Sequestro e rilascio di un pacifista italiano a Gaza l'hanno rapito i palestinesi ma la colpa è di Israele. giornali a confronto
Testata:la stampa,corriere della sera,la repubblica,l'unità Autore: fiamma nirenstein,aldo baquis,daniele mastrogiacomo,umberto de giovannangeli Titolo: «Pacifista italiano rapito e liberato a Gaza»
Oggi, 2/1/2006, tutti i quotidiani riportano la notizia del rapimento /rilascio di Alessandro Bernardini, il pacifista al seguito della eurodeputata Luisa Morgantini in visita a Gaza. Come già è avvenuto nei casi di Giuliana Sgrena e delle due Simone, anche Bernardini - dopo essere stato liberato un paio d'ore dopo il sequestro- si è scagliato contro " l'occupazione israeliana", come ad averlo rapito non fossero stati i palestinesi ma gli isrealiani. A conforto delle nostre posizioni, citiamo il titolo di REPUBBLICA, che bene dà il senso della situazione:
"Tre mesi senza israeliani, ora nella Striscia regna il caos"
Per onestà REPUBBLICA avrebbe dovuto aggiungere che a regnare non è solo il caos, ma anche violenza,bande armate e terrorismo. Ma ccontentiamoci, è già un passo avanti verso una maggiore corretteza nell'informazione.
Ambigua,come sempre, l'UNITA', che nella pagina dedicata al sequestro sembra prendersela più con Abu Mazen che non con i sequestratori, anche se Umberto De Giovannangeli non può fare a meno di riconoscere che :
"Gaza è terra di nessuno, scene da Far West, dove a regnare è il caos armato e l'unica legge che conta è quelal della giungla"
Non male per un popolo finalmente libero dall'occupazione israeliana, dal quale ci si aspettava che si sarebbe dedicato a costruire libere istituzioni, a creare quello Stato palestinese che a parole dicono di volere. Naturalmente si fa un gran spreco di parole come "disperazione", "il ritiro israeliano non ha portato più libertà a Gaza" ecc. Come se Israele fosse il responsabile dell'incapacità dei palestinesi ad autogovernarsi.
Dal CORRIERE della SERA riportiamo la dichiarazione di Bernardini:
"Ho avuto paura, ma l'occupazione israeliana è un crimine"
Sarà opportuno che il Bernardini si informi, che qualcuno gli dica che gli israeliani hanno lasciato Gaza lo scorso agosto.
L'articolo di Fiamma Nirenstein sulla STAMPA di oggi fa il punto sulla situazione politica con la consueta precisone e accuratezza. Sempre dallo stesso giornale riportiamo la cronaca di Aldo Baquis. Seguono poi articoli dal CORRIERE dellaSERA, da REPUBBLICA, dall'UNITA', e infine l'opinione di Yasha Reibman, portavoce della Comunità ebraica di Milano, che con pochi e semplici concetti, ricorda di chi sono le responsabilità e cosa dovrebbe fare Abu Mazen se veramente avesse la volontà di bloccare il terrorismo.
Cominciamo con l'articolo di Fiamma Nirenstein: "Un siluro per bloccare le elezioni":
GERUSALEMME La sequenza dei rapimenti operati soprattutto dagli uomini delle brigate di Al Aqsa, uomini che in teoria dovrebbero rispondere ad al fatah di Abu Mazen, è diventata frenetica. A noi italiani, ci ha già investito due volte. Settimane fa era stato tenuto in cattività per una giornata il giornalista Lorenzo Cremonesi, e adesso è toccato a un giovane trascinato via da uomini armati mentre la sua delegazione capeggiata dalla famosa attivista della causa palestinese onorevole Morgantini, si trovava a Khan Yunis nella Striscia di Gaza. Probabilmente il gruppo si sentiva protetto dalla sua solidarietà per i palestinesi chiaramente professata. Pochi giorni prima era toccato alla britannica Kate Burton, anche lei attivista e volontaria, assieme ai suoi genitori. Ormai la lista è lunga, e il fatto che finora la fortuna abbia assistito i rapiti non deve illuderci in tempi di estremismo e rabbia. Vale quindi la pena di sottolineare che un rapimento come quello di ieri avviene quando si sottovaluta il pericolo dell’uso abituale della violenza che purtroppo, dopo lo sgombero israeliano da Gaza, è aumentata verticalmente invece che diminuire come molti speravano. L’illusione che la solidarietà per i palestinesi costituisca un distintivo di salvaguardia, un lasciapassare, nasce da una valutazione sbagliata delle forze e degli umori in campo. Terrorismo e violenza non riconoscono amici e nemici, come si vede benissimo in Iraq, e anzi consta anche a Gaza e in Cisgiordania di un generico rifiuto popolare per gli occidentali, comunque la pensino. L’ondata di disordine che investe l’Autonomia Palestinese ne dà segni continui: ancora ieri un altro gruppo armato ha fatto esplodere e bruciato il club dell’Onu a Gaza City dove si servono anche alcolici; a Nablus è stato razziato un albergo dove si ospitano gli osservatori stranieri; ci sono state anche dichiarazioni di gruppi estremisti che promettono che il passaggio di Rafah (tra Gaza e l’Egitto) sarà proibito a tutti gli stranieri. Si tratta del passaggio oggi controllato dagli europei. In queste settimane, accanto a queste azioni ne sono state compiute altre dozzine: rapimenti, distruzioni, ricatti e sparatorie, tutte a carattere interno. Gruppi armati del Fatah attaccano altri gruppi di Fatah specialmente con il pretesto di combattere la corruzione del gruppo dirigente di cui ritengono Abu Mazen il principale rappresentante. Con il voto alle primarie del Fatah per Marwan Bargouty, fondatore delle brigate di Al Aqsa, la gente del Fatah ha voluto significare la sua volontà di scalzare i vecchi di Tunisi, far slittare le elezioni, istituire maggiore democrazia ma anche seguitare a usare l’arma di Bargouty, la violenza. Sulla scia di questo scontro ideologico si è mossa, con tutti gli attacchi di queste settimane, la speranza dei vari militanti di ottenere danaro e posti di lavoro spaventando Abu Mazen. Si può capire che in questa terribile confusione di fronte alla quale Abu Mazen si prodiga in condanne senza tuttavia agire con determinazione, l’altro grande contendente elettorale, Hamas, fa un’ottima figura di fronte alla popolazione, e guadagna punti dando impressione di compattezza. L’organizzazione integralista islamica gestisce la sua rete caritativa, prepara liste elettorali in cui figurano numerosi accademici, professionisti, donne, e molti personaggi legati con il terrorismo di cui Hamas si fregia come di una carta elettorale decisiva. Infatti rivendica la liberazione di Gaza come conquista delle sue azioni terroriste e suicide. La lotta armata e il rifiuto di riconoscere Israele sono state ribadite anche ieri dal candidato di Rafah Ghazi Hamad, e ogni giorno c’è chi ricorda che non si tratta con Israele, contro la volontà di Abu Mazen. Insomma: lo scontro «mani pulite» unito all’opzione violenta, con quella «vecchio gruppo dirigente corrotto» unito all’opzione della Road Map, fa sì che le elezioni del 25 gennaio siano a forte rischio. Abu Mazen vorrebbe spostarle tanto che ha incaricato Abu Alla, primo ministro, di trattare con Hamas. Fare le elezioni e vedere una grande affermazione di Hamas sarebbe la fine per Abu Mazen, ma rimandare le elezioni sarebbe un ennesimo segnale di debolezza. Tutt’e due le ipotesi sono accompagnate dalla preoccupazione che la fine della tregua siglata fino a ieri dalle organizzazioni estremiste per una sospensione degli attentati (mai rispettata ma comunque in parte fino ad oggi attiva) prepari un’escalation senza precedenti. Infatti dal Libano Al Qaeda per la prima volta fiancheggia Hezbollah nel lancio dei missili su Israele; e, novità assoluta, missili Kassam piovono ormai non solo da Gaza ma anche dalla Cisgiordania. Secondo fonti di intelligence israeliana le buone intenzioni di Sharon e Abu Mazen sono un tale ostacolo sulla strada dell’integralismo islamico specie iraniano, che lo sforzo per impedire ogni avvicinamento è diventato un obiettivo strategico perseguito con ogni tipo di aiuto e con larghezza di mezzi.
segue la cronaca di Aldo Baquis "La polizia dell'ANP libera l'italiano rapito" sempre dalla Stampa:
TEL AVIV A tre settimane dalle elezioni politiche palestinesi, i gruppi armati dell’intifada hanno inviato ieri nuovi minacciosi messaggi agli stranieri sempre più radi che ancora si avventurano nei Territori. In poche ore hanno fatto esplodere a Gaza un club frequentato da personale delle Nazioni Unite, dove nella notte di Capodanno erano stati serviti alcolici in contrasto con i dettami dell'Islam, e subito dopo hanno sequestrato nella vicina Khan Yunes un giovane italiano giunto nella Striscia per raccogliere materiale di prima mano sulla partecipazione femminile alle prossime elezioni politiche. Nei giorni precedenti quelle milizie avevano anche intimidito gli osservatori europei dislocati al valico di Rafah (fra Gaza ed Egitto), avevano tenuta prigioniera a Rafah per tre giorni (con i genitori) un’attivista britannica di una organizzazione umanitaria palestinese, e avevano bruscamente espulso da un albergo di Nablus un gruppo di osservatori europei impegnati nei preparativi del voto del 25 gennaio. Queste operazioni sono state condannate in maniera molto netta sia da Hamas (secondo cui «gli ospiti della Palestina devono essere protetti, non si toccano mai») e anche dal negoziatore palestinese Saeb Erekat, allarmato che operazioni del genere arrechino danno all’immagine della causa palestinese. Erekat ha anche avvertito che i responsabili dei sequestri saranno puniti dalla giustizia palestinese. Ma finora i servizi di sicurezza non sono riusciti ad identificare nè i rapitori dell’attivista britannica nè quelli dell'universitario italiano Alessandro Bernardini, giunto nella striscia di Gaza al seguito di una delegazione di europarlamentari guidati da Luisa Morgantini (Rifondazione comunista). La delegazione era giunta a Khan Yunes per un incontro politico con i rappresentanti di una lista nuova e promettente, la Terza Strada, che guidati dall'ex ministro delle Finanze Salam Fayad e dall’attivista per i diritti civili Hanan Ashrawi cercano di presentarsi come una forza alternativa sia ad al-Fatah sia a Hamas. Al termine del colloquio, i delegati si sono sparpagliati. Mentre l'onorevole Morgantini si accomiatava dagli organizzatori e preparava la prosecuzione della visita nelle zone sgomberate l'estate scorsa da Israele, miliziani sono comparsi in una strada vicina, hanno sparato in aria e hanno caricato su un veicolo la persona che era a loro più vicina, cioè Bernardini. Secondo al-Jazeera, di fronte a questa scena drammatica, i passanti hanno fatto scudo attorno agli altri membri della delegazione per impedire che fossero attaccati. Nel giro di minuti l'allarme è scattato a Gaza - dove la sicurezza preventiva dell'Anp ha subito intrapreso estese ricerche -, sia a Gerusalemme, dove malgrado la giornata festiva il Consolato generale si è attivato in pochi minuti per seguire gli sviluppi del drammatico sequestro. Sono seguite ore di tensione: una prima notizia delle liberazione dell'ostaggio si è rivelata inesatta. In seguito la palazzina dei rapitori è stata localizzata nella zona agricola di al-Mowassi. Nel primo pomeriggio le forze palestinesi si sono preparate a una prova di forza, che non è stata necessaria. Ci sono stati alcuni colpi di arma da fuoco, ma alla fine i rapitori hanno preferito dileguarsi e Bernardini è emerso indenne dalla brutta avventura. «Subito - ha raccontato Bernardini - sono stato trattato bene, i sequestratori mi hanno offerto del tè, le sigarette. Poi, dopo una telefonata che li ha molto contrariati, il loro atteggiamento è cambiato. Li ho visti molto più nervosi. Hanno cominciato a caricare e scaricare i fucili e, in quel momento, ho pensato che volessero spararmi». Il giovane ha poi aggiunto che i suoi sentimenti pro-palestinesi non sono stati scalfiti dall'episodio. Immutata, ha assicurato, la sua totale opposizione alla «criminale» occupazione israeliana dei Territori. Il ministro degli Esteri italiano, Gianfranco Fini, si è congratulato con il presidente palestinese Abu Mazen per la «rapida e positiva soluzione della vicenda». Da parte loro i miliziani hanno emesso un comunicato in cui dicono di essere una cellula delle Brigate dei martiri di al-Aqsa (al Fatah), probabilmente inventata ad hoc: «La famiglia sunnita». Hanno richiesto una più approfondita inchiesta sulla morte di Yasser Arafat e una lotta senza quartiere alla corruzione. Nel corso delle trattative, non hanno dimenticato di richiedere per sè l'inquadramento nelle strutture dell'Anp.
Ecco la cronaca di Umberto De Giovannageli, alla quale segue la sua intervista a Luisa Morgantini,sempre sull'UNITA' di oggi:
HANNO BLOCCATO LA DELEGAZIONE di pacifisti. Volti mascherati e mitra in pugno hanno preso il primo capitato a tiro e l'hanno portato via a bordo di un'automobile. Scene da Far West. Scene da Gaza. Terra di nessuno, dove a regnare è il caos armato e l'unica legge che conta è quella della giungla. La brutta avventura di Alessandro Bernardini, trentenne freelance romano giunto nella Striscia per realizzare interviste video alle donne palestinesi candidate alle prossime elezioni, si è conclusa nel tardo pomeriggio quando la sicurezza preventiva palestinese ha localizzato l'edificio dove Bernardini veniva tenuto prigioniero, nella zona di Muwassi, all'interno di quella che fino alla scorsa estate era la zona di colonizzazione ebraica di Gush Katif. Alla vista delle forze di sicurezza, i rapitori si sono dileguati lasciando di fatto il giovane pacifista libero dei suoi movimenti. Ma secondo testimoni locali, altri uomini armati hanno cercato di interferire e con loro c'è stato un breve scontro a fuoco. Il rapimento - condannato da Hamas - era stato rivendicato dalle Brigate di martiri di al-Aqsa-Popolo sunnita, che chiedevano la rimozione dei dirigenti corrotti di Al-Fatah, il partito che fa capo al presidente Abu Mazen. Si sequestra per «combattere» i corrotti; si assaltano gli uffici pubblici per reclamare l'assunzione dei «resistenti» nelle forze di sicurezza dell'Anp; si occupano militarmente le sedi del Fatah per contestare la formazione delle liste elettorali. Si agisce come un contropotere armato che rende l'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen una entità astratta, impotente. Tutto questo è oggi la «giungla» di Gaza. Una «giungla» che per qualche ora ha «inghiottito» Alessandro Bernardini. L'agguato scatta a Khan Yunes (sud della Striscia) dove la delegazione europea, guidata dagli europarlamentari di Rifondazione Comunista Luisa Morgantini e Giusto Catania, si era recata per un incontro politico con rappresentanti della lista «Terza Via» dell'ex ministro delle Finanze Salam Fayyad e della parlamentare indipendente Hanan Ashrawi. All'uscita dall'edificio al-Farra, nel centro della città, miliziani armati si sono parati in mezzo alla strada, hanno sparato alcuni colpi in aria e quindi hanno prelevato la persona a loro più vicina, ossia Bernardini, che è stato caricato su un'automobile in corsa. Secondo quanto riferito dall'emittente Al-Jazira i passanti avrebbero fatto scudo attorno agli altri delegati per impedire che fossero aggrediti. Venerdì scorso, nella stessa zona, i servizi di sicurezza dell'Anp erano riusciti a liberare tre cittadini britannici (l'attivista per i diritti civili Kate Burton, e i suoi genitori) dalle mani di una milizia locale che li deteneva da tre giorni. «In questo momento sono un eroe per caso», dice Alessandro in un collegamento telefonico in diretta trasmesso da Sky News 24 subito dopo la riacquistata libertà. La voce risente ancora dello shock del rapimento - Bernardini conferma che «c'è stata una piccola sparatoria» al momento della liberazione - ma il giovane pacifista non rimette in discussione le sue convinzioni anche se confessa che a un certo punto ha temuto che gli sparassero: «Nonostante quanto mi è successo credo e continuerò a credere che l'occupazione israeliana di Gaza sia criminale», dice Alessandro, invitando «tutti a venire a vedere come vive questa gente». Un concetto su cui che l'ex-sequestrato insisterà più tardi incontrando i giornalisti prima di lasciare la Striscia alla volta di Israele: «Siamo entrati a Gaza - ribadisce Bernardini - perché crediamo che l'occupazione israeliana sia qualcosa di criminale. Quello che è accaduto a me è il frutto della società contorta e militarizzata di questo posto». Un «posto» dove il linguaggio più conosciuto e praticato sembra essere quello delle armi. Oltre al sequestro-lampo del pacifista italiano, il primo dell'anno 2006 porta con sé la fine della «tregua» con Israele che Abu Mazen aveva faticosamente concordato con i gruppi armati dell'Intifada. «Confermiamo la fine del periodo di calma, il nemico sionista dovrà pagare il prezzo dei suoi crimini contro il nostro popolo», minaccia un comunicato delle Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas. «Non resteremo a braccia conserte, e i sionisti non avranno mai sicurezza se proseguiranno i loro attacchi contro il nostro popolo», incalzano la Jihad islamica e le Brigate al-Aqsa (Al-Fatah). Parole seguite dai fatti: i due gruppi armati hanno rivendicato il lancio di due razzi Qassam contro la città israeliana di Sderot, nel deserto del Neghev (nessun ferito). Altri razzi, sparati da altri irriducibili dell'Intifada, sono indirizzati contro postazioni di Tzahal a ridosso della Striscia e contro un kibbutz israeliano. Così si vive, e si muore, nella giungla di Gaza.
ecco l'intervista a Luisa Morgantini:
«Alex mi stava aspettando in strada al termine di una visita al gruppo politico di "Terza Via", quando è arrivata una jeep dalla quale sono scesi alcuni giovani armati che hanno cominciato a urlare e sparare in aria. Hanno preso il primo che è capitato loro e lo hanno caricato sulla jeep. Alex sarebbe stato costretto a cambiare auto più volte fino a quando non è stato portato in aperta campagna. Qui i rapitori gli hanno offerto del tè. Ora Alex è libero. Ce l'abbiamo fatta…». Luisa Morgantini, europarlamentare di Rifondazione comunista, tira un sospiro di sollievo per la liberazione del giovane freelance romano. «Abbiamo vissuto dei brutti momenti - ci dice al telefono da Khan Yunes - ma sapevamo che la popolazione civile e i leader di tutti i gruppi palestinesi erano dalla nostra parte e si stavano adoperando per ottenere la liberazione di Alex. Per la gente di Gaza l'opera delle Ong, del volontariato e della cooperazione internazionale rappresentano davvero un punto di riferimento insostituibile, per molti l'unica fonte di speranza». «Secondo molti palestinesi - afferma l'europarlamentare, profonda conoscitrice della realtà dei Territori - dietro la strategia dei sequestri ci sarebbe anche la volontà, maturata all'interno di Al-Fatah, di impedire lo svolgimento delle elezioni legislative». Alex è stato appena liberato. La paura è passata… «Certo, questa brutta vicenda si è conclusa nel migliore dei modi, ma per chi opera nella Striscia di Gaza il sequestro di Alex, ultimo di una lunga serie è un preoccupante campanello d'allarme». Cosa c'è dietro questa strategia dei sequestri-lampo? «C'è innanzitutto una realtà segnata dalla disperazione. Nonostante il ritiro israeliano, Gaza resta un enorme ghetto isolato dal mondo. Il ritiro non ha portato alcun miglioramento sostanziale delle condizioni di vita della gente, che restano disumane: le merci non possono uscire dalla Striscia, gli agricoltori devono svendere i loro prodotti, la libertà di movimento delle persone è ridotta ai minimi termini. Il ritiro israeliano non ha portato più sicurezza, non ha aperto una nuova stagione di libertà a Gaza. L'occupazione israeliana ha peraltro alimentato tra i giovani palestinesi una cultura del prendersi le cose con la forza, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti». E in questa situazione di degrado come agisce la Comunità internazionale? «Semplice: non agisce. Attende gli eventi, aspetta di vedere chi uscirà vincitore dalle elezioni legislative del 25 gennaio prossimo. È una condotta sbagliata, irresponsabile. Perché l'attendismo non fa che accrescere l'insicurezza e alimentare la disperazione». u.d.g.
Segue l'articolo di Daniele Mastrogiacomo su REPUBBLICA:
«A Gaza comandano tutti e non comanda nessuno». Al telefono la voce di Mohamed, la nostra guida, è esasperata. Cerca di minimizzare il sequestro di Alessandro Bernardini, l´ultimo di una lunga serie. Ma ammette che il clima nella Striscia sta ormai rasentando l´anarchia. «Adesso - conferma - è persino rischioso uscire di casa. Non tanto per noi palestinesi, ma per tutti gli stranieri». Liberata dopo 38 anni dagli israeliani che l´avevano occupata, questa lingua di sabbia e terra arida che confina con l´Egitto sembra come abbandonata a se stessa. L´Autorità nazionale palestinese la governa da poco più di tre mesi tra mille difficoltà. Non solo per la presenza dei gruppi ostili ad al Fatah, ma per le condizioni sociali e economiche che la rendono un vero inferno. La disoccupazione rasenta l´80 per cento, i giovani sbarcano il lunario con lavoretti di fortuna, girano tutti armati, si prestano a incarichi di ogni tipo. Le migliaia di pescatori partono quando è ancora buio e rientrano nel tardo pomeriggio con le reti mezze vuote. Israele mantiene il divieto di pescare oltre le 3 miglia; in quella fascia di mare si trova ben poco e quel poco va diviso tra molti. Solo dopo una lunga trattativa l´Anp è riuscita a ottenere il controllo dell´unica porta di accesso al mondo: il valico di Rafah. Ma è proprio questa finestra che si apre all´esterno, monitorata dagli osservatori europei, una delle cause delle crescenti tensioni. Rappresenta il sogno inseguito per anni da decine di migliaia di palestinesi. Da lì si esce per conoscere il resto del pianeta, per andare alla Mecca, per riabbracciare amici e parenti che si sono rifugiati all´estero. È simbolo di libertà, di speranza nel futuro. Ma anche miraggio per il contrabbando. Davanti ad un business che costituisce il 50 per cento dell´economia sotterranea della Striscia, sono centinaia gli stratagemmi per aggirare i controlli. Così, da tre mesi, l´area che confina tra Khan Younis e Rafah, praticamente il centro-sud, è in mano a decine di piccole e grandi bande. Molte sono formate da ragazzotti che si mettono insieme, si armano di kalashnikov e fanno fruttare il loro dominio su una determinata zona: dal traffico di droga, alle armi, fino ai sequestri. Rapimenti a scopo di riscatto, il più delle volte. Ma poi gestiti dai gruppi più organizzati, come le Brigate al Aqsa, che alzano il tiro per ottenere posti di lavoro, stipendi promessi e non mantenuti, inquadramenti nelle strutture della sicurezza, liberazione di detenuti. La rivolta è dentro il palazzo del potere. Ma il caos che si è creato a Gaza non è casuale. Le grandi organizzazioni politiche, come la Jihad islamica, i Comitati di resistenza popolare, la stessa Hamas, usano questo scenario per mettere in difficoltà il gruppo dirigente di Abu Mazen. Il movimento di al Fatah, da sempre maggioritario nell´Anp, è sotto tiro. Lo è a Ramallah, dove le giovani leve, guidate da Marwan Barghouti e appoggiate da ministri come Mohamed Dahalan e Jibril Rajoub, hanno messo in minoranza la vecchia guardia e imposto nomi del tutto nuovi nella lista che si presenterà alle elezioni del 25 gennaio. E lo è a Gaza city, con i poliziotti esasperati dagli ordini contraddittori del governo, dai salari bassi e non sempre puntali, e da una preparazione che si deve ancora perfezionare. Due giorni fa, dopo la morte di un loro collega, cento agenti hanno sfilato sotto casa di Abu Mazen esplodendo rabbiose raffiche di mitra in aria: avevano provato ad arrestare un trafficante di droga e auto rubate, ma il clan del sospetto si è armato ed ha assaltato il commissariato, uccidendo un agente e l´uomo arrestato. Da sempre critica nei confronti dell´Autorità, Hamas resta a guardare. Si dedica alle elezioni, dove pensa di riscuotere un forte successo. Lo fa con una disciplina etica e militare che la rende affidabile agli occhi della gente. Per formare la sua lista elettorale, ha puntato su persone irreprensibili e stimate, spesso estranee al movimento. Al Fatah ha invece insistito sugli uomini di apparato, accusati di corruzione e di nepotismo. Quanto alla Jihad islamica (legata a Damasco), con i suoi Comitati di resistenza, continua a lanciare i suoi razzi Qassam su Israele (ieri ne ha lanciati altri tre). Risultato, la creazione da parte di Israele di una «terra di nessuno» che ha sottratto altri 20 chilometri quadrati agli abitanti di Gaza. Per la Jihad è un successo. È fuori dalle elezioni, non parteciperà al voto, e il suo obiettivo è far saltare ogni ipotesi di negoziato.
Seguono le dichiarazioni di Yasha Reibman,portavoce della Comunità ebraica di Milano:
( p. sal.) «Sono persone strabiche in partenza, difficilmente cambiano opinione». Yasha Reibman, portavoce della Comunità ebraica di Milano, non è sorpreso dalle dichiarazioni del giovane rapito ieri a Gaza. «Intendiamoci, umanamente provo solidarietà. Però a Gaza non si va per turismo e un po' di "sindrome di Stoccolma" me l'aspetto. La lettura statica degli avvenimenti non permette di vedere la realtà: che Israele è l'unica vera democrazia della regione. Che chi ha rapito il giovane non è israeliano, e l'occupazione di Gaza appartiene alla storia, dopo il ritiro voluto da Sharon con il consenso della società civile in Israele". Per il portavoce degli ebrei milanesi occorre puntare l'indice sui responsabili .E' il terrorismo a distruggere la società palestinese. Sono le bande armate che agiscono in stile paramafioso a schiacciare ogni speranza di pacificazione. L'Europa vuole essere presente ? Allora aiuti Abu Mazen concretamente, dandogli forza per imporre la propria autorità". Infini un paragone storico con gli anni che portarono alla nascita di Israele: "Abu Mazen deve fare come Ben Gurion, che disarmò gli estremisti dell'Irgun per imporre un'unica autorità nazionale. Anche in Palestina dovrà esserci un solo fucile: quello dello Stato".
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