Abraham Foxman, presidente dell'Anti Defamation League, dfende il film di Spielberg "Munich", fortemente criticato in Israele.
Ecco l'articolo:
Roma. “Mi si nota di più se vengo e me ne
sto in disparte o se non vengo per niente?”.
La domanda di Nanni Moretti in “Ecce bombo”
potrebbe essere oggi girata a Steven
Spielberg, accusato, a un giorno dall’uscita
americana del film “Munich”, di essersela
tirata troppo a forza di dire “no” alle interviste,
“no” alle anteprime, “no” al presenzialismo.
“Se tu non racconti la tua storia,
qualcun altro lo farà per te, e ci sono molte
possibilità che non ti piaccia quello che ne
verrà fuori”. Questa frase del signor Allan
Meyer, esperto di management e consulente
di Spielberg, si è rivelata, direbbero gli psicanalisti,
“una profezia che si autoverifica”.
Secondo il Los Angeles Times, infatti, il regista
ha fatto parlare gli altri fino a ritrovarsi
con una serie di critiche boomerang. A
che cosa è servito – si chiede Patrick Goldstein
sul quotidiano californiano – nascondere
“Munich” sotto una coltre di top secret
e lasciar fiorire un dibattito preventivo sul
tema del film (la reazione del Mossad all’attentato
di Monaco, nel 1972, in cui persero la
vita undici atleti della squadra olimpica
israeliana)? Non è servito a nulla, si risponde
il giornalista. Soprattutto se poi, come
Spielberg, si capitola di fronte alla prospettiva
di una bella copertina sul settimanale
Time. Tutto sbagliato, scrive Goldstein. Troppo
mistero, troppa ipocrisia e pure un velato
conflitto di interessi, visto che l’intervista
a Time, uscita il 4 dicembre scorso, era scritta
“da Richard Schickel…che ha girato un
documentario prodotto da Spielberg”.
Ma il Los Angeles Times non è il solo a sezionare
gli errori di strategia del regista. A
forza di stare in silenzio, scrive Variety,
Spielberg non ha “testato” la tenuta di “Munich”:
“Gli spettatori guarderanno l’orologio
piuttosto che interrogarsi sulla pace nel
mondo”. Peggio ancora è andata alle nomination per i Golden Globe, quando i giornalisti
si sono trovati in mano fotocopie dell’articolo
di Time al posto di Spielberg in conferenza
stampa. Pare insomma che Spielberg,
a forza di fare il prezioso, abbia lasciato le
magagne politiche della trama di “Munich”
in balia dei detrattori. Il New York Times, all’indomani
di una delle poche anteprime, ha
accusato il regista di aver riempito “Munich”
di “false generalizzazioni”: “Non ammette
l’esistenza del male, ma, siccome il male esiste,
mistifica la realtà”. “Capirei se fosse un
negoziatore in medio oriente, ma è un regista”,
ha scritto ancora Goldstein, mettendo
così un epitaffio sul “marketing del silenzio”
adottato da Spielberg. In effetti il silenzio è
fitto soprattutto sugli aspetti politicamente
controversi del film, considerato da alcuni
troppo critico verso il Mossad.
Ma è proprio dove ci si sarebbe aspettati
un avversario feroce che si è trovato un aladino del regista. Abraham Foxman, direttore
dell’organizzazione ebraica Anti Defamation
league, ha infatti elogiato “Munich”
(che invece in Israele è stato preventivamente
accusato di pressappochismo storico
e parzialità politica, tanto che Spielberg, per
lanciare il film, ha assunto Eyal Arad, il guru
delle pubbliche relazioni di Ariel Sharon).
“Noi non pensiamo che il ‘Munich’ sia
un attacco a Israele”, ha detto Foxman dopo
una proiezione-pilota. “Gli israeliani del
1972, nel film, si pongono le stesse domande
degli israeliani di oggi a proposito della difesa
dagli attentati. E Spielberg mostra con
rispetto e comprensione la necessità di rispondere
al terrorismo, tanto che Munich
può essere visto come una difesa dell’azione
americana in Iraq”, ha aggiunto Foxman.
Forse Spielberg, in vista dell’uscita del film
in Israele (il 26 gennaio prossimo) doveva assumere
Foxman al posto di Arad.
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