Il Manifesto di venerdì 30 dicembre 2005 pubblica la poco credibile testimonianza di Vittorio Arrigoni, il "pacifista" italiano espulso da Israele sulla base di informazioni di intelligence provenienti dai nostri servizi segreti. Senza entrare nella valutazione delle affermazioni di Arrigoni, smentite da Israele e a quanto pare anche dall'Italia, ci limitiamo a rilevare che il suo stesso racconto non giustifica certo l'uso di parole come "torturato", scelta dal quotidiano comunista per il titolo della testimonianza, o "macello", adoperata dallo stesso Arrigoni. Inoltre, l'intervento della polizia israeliana, nella testimonianza di arrigoni sarebbe seguito alla sua resistenza: in ogni caso, dunque, non vi sarebbe stato nessun pestaggio a freddo.
Circa le considerazioni politiche del "pacifista" italiano, secondo il quale Israele avrebbe tutto da guadagnare dalle "conferenze sulla nonviolenza" organizzate dagli internazionali, ci limitiamo a chiedere: perché, tanto per incominciare questi ultimi non inziano una qualsiasi forma di lotta nonviolenta al terrorismo palestinese? Gandhi, quando voleva bolccare le violenze contro gli inglesi o contro i musulmani da parte degli indù, faceva lo sciopero della fame. Gli "internazionali" fanno delle conferenze che sono vetrine dell'odio antiisraeliano e per il resto si preoccupano di difendere dai buldozer di Tsahal le case dei famigliari dei terroristi suicidi. Non è proprio la stessa cosa. Ecco il testo:
Sono ancora intorpidito, tornato da qualche ora in Italia, stamane (ieri per chi legge ndr) risvegliandomi a casa, fra la mia famiglia, ho tratto un sospiro di sollievo. Ma permane lo sconforto per non trovarmi laddove avrei dovuto essere. Avevo tutte le buone intenzioni e la ragioni, e il diritto di oltrepassare il confine israeliano, invitato ad una conferenza internazionale sulla non violenza. Avevo raccolto dei soldi per un orfanotrofio di Tulkarem, cui rimango affezionato, e alcune famiglie con cui ho condiviso in passato lutti, disgrazie e speranze, mi aspettano ormai da due anni. Sono stati giorni difficili, di tremendi sacrifici, specie dopo che sono stato messo in una cella in isolamento con una telecamera fissata sulla mia branda, 24 ore al giorno, sottoposto a privazioni fisiche e intimidazioni psicologiche.
Il mattatoio mercoledì 21. Nonostante avessimo più volte comunicato al capo del centro di detenzione in cui siamo stati rinchiusi, la nostra ferma intenzione di non lasciare Israele prima di apparire dinanzi alla corte, e che un avvocato stava lavorando per far sì che ciò avvenisse in tempi brevi (cosa che poi puntualmente è accaduta) il pomeriggio di mercoledì poliziotti con fare molto aggressivo si sono presentanti nella cella per portare via Michael, rispedirlo in Inghilterra. Michael allora si è accucciato nel centro della stanza, rifiutandosi di collaborare, richiedendo più volte - e io con lui - di contattare il nostro avvocato. A questo punto i poliziotti ci hanno urlato che erano autorizzati a portarlo via con la violenza. Io so che Michael, sulla cinquantina, ha problemi alle ossa delle gambe, per cui ero molto preoccupato non si facesse male. Nel momento in cui i poliziotti provavano ad afferrarlo, mi sono interposto fra lui e loro, richiedendo a gran voce il mio diritto di contattare il consolato italiano. La risposta di un poliziotto è stato una ginocchiata ai testicoli. Hanno cercato allora, ammanettandomi un polso, di trascinarvi via dalla stanza ed io con tutte le mie forze, in maniera non violenta, ho cercato di impedirglielo, aggrappandomi agli angoli del muro, ai piedi del letto.
Hanno cominciato a colpirmi duramente, con calci e pugni, soprattutto sulla schiena. Una volta riusciti a trascinarmi nel corridoio, la violenza da parte dei poliziotti è aumentata (Michael mi dirà in seguito che erano sette a «occuparsi» di me) Nonostante il mio fisico atletico sono cardiopatico, (seguo una terapia che prevede l'assunzione di 2 pillole al giorno).
Schiacciato a terra e malmenato da diversi poliziotti, ho iniziato ad avere problemi di respirazione, gridavo di lasciarmi, ma loro non demordevano. Quando infine ho avvertito una fitta al cuore, la mia preoccupazione si è fatta panico. Sono riuscito ad allungarmi e ad afferrare un vetro dal pavimento, una cornice di un quadro che nel frattempo cadendo era andata in frantumi. Essendo una persona non violenta, piuttosto che muovere violenza verso qualcuno sono disposto a infliggermela a me stesso. Allora ho iniziato a tagliarmi, prima il viso, poi un braccio, infine la mano, pensando che la vista del sangue placasse la ferocia dei mie aguzzini. E così infatti, dopo alcuni minuti, i poliziotti hanno mollato la presa, mi hanno permesso di prendere la mia medicina per il cuore e un'ambulanza mi ha condotto in ospedale, dove accertamenti concluderanno poi che la fitta non è il cuore ma uno strappo al muscolo pettorale dovuto ai maltrattamenti subiti.
Mi hanno ricucito anche alcuni tagli sulla mano, ma in maniera rozza, senza disinfettare le ferite, tanto che il giorno dopo si sarebbero infettati. Ma quando ho mostrato la mano ai poliziotti dall'oblò della mia cella, questi mi hanno risposto che loro non erano dottori, che mi arrangiassi. Coi denti sono stato costretto allora a rimuovere da solo i punti di sutura. Per tutto il tempo prima, durante, e dopo l'«incidente» ho continuamente richiesto di esercitare il mio diritto a contattare il mio avvocato e il consolato italiano, inutilmente. «Adesso non è possibile», la risposta ai miei continui appelli.
Di ritorno dall'ospedale, a cui sono stato condotto incatenato braccia e gambe a una barella manco fossi un pericoloso criminale, un poliziotto mi ha detto che potevo telefonare al mio console, sì ma una volta arrivato in Italia! I medicinali per curare la mia cardiopatia mi sono stati requisiti dalla polizia e mai più restituiti. Per due giorni ho subito privazioni di cibo, e nella mia cella è stato spento il riscaldamento. Non ho potuto né lavarmi né cambiarmi i vestiti incrostati di sangue. Sino a quando il console italiano, avvertito dal mio avvocato a suo volta avvisato da uno dei miei compagni reclusi che hanno assistito alla scena, non è arrivato al centro di detenzione a ristabilire i miei diritti. Sono grato per tutto l'operato del console Andrea de Felip a mio favore, nel difendere i diritti di un cittadino italiano non incriminato per nulla.
Durante un interrogatorio nel quale insistentemente mi si chiedeva, il perché avessi preso le difese di una persona che non è un mio amico, che conosco solo da pochi giorni, la mia risposta è stata più volte per «umanità», per «senso di umanità». Insistevano a non capire. Sono seguiti giorni difficili di isolamento sino a martedì 27, quandoci siamo presentati dinanzi alla corte israeliana. Ma la sentenza era già scritta, storia vecchia. Ho avuto sentore di tutto questo il giorno prima, quando nella mia cella, ho ricevuto la visita, sgradita visita, di un uomo in borghese che con fare arrogante ha iniziato a tempestarmi di domande. Alla mia richiesta di identificazione, l'uomo dopo qualche tentennamento si è definito un membro dei servizi (intelligence). E ha concluso il suo interrogatorio chiedendomi se realmente mi illudevo che l'indomani il giudice avrebbe potuto emettere una sentenza a nostro favore.
Le motivazioni con cui il giudice ci ha rifiutato un visto per entrare in Israele, rasentano il ridicolo. Dalla sentenza del giudice infatti si desume che dall'Italia siano giunte informazioni a riguardo di un mio coinvolgimento attivo in una rete internazionale radicale vicino agli anarchici. Premesso che abbracciare un'ideologia anarchica, non mi risulta essere di per sé un crimine, non ho mai avuto a che fare nella mia vita con movimenti anarchici.
Vivo un vita tranquilla, sono una persona piuttosto solitaria che trascorre le ore libere dal lavoro con gli amici, o accompagnandomi a un buon libro. Non svolgo alcuna attività politica qui in Italia, se si esclude la gestione di un blog in cui cerco di riflettere sui temi della cronaca quotidiana. (http://guerrillaradio.iobloggo.com/) Una volta all'anno parto per partecipare a progetti umanitari fuori dall'Italia in cui presto il mio lavoro volontario. Sono stato in Europa dell'Est e in Africa, a costruire orfanotrofi, ostelli per senza tetto, ristrutturare ambulatori, centri comunitari. In Palestina aderisco ai progetti dell'International Solidarity Movement (Ism), perché li ritengo al momento i migliori per lo stato di urgenza dovuta all'occupazione israeliana, ma mi sento libero anche in futuro di partecipare ad altri progetti con altre organizzazioni.
Tutto ciò mi fa pensare alla vera utilità svolta dai servizi di intelligence nei vari paesi, a quella mano oscura di così arguti da non riuscire a sventare clamorosi attentati, tutti intenti a redigere dossier palesemente inventati per donare una parvenza di giustificazione che dia il via a questa o quella guerra. Gli stessi servizi, che dall'Italia hanno passato informazioni totalmente false a Israele riguardo alla mia persona. Il giudice ha anche sentenziato che in passato io e i miei compagni avremmo partecipato a manifestazioni violente nella West Bank. Anche questo è falso, alle uniche manifestazioni in Palestina contro il muro dell'apartheid a cui ho assistito, la mia presenza era in loco solo come osservatore di diritti umani, e in questi casi ho dovuto denunciare che le violenze giungevano dai soldati israeliani armati, piuttosto che da civili palestinesi disarmati.
Nonostante l'esito negativo della sentenza emessa dalla corte, continueremo a percorrere ogni via legale e lecita per cercare di spezzare questa catena di apartheid, questa continua illecita e illegale discriminazione promossa da Israele verso attivisti pacifisti e operatori umanitari. Israele deve capire che la presenza di internazionali in Palestina, che lavorano per la pace, non è una minaccia, ma appunto un incentivo al processo di pace fra palestinesi e israeliani. Che da una conferenza internazionale sulla non violenza Israele ha tutto da guadagnare, allorché la resistenza palestinese decidesse di adottare strategie ghandiane. Non è isolando la Palestina che Israele costruisce la sua sicurezza. Israele deve capire che la presenza di cittadini italiani, inglesi, spagnoli o americani in Palestina funge da deterrente alle continue violazioni dei diritti umani da parte dell'esercito israeliano, e da ciò ne trae beneficio Israele stesso, perché violenza genera sempre violenza, e una Palestina libera dall'occupazione militare sarebbe la migliore garanzia di sicurezza per i cittadini isrealiani.
Mentre alcuni media, rappresentano una visione del conflitto in cui Sharon e il suo governo avrebbero bruscamente virato per una politica di pace, noi che in Palestina ci mettiamo costantemente piede, sappiamo che il muro dell'apartheid continua a essere costruito, che la terra palestinese viene continuamente confiscata, che alle colonie evacuate da Gaza è corrisposta una maggiore espansione coloniale nella West Bank, che l'occupazione militare è causa di miseria e morte a tutte le ore nella vita di ogni palestinese. La criminalizzazione della pace deve essere impedita. Per questo non abdichiamo, continueremo a cercare di varcare i confini israeliani con il nostro messaggio pacifista, e in questi giorni altri volontari si stanno muovendo, pronti a partire, ben consci che i giorni di prigionia a cui siamo esposti non sono nulla in confronto alle atroci sofferenze che i detenuti palestinesi subiscono nelle carceri israeliane illegali sparse su territorio palestinese.
Dopo questi giorni per me così provanti, raccolgo ciò che di positivo se ne è tratto. Perché se sia qui in Italia, che in Australia, che in Inghilterra, questo problema è stato risollevato, se qualche coscienza è stata risvegliata, se l'ingiusta giustizia israeliana si è trovata imbarazzata nel dichiarare colpevoli dei pacifisti innocenti, il nostro «sacrificio» non è stato per niente vano. Soprattutto, se uomini politici, senatori e parlamentari attualmente all'opposizione, si sono interessati al mio caso, ciò è di buon auspicio per possibile nuove azioni qualora ci sia un passaggio di potere al governo. Perché ciò che mi ha più sconsolato, più delle umiliazioni e delle intimidazioni nel mio periodo di detenzione, è stata proprio l'immobilità dell'attuale governo nei confronti di un suo cittadino ingiustamente incarcerato. Dovessi trovarmi in futuro in una situazione simile, voglio sperare di poter essere assistito da un governo meno interessato a interessi strategico-militari e più coinvolto nella lotta per il rispetto dei diritti umani.
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