Inizia come una riflessione sulle conseguenze politiche dei problemi di salute di Sharon, l'editoriale di Sandro Viola pubblicato da La Repubblica di giovedì 29 dicembre 2005. Prosegue mettendo sotto accusa l' "unilateralismo" della politica di Sharon. Che non è priva di giustificazioni, ammette Viola, data l'incapacità ad imporsi sui gruppi terroristici dimostrata da Abu Mazen. Un'ammissione che serve però solo a sostenere, attraverso le parole del filosofo israeliano Avishai Margalit, la liberazione di e la trattativa con Marwan Barghouti, leader più autorevole, ma (piccolo particolare trascurato da Viola e da Margalit ) protagonista dell'offensiva terroristica della "seconda intifada". si conclude ipotizzando in un prossimo futuro una nuova violenta offensiva terroristica antisraeliana e il conseguente stallo dei negoziati. In vista di tali avvenimenti Viola mette subito le mani avanti: solo un accordo di pace che "stabilisca i confini dei due Stati, risolva il problema Gerusalemme, assicuri ad Israele il suo diritto alla sicurezza e renda giustizia, dopo quasi mezzo secolo, al popolo palestinese" darebbe a Israele il diritto morale e politico di difendersi dagli attacchi palestinesi.
Una posizione sconcertante per la sua esplicitezza e per la noncuranza con la quale viene enunciata (in una parentesi) e che per giunta dimentica un dato storico decisivo: a Camp David Israele aveva offerto ai palestinesi precisamente l'accordo invocato da Viola. E' dal loro rifiuto che ha avuto origine la successiva fase di guerra e disimpegni unilaterali.
Ecco il testo:
A sentire i medici che lo curano per l´ictus di cui ha sofferto a metà dicembre, Sharon dovrà perdere al più presto una quarantina dei suoi 121 chili. Un risultato già difficile per un anziano pensionato che potesse dedicarsi interamente alla dieta e al "footing", ma ancor più difficile per un quasi ottantenne che oggi governa – e molto probabilmente governerà anche dopo le elezioni di marzo – in uno dei contesti politico-strategici più aspri e instabili del mondo.
Nessun dubbio quindi che le condizioni di salute di Sharon (un leggero intervento al cuore, definito "di routine", è previsto per i prossimi giorni) rappresentino ormai la questione cruciale della vita politica israeliana. Uno dei temi più scottanti della campagna elettorale, che gli avversari del primo ministro, e prima di tutti il demagogo Netanyahu, sfrutteranno sino in fondo e senza il minimo scrupolo. Un brusco, radicale rimescolamento era avvenuto a novembre sulla scena politica israeliana.
Sharon s´era staccato dalle destre per varare il nuovo partito Kadima, da lui stesso etichettato come "centrista", e negli stessi giorni era asceso alla guida del Labor il sindacalista Amir Peretz, contrario al mantenimento dell´occupazione dei Territori palestinesi. Quel mezzo terremoto aveva fatto credere che nell´interminabile conflitto mediorientale si fosse di nuovo aperto uno spiraglio, stavolta ampio e forse decisivo.
L´argomento "sicurezza", con cui la destra aveva sempre giustificato il perdurare dell´occupazione, sembrava infatti passato in secondo o terzo piano.
Peretz avrebbe condotto la campagna elettorale sui problemi sociali del paese, e quanto al nuovo partito "centrista", il suo slogan suonava promettente: "Sharon, un leader forte per la pace".
Ma oggi lo spiraglio che s´era aperto sembra pian piano richiudersi. Intanto, l´incertezza sulle condizioni di salute di Sharon e gli eventuali effetti che potrà avere sull´elettorato.
Poi la natura del suo nuovo partito, dove stanno confluendo – per tema d´affondare alle elezioni insieme al Likud – molti gagliardi campioni della destra, a cominciare dal ministro della Difesa Shaul Mofaz. E poiché è evidente che non basta passare da un partito a un altro per trasformarsi da partigiani del Grande Israele in pacifisti intenzionati ad un accordo con i palestinesi, bisogna chiedersi quale sarà realmente la linea Sharon all´indomani delle elezioni.
«La mia impressione», mi diceva giorni fa a Gerusalemme lo storico Zeev Sternhell, «è che il fatto indiscutibilmente nuovo nel mondo politico israeliano sia l´avvento di Peretz al vertice del Labor. Dopo tanto tempo un uomo di sinistra alla guida del partito di sinistra, ciò che avrà risultati concreti sulla politica sociale del paese. Ma per quanto riguarda il conflitto con i palestinesi, le speranze restano molto labili. Un accordo sarebbe infatti possibile solo a queste condizioni: il nostro ritiro dalla valle del Giordano, il ritorno ai confini del ‘67 (eventualmente modificati, ma di poco), la spartizione di Gerusalemme. E non mi sembra proprio che Sharon e il suo nuovo partito si propongano un´intesa del genere».
è vero: Sharon ha rotto con la destra e con i coloni, e la società israeliana, stanca del fanatismo dei sionisti religiosi – oltre che dell´enorme spreco di risorse richiesto dal mantenimento delle colonie – è con lui. Ma da molti segni sembrerebbe che una sorta di rottura sia stata operata anche nei confronti dei palestinesi: nel senso che eventuali nuovi sgomberi dai Territori, il tracciato dei confini definitivi d´Israele, la questione di Gerusalemme, tutto verrà pensato e deciso dal solo governo israeliano. In modo unilaterale, cioè, né più né meno com´è stato per il ritiro da Gaza.
"Sharon, un leader forte per la pace", lo slogan del nuovo partito Kadima, andrebbe quindi inteso unicamente in questo senso: la pace come una serie di passi unilaterali, un progressivo "disengagement" tanto dai coloni (dalla gran parte delle colonie, ma non dagli insediamenti più vasti e popolosi) quanto dai palestinesi. Del resto, che cos´è il Muro se non l´annuncio e il simbolo di questa politica? Sharon ha rinunciato, certo, al sogno d´una Grande Israele: ma non per giungere a una pace negoziata che comporterebbe rinunce (la valle del Giordano, i territori palestinesi ormai inglobati dal Muro, e soprattutto Gerusalemme) cui non è e non sarà mai disponibile.
Non che la sua riluttanza a trattare con l´Autorità palestinese sia del tutto priva di giustificazioni. Un rapporto dell´ "intelligence" militare israeliana sosteneva giorni fa che la popolarità di Abu Mazen tra i palestinesi, è oggi al punto più basso da quando è subentrato ad Arafat. E circolano addirittura voci che voglia dimettersi. In effetti i suoi ordini non vengono eseguiti, la sua impotenza nei confronti delle azioni armate della Jihad islamica è ormai evidente, e nel frattempo Hamas ha colto successi clamorosi nelle elezioni municipali. Così, tutto fa pensare che se anche le elezioni per il parlamento palestinese del 24 gennaio si dovessero tenere (mentre è possibile che vengano rinviate) il problema dell´»interlocutore palestinese», dei leaders con cui Israele possa negoziare e intendersi, rimarrebbe sul tappeto. Quanto meno come pretesto per rinviare all´infinito la trattativa.
Mi spiegava Avishai Margalit, filosofo della politica e coautore con Ian Buruma d´un libro, "Occidentalismo", che nei mesi scorsi ha avuto un largo successo in America e in Europa: «La condotta d´Israele nei Territori ha letteralmente annichilito la società palestinese e la credibilità della sua leadership. Sicché a questo punto i soli interlocutori validi per una trattativa, gli uomini cui va il rispetto e il consenso del loro popolo, andrebbero cercati nelle prigioni. Lo fecero i francesi con Ben Bella, gli inglesi con i capi dell´Ira, e i sudafricani con Mandela. Perché non dovrebbe farlo Israele con Marwan Barghuti, in prigione con una condanna all´ergastolo ma di sicuro il leader più popolare della nuova generazione?».
Con un altro intellettuale prestigioso, Menahem Brinker, ragionavamo sui pericoli che anche questa fase per molti versi favorevole a un negoziato definitivo, possa trascorrere senza sostanziali risultati. Brinker è convinto che un governo di coalizione Sharon-Peretz procederà a nuovi ritiri dai Territori:
«La necessità di trasferire nella spesa sociale le risorse oggi destinate alle colonie», diceva, «si porrà subito e con molta forza dopo il varo del nuovo governo. E questo vuol dire lo sgombero di altri insediamenti».
Ma se un´intesa finale con i palestinesi tarderà ancora, il rischio è che il contesto della regione torni ai suoi giorni peggiori. L´inevitabile ritiro americano dall´Iraq (fra due, tre anni al massimo) galvanizzerà infatti i radicali di tutti i paesi islamici, e per primi quelli di Teheran. Li spingerà a un maggiore coinvolgimento nel probabile caos iracheno, ad accrescere il sostegno agli Hezbollah libanesi, aprendo così nuove strade ad Al Qaeda. La minaccia terroristica contro Israele si dilaterà. E negoziare mentre si susseguono gli attentati sarà assai più arduo di quanto non sarebbe adesso.
Insomma: bisogna augurarsi uno Sharon in buona salute e la sua vittoria alle elezioni di marzo, magari con una buona affermazione del Labor di Amir Peretz. Ma la contesa sulla Palestina si placherà soltanto con un accordo di pace che stabilisca i confini dei due Stati, risolva il problema Gerusalemme, assicuri ad Israele il suo diritto alla sicurezza e renda giustizia, dopo quasi mezzo secolo, al popolo palestinese. E un simile accordo (la sola condizione che darebbe ad Israele il diritto politico e morale di reagire quando i palestinesi dovessero violarlo) sembra lontano come sempre.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.