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La Stampa Rassegna Stampa
23.12.2005 I pregiudizi e gli errori di Lietta Tornabuoni
testimone della strage di Monaco e spettatrice del film di Steven Spielberg sulla risposta israeliana

Testata: La Stampa
Data: 23 dicembre 2005
Pagina: 29
Autore: Lietta Tornabuoni
Titolo: «Munich, la verità dietro la strage»

La Stampa di venerdì 23 dicembre 2005 pubblica a pagina 29 un articolo di Lietta Tornabuoni sul film Munich di Steven Spielberg. Alcuni passaggi  rivelano molto chiaramente il pregiudizio con il quale la giornalista guarda alla vicenda di Monaco e al conflitto israelo-palestiense nel suo complesso.

Ecco il testo:

 Il nuovo lavoro di Steven Spielberg con Eric Bana, Geoffrey Rush, Mathieu Kassovitz, Daniel Craig (il prossimo James Bond, sinora l'unico 007 biondo), ispirato al libro «Vengeance» di George Jonas, lungo 2ore e 3/4, destinato a uscire in Italia il 27 gennaio 2006 e altrove questo 23 dicembre, è innanzi tutto un bel film d'azione e una riflessione dubbiosa sui comportamenti di Israele nel conflitto perenne con i palestinesi: sarà meglio difendere anche preventivamente, anche a prezzo di violenza e morte, lo Stato d'Israele, oppure essere giusti?

La domanda é posta in modo tendenzioso, dando per scontato che la difesa, anche  preventiva, dal terrorismo e il suo prezzo di violenza e morte siano "ingiusti ". E' chiaro che la Tornabuoni non esprime dubbi, ma certezze. Le quali però si rivelerebbero subito molto fragili non appena ci si fermasse a considerare che il prezzo della mancata difesa  è anch'esso di violenza e morte, subite entrambe da persone innocenti.  

 Si possono dunque immaginare le voci, le critiche, i consigli e le polemiche preventive intorno a «Munich». Il film è così intitolato perché evoca spesso quanto accadde il 5 settembre 1972 alle Olimpiadi di Monaco: la cattura

I criminali vengono "catturati", gli atleti vengono sequestrati. Uno scambio lessicale molto significativo.

 e uccisione di un gruppo di atleti israeliani da parte di un gruppo di palestinesi autobattezzatisi Settembre Nero. I rapitori uccisero due atleti durante l'azione; chiesero, in cambio della vita degli altri ostaggi, la liberazione di 234 prigionieri chiusi nelle carceri israeliane, di Andreas Baader e Ulrike Meinhof prigionieri in Germania; le trattative proseguirono per ore, fino a trovare un accordo; rapiti e rapitori furono portati all'aeroporto, dove con una sciagurata iniziativa la polizia tedesca attaccò rompendo gli accordi una caotica sparatoria nella quale morirono gli ostaggi, cinque dei loro rapitori, un poliziotto tedesco.

L'iniziativa tedesca fu sciagurata perché condotta con terribile pressapochismo, non certo perché ruppe "accordi" estorti con la violenza più efferata. Va inoltre notato che in tutto l'articolo la Tornabuoni non spende un solo aggettivo per qualificare la feroce "iniziativa" dei terroristi, quasi che la responsabilità principale dei morti non ricadesse su questi ultimi, ma sulla polizia tedesca.

La mattina del 5 settembre 1972 pure io, inviata de «La Stampa», con altri giornalisti andai alle 9 alla conferenza-stampa di Mark Spitz, vincitore americano di sette medaglie d'oro nel nuoto, il campione ebreo più famoso nel mondo, il conquistatore ebreo della Germania, il bersaglio ebreo più ambito. La città pareva ancora ignara, addormentata o attonita. Spitz fu bravissimo: alle dieci i servizi segreti l'avrebbero portato via di corsa e caricato su un aereo verso la sua California, ma per un'ora, impassibile e cortese, continuò a dare risposte noiose a domande noiose. Intanto Monaco s'era svegliata: a Marienplatz i passanti biasimavano come al solito le autorità ai microfoni televisivi, manifestanti percorrevano le vie sino al Villaggio Olimpico «per vedere», le auto avevano attaccato all'antenna un nastro nero. Poi in 80.000 parteciparono alla cerimonia funebre e i Giochi ripresero, non se ne parlò più.
Ma di tutto questo «Munich» non parla: racconta quanto accadde dopo che, grazie alla onnipresenza televisiva (la diretta tv tedesca durò oltre 21 ore ininterrotte), per la prima volta si ebbe la percezione del terrorismo moderno. Il governo di Israele, con il pieno consenso del premier Golda Meir, organizzò una guerra segreta agli assassini di Monaco, combattuta da varie squadre speciali condensate nel film in una sola squadra. Il bersaglio di morte non erano i diretti autori del massacro, tutti morti, ma una serie di dirigenti palestinesi giudicati indirettamente responsabili del conflitto antisraeliano.

Tre dei  terroristi non vennero uccisi, ma catturati e liberati dopo un mese in cambio dei passeggeri di un aereo sequestrato; per il resto,   il bersaglio erano i mandanti della strage, e nessun codice morale o giuridico del mondo considera i mandanti di un crimine responsabili "indiretti"

Il film costato 70 milioni di dollari, ambientato a Budapest, New York, Parigi, Londra, Israele, realizzato con una fotografia un poco nebbiosa e sgranata per alludere ai film degli Anni Settanta, segue le azioni e gli stati d'animo dei componenti la squadra vendicatrice. Tutto avvenne in assoluto segreto: è stato quindi facile inventare personaggi, sentimenti, crisi di coscienza. Tra crudeli uccisioni, nel crepitare delle sparatorie, le emozioni prevalenti sono la tensione e il disgusto di uccidere. Soltanto uno dice: «L'unico sangue che conti per me è il sangue degli ebrei»; altri tre muoiono, uccisi o suicidi. Il capo della squadra, ossessionato e sparuto, ad un superiore del servizio segreto israeliano che gli dice: «Hai fatto il tuo dovere, hai ucciso sette uomini per la pace e per la patria. Ora riposa. Tornerai», risponde: «No».

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