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La Repubblica Rassegna Stampa
24.12.2005 Il contributo di Sandro Viola alla disinformazione "natalizia"
se mancano le luminarie a Gerusalemme la colpa è di Israele

Testata: La Repubblica
Data: 24 dicembre 2005
Pagina: 41
Autore: Sandro Viola
Titolo: «L anatività scomparsa nella Gerusalemme delle mille chiese»

La Repubblica di sabato 24 dicembre 2005 pubblica un articolo di Sandro Viola dedicato alla celebrazione del Natale a Gerusalemme.

  A Gerusalemme la comunità cristiana, per altro divisa al suo interno in una miriade di diverse chiese e confessioni, non celebra il Natale in modo altrettanto visibile che a Roma  o nelle altre capitali europee. Il numero dei fedeli si assottiglia. E la colpa, come dubitarne, per Sandro Viola è in gran parte del "fanatismo ebraico" , del quale padre Michele Piccirillo, senza "drammatizzare" ci fornisce una prova: gli sputi che riceve dai bambini di Mea Shearim, il quartiere delle comunità ultraortodosse ( e largamente minoritarie). Ci sembra lecito dubitare che gli episodi, posto che siano veri, riflettano l'atteggiamento di tutta quella comunità, e ancor meno della società israeliana. Un altro esempio del presunto "fanatismo" ebraico è fornito dalla "foga con cui gli ebrei ortodossi si vanno appropriando degli edifici, le botteghe, i suoli edificatori che erano restati sino a ieri dei cristiani". Viola dovrebbe precisare se questa "appropriazione" avviene con la forza o attraverso transazioni commerciali...

Complessivamente dell'articolo colpisce l'assenza di qualsiasi cenno al fatto che Gerusalemme è  santa anche, e soprattutto, per gli ebrei. Un fatto storico e spirituale che andrebbe preso in considerazione, quando ci si lamenta del carattere "ormai esclusivamente ebraico" della città: una falsità, perchè Israele garantisce, a Gerusalemme come in tutto il suo territorio, la libertà religiosa. La fuga dei cristiani è dovuta a fattori certamente diversi da quello indicato da Viola. Egli stesso vi accenna, ma senza approfondire: il conflitto scatenato dal terrorismo palestinese, la minaccia del fondamentalismo islamico.

( a cura della redazione di Informazione Corretta) 

Ecco il testo: 

Gerusalemme
Natale? In tutta Gerusalemme, da Est a Ovest, tra la Città Vecchia e la nuova, non se ne scorge un solo segno. Non decorazioni nelle strade, non addobbi nelle chiese. Dopo aver girato la città su e giù per vari giorni cercando un qualche annuncio o simbolo del Natale imminente, vedo che sul mio taccuino ci sono due soli appunti: i francescani che al convento della Flagellazione, mercoledì scorso, avevano tirato fuori ma non ancora aperto le scatole con i pezzi del Presepe, e sei o sette panettoni Motta esposti in una bottega sulla via dei Cristiani. Nient´altro.
La culla della cristianità, coacervo di luoghi santi, basiliche, patriarcati, arcivescovati e vescovati, monasteri, conventi e scuole bibliche, una città con quattordici diocesi - e quindi, dopo Roma, la maggiore densità episcopale al mondo - non celebra la festa della Natività. O almeno, non come la si celebra ovunque nell´Occidente cristiano.
Gerusalemme trabocca di Chiese, riti e gerarchie ecclesiastiche perché è il deposito - qua e là più malandato e polveroso che toccante - del cristianesimo delle origini. L´archivio di quasi venti secoli di dispute cristologiche, il terreno su cui si sono aggrovigliati dall´Alto Medioevo in poi gli scismi, le contese sui calendari, le primazie nazional-religiose, le bagarre sul possesso dei luoghi sacri, le rivalità archeologiche. Nei diari dei governatori inglesi al tempo del Mandato, tra il 1920 e il ‘48, ci sono sempre due o tre passaggi in cui quei bravi funzionari di Sua Maestà britannica confessavano di non riuscire assolutamente a raccapezzarsi nel ginepraio delle Chiese cristiane d´Oriente e d´Occidente. Qui le Chiese orientali separate, l´armena, la copta, l´etiope, la siriana. Lì i cattolici di rito latino. Lì ancora i cattolici di rito orientale, greci, armeni, siriaci, caldei, copti, maroniti. Infine gli ortodossi di rito greco, russo e rumeno.
Nessuna meraviglia, quindi, che anche la mia testa sia in questi giorni un po´ confusa. E nessuno scandalo se mai uno specialista della materia dovesse trovare in questo articolo uno o più svarioni. Perché il garbuglio è tanto fitto da risultare, per l´ultimo arrivato, impenetrabile. Tra l´altro, a me tocca tener presente, nel conto delle Chiese cristiane di Gerusalemme, un capitolo che ai governatori inglesi era assai meglio conosciuto, vale a dire l´insieme delle Chiese e sette protestanti: anglicani, luterani, battisti, avventisti del settimo giorno, presbiteriani, mennoniti, pentecostali. Tutti col loro vescovato o chiesa o cappella, o semplice sede di due stanze.
Ma se il calcolo numerico delle denominazioni è difficilissimo da tenere, in compenso la varietà e disparità dei cleri cristiani di Gerusalemme è lampante. Addirittura teatrale. Come sono diversi, infatti, gli uni dagli altri. Da quale immenso, fantasioso guardaroba quei cleri hanno tratto i loro mantelli e copricapi, le vesti talari, le tonache e le mitrie, i collari, i medaglioni, gli anelli. E perciò, che spettacolo sugli acciottolati della Città Vecchia: quanti straordinari e coloriti colpi d´occhio andando in giro nei quartieri cristiani all´interno delle mura ottomane.
Archimandriti e arcivescovi nelle loro vesti pittoresche, le pesanti e lucenti croci sul petto, i grandi anelli alle dita; giovani preti ortodossi con i lunghi capelli raccolti a coda di cavallo, siriaci e copti col mezzo turbante, armeni col copricapo a trapezio di seta nera, Abuna abissini con la cuffia decorata di piccole croci bianche, francescani con il saio svolazzante.
Mentre alla porta di Jaffa prendo il caffè con George Hintlian, un intellettuale armeno, escono maestosi da un´automobile l´arcivescovo della Chiesa ortodossa etiope, Sua Eccellenza Abba Cuostos, e i suoi assistenti. Dalle scale del patriarcato greco-ortodosso vedo scendere di corsa, l´alto cilindro nero sulla testa, la barba sale e pepe lunga sino alla cintola, Sua Beatitudine il patriarca Teofilos III. Sulla spianata del Santo Sepolcro, sfila inturbantato un breve corteo di dignitari della Chiesa copta. Alla Cattedrale russa sul monte degli Ulivi, le suore sono vestite come vestono le suore nelle rappresentazioni del Boris Godunov all´Opera. E tutto questo mentre vado visitando francescani, Padri Bianchi, domenicani, preti armeni, vescovi siriaco-cattolici e cattolici melkiti di rito ortodosso.
Perciò la sorpresa. Tante Chiese cristiane, un susseguirsi di luoghi santi, un esercito d´ecclesiastici, e niente Natale. Dalla porta dei Leoni i pellegrini imboccano la via Dolorosa, sulla via dei Cristiani le botteghe di souvenirs sono tutte aperte, qua e là suonano le campane delle chiese: ma della Natività neppure l´ombra. È vero, c´è l´intrico dei calendari: i cattolici seguono il gregoriano, che stabilisce la nascita di Gesù nella notte del 24 dicembre; gli ortodossi il calendario giuliano, che la colloca al 6 gennaio; mentre gli armeni la celebrano - non saprei dire perché - il 17. E tuttavia resta sconcertante che l´imminenza del Natale non si palesi in alcun modo. Al Santo Sepolcro, per esempio.
Beninteso, siamo sul luogo della passione, morte e resurrezione del Cristo, una quindicina di chilometri dalla grotta della Natività. Ma a tre giorni dalla festa più celebrata dai cristiani, nell´immensa Basilica non c´è una stella cometa, un simulacro di Sacra Famiglia, una culla in paglia d´argento pronta ad accogliere il bambinello. Nulla di nulla.
Una breve coda avanza lentamente, sorvegliata da un grasso pope ortodosso, verso la Rotonda del Sepolcro. Una decina di giapponesi fotografano instancabili, un francescano e una suora guidano un gruppo di garruli pellegrini abruzzesi, i preti armeni spazzano i tappeti del loro pezzo di basilica. Insomma, un giorno come gli altri. Ma qui colgo per la prima volta, e in modo già abbastanza nitido, come si stiano facendo scarsi i cristiani in quella che chiamiamo Terra Santa: la Gerusalemme oggi interamente ebraica, i territori palestinesi, la Giordania. Come si stiano paradossalmente rovesciando le proporzioni tra clero e fedeli, con un clero ormai sin troppo numeroso rispetto all´esiguità della popolazione cristiana rimasta nell´antica Palestina.
Nelle due cappelle copta ed etiope della Basilica del Santo Sepolcro, è l´ora della messa. In quella copta, un buco nero appena rischiarato da qualche candela, officiano a bisbigli due sacerdoti, entrambi molto anziani e intabarrati sino al collo per proteggersi dal freddo. Officiano per sé stessi, visto che sui pochi banchi della cappella non c´è un solo fedele. Lo stesso è nell´ancora più angusta cappella abissina, ricavata su un pianerottolo cui s´accede dopo una rampa di scale. E lo stesso - duecento metri più in là del Santo Sepolcro - a San Marco, la piccola chiesa dei siriani ortodossi. A San Marco la messa è in aramaico, il rito e i canti sono suggestivi, ma quanto alla presenza di fedeli è come dai copti e abissini. Non c´è nessuno. Tre preti che officiano, due chierichetti che incensano, e la chiesa vuota.
Terminata la messa, una specie di monaca di nome Giustina illustra la storia e le mirabilia del luogo. Lo fa insistendo continuamente sull´uso dell´aramaico nella liturgia siriano-ortodossa, e ogni volta che pronuncia la parola «aramaico», subito aggiunge petulante: «La lingua di Gesù». Ecco quindi affiorare le antiche rivalità, le contese sulle primazie - e le dissennate vanterie - che lacerano i cristiani di Terra Santa. Quella precisazione sistematica - «La lingua di Gesù» - non è solo, infatti, un atto di fede: è anche, se non soprattutto, una sfida alle fedi altrui. Vuol dire che se i siriaco-ortodossi hanno conservato nella loro liturgia l´aramaico, è perché sono loro, non gli altri cristiani, i più contigui al Cristo.
E non è finita. Attenzione, dice quasi proterva la monaca: il Cenacolo sul Monte Sion, che cattolici e greci-ortodossi mostrano a tanti creduli pellegrini, non è il vero Cenacolo. È qui, non lì, che si svolse infatti l´Ultima Cena. Quindi la monaca fa strada verso il sottosuolo, dove s´apre una stanza a volta che dev´essere antichissima, e la indica con un largo gesto della mano: «Fu qui che avvenne per la prima volta la cerimonia dell´eucaristia. Non altrove». M´avvio per andarmene, ma faccio in tempo a sentire che la monaca sta ancora imbonendo la coppia di francesi con cui ero entrato nella chiesa: «Ed è qui che è morta la Vergine Maria».
Questa è la Città Santa. La Chiesa siriaco-ortodossa non vi conta ormai più d´una cinquantina di fedeli, ma la sua contesa con le Chiese degli altri cristiani arde ancora come nell´anno Mille. Né si tratta solo del "vero" Cenacolo o della "vera" casa di Maria. Salvo che per il Sepolcro, quasi tutto resta infatti controverso e disputato, tra cristiani, nella città del Cristo. E se Gerusalemme non è più, come la chiamava Aldous Huxley, «un mattatoio delle religioni» (anche se lo scontro fra ebrei e mussulmani lascia per terra, di quando in quando, un certo numero di morti ammazzati), è vero però che sotto molti aspetti la Gerusalemme cristiana somiglia ancora ad un nido di vipere.
Vado, dopo dieci o dodici anni che ne mancavo, a Betlemme. La Basilica della Natività l´avevo visitata per la prima volta nel gennaio del 1964, durante il viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Il corteo papale stava per arrivare, noi giornalisti lo avevamo preceduto d´una mezz´ora. E lì, la prima cosa che vedemmo nella sacrestia dei francescani fu un frate seduto mogio su una sedia, con attorno un paio di confratelli che gli stavano disinfettando una ferita sulla testa. Sapemmo così che la visita di Paolo VI, la questione degli spazi della Basilica in cui sarebbe potuto passare per recarsi alla Mangiatoia, stava provocando da giorni una rissa furibonda tra i francescani e gli altri condomini della Natività, i greci-ortodossi e gli armeni. Rissa di cui il frate ferito, al quale stavano adesso bendando il capo, era l´ultimo esito.
L´altra mattina torno, come ho detto, a Betlemme, e ci metto poco a capire che dopo tanti anni le cose non sono cambiate. Mi guida nella Basilica un giovane frate messicano, Mattia, nel volto le tracce chiarissime dell´origine india. Scendiamo alla Mangiatoia, e lì il frate mi mostra subito un antico paravento che ha un lungo strappo sul margine destro. Il danno l´hanno fatto pochi giorni fa, racconta, i greco-ortodossi, nel corso d´una lite con i francescani. Le cause dello scontro? «Le solite, le solite», risponde il messicano: «C´era un gruppo di nostri pellegrini, e avevamo posto due candelieri ai lati della Stella d´oro che segna il luogo del lavacro del Bambino, qui davanti alla Mangiatoia. I greci si sono precipitati gridando che i candelabri erano troppo vicini alla Stella, che avevamo sottratto qualche centimetro agli spazi di loro competenza, e alla fine uno di loro ha strappato il paravento. Insomma, abbiamo dovuto chiamare la polizia».
«Tutte queste pietre, tutta questa luce, tutta questa tristezza», dice di Gerusalemme un verso del poeta israeliano Yehuda Amichai. E infatti com´è vano e triste, com´è assurdo e arcaico, l´interminabile litigio tra cristiani sui metri o addirittura centimetri dei luoghi santi affidati - da vecchi patti d´epoca ottomana - a ciascuna Chiesa. E, certo, non è per questo che la comunità cristiana in Terra Santa sta sempre più languendo. Non è per questo che gli arabi cristiani partono ogni anno più numerosi. Le cause - ne accennerò più avanti - sono altre. Ma è vero che non si può fare a meno d´associare mentalmente, malinconicamente, i due fenomeni: da un lato il perpetuarsi nelle Chiese di rivalità e aggressività medievali, dall´altra l´esodo inarrestabile dei cristiani dalla regione. La vastità, imponenza e ostilità reciproca delle Chiese, e il continuo assottigliarsi degli utenti delle Chiese.
Chi volesse approfondire l´argomento, ricorra ad un libro molto ben fatto: Il tramonto del cristianesimo in Palestina, in cui l´autrice, Elisa Pinna, descrive il declino della popolazione cristiana da Gerusalemme alla Galilea. Quanto a me, posso solo riferire le cifre fornitemi da un sociologo palestinese e cristiano, Bernard Sabella, che si occupa da anni del problema. Gerusalemme, dice Sabella, conta più di 700mila abitanti, e i cristiani che ancora vi vivono sono circa 8.500: poco più dell´uno per cento. E più o meno lo stesso è nell´intera Terra Santa, dove si sono ridotti al due per cento della popolazione. Quanto alle cause dell´emorragia, del resto intuibili, le sentirò esporre da vari interlocutori: Sabella stesso, il vescovo della Chiesa siriano-cattolica monsignor Pierre Melchi, i domenicani di Sant´Anna, l´archeologo francescano Michele Piccirillo. L´instabilità politica e la pericolosità della regione, le inquietudini che suscita il diffondersi dell´integralismo islamico in Galilea, a Gaza, in Cisgiordania, e nella Città Vecchia la foga con cui gli ebrei ortodossi si vanno appropriando degli edifici, le botteghe, i suoli edificatori che erano restati sino a ieri dei cristiani. In due parole, la comunità cristiana tra due fuochi. L´armeno George Hintlian si dice infatti convinto che i veri perdenti del conflitto israelo-palestinese siano i cristiani, il vescovo Melchi descrive un´atmosfera resa sempre più pesante «dai due fanatismi» (l´ebraico, cioè, e il mussulmano), padre Piccirillo racconta senza drammatizzare, anzi quasi divertito, come i bambini ebrei lo prendano a sputi quando passa vicino a Mea Sharim, il quartiere degli ultraortodossi.
Una sera parlo di tutto questo con un intellettuale israeliano, laico e pacifista. «Sì», dice: «Sono già vari anni che leggo d´un declino della popolazione cristiana. Ma le statistiche non tengono conto d´un fenomeno assai curioso: i russi che sono venuti in Israele dichiarandosi ebrei, e affollano invece, la domenica, le due chiese russo-ortodosse di Gerusalemme. Vada a dare un´occhiata, resterà stupito. Chi sa: forse non sono ebrei, forse lo sono ed è la nostalgia della Russia a spingerli verso i fasti e la musica della liturgia ortodossa. Ma la cosa certa è che sono migliaia».
Così, lascio Gerusalemme affascinato da questi ultimi due dei suoi tanti paradossi: niente Natale nel cuore della cristianità, e schiere di russi che sono entrati in Israele come ebrei, e invece vanno la domenica ad inginocchiarsi dinanzi alle sante icone della grande chiesa ortodossa sul monte degli Ulivi, donata a Gerusalemme, un secolo fa, dallo zar Nicola II. Quasi un romanzo.

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