi neri. E’ difficile, per non dire impossibile, che Shimon Peres, l’eterno secondo, possa assumere il ruolo unico di Sharon che con il ritiro da Gaza ha sparigliato le carte, proponendo non senza coraggio un ultimo giro «al buio». Il partito laburista è in ristrutturazione, s’è detto; del suo nuovo leader, Amir Peretz, si sa soltanto ch’è un valente sindacalista. E’ lecito, stando così le cose, pronosticare una buona affermazione del Likud poiché la scomparsa di Sharon ridà ossigeno a «Bibi il terribile» e a tutta la destra annessionista, quella che odiava Rabin. Se è vero che i palestinesi sono in ginocchio, è altrettanto vero che Hamas o, meglio, l’ala militante che con i sussidi distribuisce armi e alleva terroristi, convinta com’è d’aver costretto Sharon a sgomberare Gaza perché logorato da una instancabile guerra d’attrito, piccola ma perniciosa, stia «organizzandosi in vista d’una terza intifada», si annuncia un tempo boreale in Palestina. Sempreché non arrivi uno dei miracoli di cui parlava Ben Gurion. Un «miracolo» che parli yankee.


lettere@lastampa.it

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