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Il Foglio Rassegna Stampa
21.12.2005 La lunga strada verso la democrazia in Medio Oriente
interventi, inchieste e dibattiti

Testata: Il Foglio
Data: 21 dicembre 2005
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca - Carlo Panella - la redazione
Titolo: «Libertà in rialzo - Caro Magdi le elezioni non fanno la democrazia, ma rifiutarne gli esiti (vedi l'Algeria) è disastroso - I guardiani della musica - L'Iran ha ricevuto missili dai russi»

Il Foglio di mercoledì 21 dicembre 2005 pubblica in prima pagina e apagina 4 un articolo di Christian Rocca sul rapporto della Freedom House sull'avanzare della libertà nel mondo, e in particolare in Medio Oriente, "Libertà in rialzo".

Ecco il testo:

 Milano. Il centro studi indipendente Freedom House, noto in Italia per aver espresso preoccupazione sullo stato della libertà di stampa nel nostro paese, lunedì ha presentato l’autorevole rapporto 2006 sulle libertà nel mondo. Il risultato è musica per le orecchie di George W. Bush e per la sua strategia di promozione della democrazia: "Il 2005 è stato uno degli anni migliori da quando Freedom House, nel 1972, ha cominciato a valutare la libertà nel mondo". I paesi "non liberi" sono passati dai 49 del 2004 ai 45 di oggi, il numero più basso di società illiberali degli ultimi dieci anni. Otto Stati, più il territorio palestinese, hanno registrato miglioramenti di status. L’Ucraina, l’Indonesia e Trinidad ora sono paesi "liberi", mentre Afghanistan, Repubblica Centro-africana, Kyrgyzstan, Libano, Mauritania e l’Autorità palestinese sono passati dallo status di "non liberi" a "parzialmente liberi". Il trend generale è positivo ovunque: oggi sono 89 su 192 i paesi "liberi" dove c’è aperta competizione politica, solida vita civile, stampa indipendente e rispetto dei diritti umani. I "liberi" rappresentano il 46 per cento della popolazione mondiale, ovvero quasi 3 miliardi di persone. Le nazioni "parzialmente libere", dove c’è un limitato rispetto dei diritti politici e delle libertà civili, sono 58 cioè il 18 per cento della popolazione mondiale. Nei 45 paesi "non liberi" vivono 2 miliardi e 300 milioni di persone (36 per cento), metà dei quali solo in Cina. Il medio oriente è la regione del mondo più in movimento verso la libertà, e non è un caso visto che è al centro delle attenzioni della Casa Bianca. Nonostante la regione non possa ancora contare su nessun paese "libero", i progressi degli ultimi cinque anni "indicano una traiettoria regionale positiva". Il rapporto aggiunge che i punteggi assegnati al medio oriente "rappresentano la miglior performance nella storia dell’inchiesta". Ciò è ancora più interessante perché il "progresso è avvenuto in un ambiente che molti non credono possa essere propizio per la diffusione delle libertà di base. Un ambiente che durante questo periodo ha visto una crescita del terrorismo, la continuazione del conflitto israelopalestinese, la guerra in Iraq, alti indici di povertà e di disoccupazione e una crescente animosità verso gli Stati Uniti". Eppure i miglioramenti sono evidenti e le strategie democratiche di Bush "stanno pagando i dividendi".  Freedom House ricorda i progressi in Afghanistan e soprattutto in Libano. Segnala il miglioramento dei diritti delle donne in Kuwait e finanche una leggera apertura in Arabia Saudita, grazie alla possibilità di accedere all’informazione via satellite. I ricercatori fanno notare come l’Arabia Saudita ha sempre fatto parte del club dei "worst of the worst", ovvero quel ristretto gruppo di paesi con il peggior punteggio possibile. Con l’Arabia Saudita leggermente più su, sono rimasti in otto: Cuba, Corea del Nord, Turkmenistan, Uzbekistan, Libia, Siria, Sudan e Birmania. Passo avanti anche per l’Autorità palestinese, grazie alla morte di Yasser Arafat e alla fine dei suoi metodi autoritari. Le pressioni americane, e secondo Freedom House anche quelle europee, hanno contribuito alle timide riforme in Egitto, dove nonostante la repressione violenta si sono tenute le elezioni più aperte della sua storia recente. "Crescita moderata anche in Iraq, nonostante la violenza brutale degli insorgenti e dei terroristi", ma va aggiunto che la ricerca di Freedom House è stata chiusa prima dello straordinario successo elettorale del 15 dicembre. Il cammino della democrazia non è privo di ostacoli, dicono gli esperti di Freedom House, ma "questi progressi rappresentano un argomento potente contro l’affermazione che l’islam sia incompatibile con la democrazia o che l’islam sia necessariamente un impedimento alla diffusione della libertà. Piuttosto l’ostacolo principale a un maggiore progresso resta la consolidata cultura di autoritarismo politico che domina i paesi chiave del mondo arabo".Il rapporto conclude spiegando che gli sforzi per il regime change di Bush e delle altre società libere "devono essere rafforzati,  non diminuiti".

A pagina 2 dell'inserto Carlo Panella replica alla richiesta di una "pausa di riflessione" dei sostenitori della democratizzazione del Medio Oriente di fronte alle vittorie elettorali dei fondamentalisti, espressa da Magdi Allam sul Corriere della Sera (vedi "Ma se vincono Fratelli Musulmani la democrazia muore prima di nascere", Informazione Corretta del 20/12/05).

Ecco l'articolo, "Caro Magdi le elezioni non fanno la democrazia, ma rifiutarne gli esiti (vedi l'Algeria) è disastroso":  

Al direttore - Magdi Allam ha assunto, ieri sul Corriere della Sera, una posizione radicale e ha chiesto a George W. Bush di "sospendere l’esportazione della democrazia che, appiattendosi nel rito delle elezioni, ha portato al potere il nazi-islamico Ahmadinejad in Iran e ha legittimato dentro il governo e il Parlamento l’hezbollah libanese che ha inaugurato il fenomeno del terrorismo suicida islamico. (…) Pensiamoci bene, prima che, grazie al responso delle urne, ci ritroviamo con un Osama bin Laden al potere in Arabia Saudita. Di questa democrazia moriremo tutti: arabi, musulmani e occidentali". Magdi Allam contrappone a questo percorso elettorale, che rischia di legittimare gruppi dirigenti dalle ideologie totalitarie e assassine), un itinerario alternativo bastao sulla diffusione della parità di diritti della donna, dell’istruzione, dell’informazione, e non soltanto sull’indizione di elezioni democratiche (Magdi comunque sbaglia a citare quelle iraniane, che sono una farsa in salsa bulgara).Il problema è, però, che non esistono nei paesi musulmani forti leadership né di governo né di opposizione disposte a diffondere i diritti umani, neanche in cambio della garanzie di continuità dei loro regimi. Soltanto in Marocco – e in maniera declaratoria e non fattuale, in Yemen – il regime sta operando un’effettiva estensione dei diritti umani: nel gennaio 2005, re Mohammed VI ha imposto al Parlamento l’approvazione di un Codice di famiglia "Muddawana", che distrugge i capisaldi fondamentalisti di servitù della donna. Con coraggio senza precedenti, shakespeariano, il re ha poi aperto una formidabile stagione di trasparenza sui delitti del suo stesso padre, Re Hassan II. Li denuncia, con nomi e cognomi degli assassini, l’Istanza di Equità e Riconciliazione, una commissione che tiene sedute trasmesse dalla televisione, in cui le vittime del regime denunciano i crimini, i soprusi e le torture subite. Un percorso virtuoso appoggiato e finanziato dagli Stati Uniti con forza. Ma in Algeria, il "laico" Bouteflika si rimangia l’impegno di modificare il Codice di famiglia islamista che il Fln adottò nel 1982; in Giordania lo stesso re Abdallah II ammette le difficoltà nel fare partire le riforme e, in Egitto, Mubarak fa catenaccio a tutto campo, per non parlare dell’Arabia Saudita e del Kuwait. Il problema è che la tetraggine e la fragilità politica delle élites arabe è tutt’uno con la fragilità politica del pensiero politico arabo (anche di quello delle opposizioni), in tutte le sue articolazioni. Questo è il punto drammatico, ancora più grave della protervia dei regimi. E’ quindi indispensabile che nei paesi arabi e islamici la cultura politica, il pensiero politico riprendano un cammino che è stato sospeso per settecento anni. Un cammino che inizia, appunto, con la riproposizione meccanica, brutale, del pensiero politico del Tredicesimo secolo di ibn Taymiyya, piattaforma che accomuna i Fratelli musulmani, i wahabiti sauditi e al Qaida (e, con altri referenti, i khomeinisti iraniani). E’ indispensabile che questo processo di elaborazione politica nella modernità si compia, anche al prezzo di una fase di fondamentalismo benedetto dalle urne. Soltanto così potrà infatti crescere nelle società islamiche una fronda, potrà scattare la scintilla di quello "scisma luterano" che invoca – in catene – l’ex fondamentalista iraniano Aghajari, simbolo appunto di questo processo evolutivo. Bisogna che la storia faccia il suo corso. Se la si interrompe, come fu fatto bloccando il processo elettorale nel 1992 in Algeria, si ottiene solo di appiattire i fondamentalisti moderati su quelli terroristi, si provocano guerre civili e soprattutto, alla fine, si perde. L’asfittica Algeria di oggi, con i suoi 400 morti di terrorismo l’anno, senza democrazie e senza diritti umani, ne è la prova.

A pagina 3 troviamo l'editoriale "I guardiani della musica" sulla proibizione della musica occidentale in Iran e sulla richiesta di un esclusione del paese dai mondiali di calcio, giudicata un errore.

Ecco il testo:

L’ultima trovata del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad consiste nella proibizione della musica “occidentale e decadente”. Ha dichiarato, come presidente del Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica, organismo dal quale dipendono tutte le emittenti televisive e radiofoniche, che “a partire da ora, televisione e radio debbono evitare la musica occidentale e decadente e favorire la musica nazionale e tradizionale, così come la musica rilassante e quella che ricorda l’epoca della rivoluzione”. Contemporaneamente il ministro della Cultura Mohamed Husein Saffar Haranda ha annunciato restrizioni per il cinema iraniano, che comportano la proibizione di “film decadenti e stupidi”.
Potrebbe sembrare che questo giro di vite che concerne i mezzi di comunicazione sia poca cosa, se paragonato alla minaccia nucleare, alla negazione dei campi di sterminio, all’intenzione di cancellare Israele dalla carta geografica. Si tratta invece di un atto politico assai rilevante, di una sfida aperta e diretta a quella parte, maggioritaria nelle città e fra i giovani, della popolazione iraniana che ha seguito una sua via alla secolarizzazione che comporta un forte interesse per i prodotti culturali e di intrattenimento occidentali. E’ un tentativo di tornare alle origini della rivoluzione komeinista, alla fase in cui, durante gli ultimi mesi di regno dello Scià, i terroristi sciiti facevano saltare per aria i cinematografi in cui si proiettavano film occidentali, massacrando il pubblico. Delusi dal riformismo troppo cauto di Kathami, gli iraniani secolarizzati non sono andati a votare, e questo ha favorito la vittoria dell’ala più fanatica. Ora si rendono conto che anche le poche libertà di cui godevano in precedenza vengono soppresse, e questo può causare qualche effetto. Basta che qualche ritorsione occidentale stupidamente controproducente, come quella, che è stata proposta, di escludere l’Iran dai Mondiali di calcio, non consenta agli estremisti di presentare il loro fanatico antioccidentalismo come la reazione patriottica a un assedio.

Riguarda sempre l'Iran una breve notizai dalla prima pagina:

L’Iran ha ricevuto missili dai russi. Secondo i servizi israeliani si tratterebbe di 12 ordigni con una gittata di tremila km, capaci di trasportare testate nucleari.

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