Il punto sulla guerra ai terroristi islamisti un dibattito su Commentary
Testata: Il Foglio Data: 16 dicembre 2005 Pagina: 3 Autore: Victor Davis Hanson - Amir Taheri - John O’Sullivan Titolo: «Ideali e muscoli - Diagnosi e cura - Le speranze degli arabi»
IL FOGLIO di venerdì 16 dicembre 2005 pubblica quattro interventi apparsi sul numero di novembre della rivista americana Commentary, parte di una serie in cui ventitré autorevoli pensatori, storici, saggisti, editorialisti, ed ex consiglieri della Casa Bianca fanno il punto sull'attuale posizione dell'America nel mondo e in particolare sui successi, sugli errori e le difficoltà della risposta all'offensiva del terrorismo islamista.
Di seguito riportiamo l'intervento di Victor Davis Hanson, storico militare americano e saggista politico che scrive per National Review e Wall Street Journal, intitolato "Ideali e muscoli" : Secondo i dati dei sondaggi, ora la maggior parte degli americani critica la politica estera del presidente Bush. Hanno dei dubbi, e non soltanto sulla quantità giornaliera di esplosioni in Iraq. Piuttosto, le continue proteste contro l’intervento americano all’estero, espresse tanto dalla sinistra quanto dall’estrema destra, hanno determinato una condanna per così dire bipartisan. Persino alcuni di coloro che sostenevano la dottrina della prevenzione si sono chiamati fuori, sostenendo che, sebbene avessero appoggiato la rimozione di Saddam Hussein, erano sbigottiti da tutto ciò che ne era seguito. O, detto in altre parole, "Col senno di poi, rimango a favore della mia quasi perfetta campagna militare, ma non voglio avere nulla a che fare con la vostra pessima ricostruzione" – come se le guerre passate dell’America non fossero piene di tragici errori e di operazioni finite in un pantano. Ma nonostante tutta l’isteria dei media e gli indiscutibili errori commessi nella sua applicazione, la dottrina Bush continua in realtà a fare passi avanti. Presto ci assicurerà dei vantaggi a lungo termine. Malgrado la nostra incapacità di definire i pericoli e la posta in gioco nella guerra contro l’islam radicale, malgrado la nostra incapacità di sfruttare completamente il potenziale militare degli Stati Uniti, e malgrado il fatto che il nostro confine meridionale rimane esposte alla possibilità di infiltrazioni terroristiche, negli ultimi quattro anni sono stati compiuti enormi progressi. Abbiamo tolto di mezzo i talebani e Saddam Hussein. Questo ci è costato più di duemila soldati americani morti, una grave perdita che ci addolora moltissimo; ma si tratta pur sempre di una cifra inferiore a quella dei cittadini americani uccisi l’11 settembre, il primo giorno di guerra. Da allora, grazie alla nostra decisa politica di attacco contro i regimi canaglia e al nostro impegno a rimanere sul territorio per contribuire alla ricostruzione, nonché a una maggiore vigilanza in patria, gli Stati Uniti non sono stati più colpiti. In Iraq si è formato un governo istituzione, e sono previste una serie di elezioni per ratificare e/o emendare la costituzione. Ci si preoccupa giustamente per l’intransigenza dei sunniti; tuttavia questa minoranza della popolazione irachena, priva di petrolio e con un disonorevole passato di sostegno a Saddam Hussein e ai terroristi di Zarqawi, è stata messa in una posizione insostenibile. I suoi rappresentanti religiosi chiedono ai sunniti iracheni di votare no alla Costituzione nello stesso momento in cui estremisti sunniti come Zarqawi minacciano di uccidere chiunque si rechi a votare. C’è stata anche una radicale trasformazione delle mentalità regionali. Le elezioni egiziane, per quanto boicottate e truccate, sono state un evento senza precedenti, e i brogli hanno scatenato dimostrazioni popolari. E gli altri paesi non sono stati da meno: la Libia e il Pakistan hanno rinunciato al contrabbando di componenti per la costruzione di armi atomiche, la Siria si è ritirata dal Libano, e nella regione del Golfo si stanno formando i primi sistemi parlamentari. Persino sul fronte della questione palestinese, la morte di Arafat, la costruzione di una barriera protettiva e il ritiro israeliano da Gaza, oltre allo stesso rovesciamento di Saddam, hanno rafforzato la posizione dei riformatori in Cisgiordania e in altre aree. La responsabilità di tenere sotto controllo i propri elementi fuorilegge sta gradualmente passando agli stessi palestinesi, come è giusto che sia. Naturalmente, in medio oriente non stanno sorgendo dei nuovi cantoni svizzeri. Stiamo invece assistendo alle prime scosse di imponenti spostamenti tettonici, in quanto le zolle del vecchio radicalismo islamico e dell’autocrazia laica stanno lasciando il posto a qualcosa di nuovo e di più democratico. Gli Stati Uniti sono il principale catalizzatore di questo pericoloso ma da troppo tempo atteso sovvertimento. Si sono assunti i rischi sulle proprie spalle, ma il premio finale sarà un mondo più sicuro per tutti. Si parla molto dell’antiamericanismo e dell’odio nei confronti di George W. Bush. Ma a un esame più attento risulta che la rabbia è confinata soprattutto all’Europa occidentale, al medio oriente e alle nostre élite qui in America. In Europa i nostri critici più evidenti, Jacques Chirac in Francia e Gerhard Schröder in Germania, hanno perso buona parte del sostegno interno, e stanno subendo l’attacco dei realisti, che sono preoccupati per la mancata assimilazione delle minoranze e che apprezzano la coerenza americana nella guerra contro l’islam radicale. Nel frattempo, gli europei dell’est, i giapponesi, gli australiani e gli indiani non sono mai stati così vicini agli Stati Uniti. Quanto alla Russia e alla Cina, hanno ben poca influenza nella nostra guerra contro il terrorismo. In patria, la relativa mancanza di sostegno bipartisan è dovuta in parte alla stampa di sinistra, in parte all’agitazione e al risentimento di un partito democratico lontano dal potere, in parte all’incertezza sul risultato finale. Nell’estrema destra, alcuni ritengono soltanto che si stia spendendo troppo denaro, che il governo stia espandendosi troppo e che Israele abbia troppo influenza. Che cosa ci aspetta? Dobbiamo continuare a percorrere una pericolosa strettoia tra le due alternative inaccettabili della dittatura laica e del dominio della legge islamica, proprio mentre esortiamo ad avviare riforme i beneficiari di aiuti economici e militari americani come Mubarak, Musharraf o la famiglia reale saudita. In patria, se non riusciamo a escogitare una politica fattibile per combinare la produzione di petrolio e lo sviluppo di energie alternative, la nostra capacità di difenderci da ricatti internazionali inizierà presto a diminuire. Cosa ancora più preoccupante, la disponibilità di armi nucleari in Iran o in qualche altro paese non democratico del medio oriente potrebbe distruggere tutto ciò che è stato ottenuto finora. Che cosa sarebbe accaduto negli anni trenta se l’America avesse dovuto dipendere dal petrolio romeno o dal carbone tedesco, o se avesse scoperto che Hitler, Mussolini o Franco stavano per realizzare una bomba atomica? Continuo ad appoggiare senza alcuna riserva i nostri sforzi in Afghanistan e in Iraq, e le nostre pressioni per le riforme in tutto il medio oriente. Non perché la dottrina Bush debba rispettare una qualche predeterminata agenda neoconservatrice, ma perché, nell’èra post 11 settembre, il nuovo realismo americano è rappresentato dall’idealismo con i muscoli, il solo antidoto per il radicalismo islamico e le sue appendici terroristiche. Anziché perseguire il sogno dell’impero o il guadagno economico, e ben lungi dall’essere utopica, l’attuale politica americana promuove la diffusione della democrazia, anche se riduciamo la nostra presenza militare in Germania e in Corea del sud e se ritiriamo tutte le nostre truppe dall’Arabia Saudita. E’ una cosa sorprendente e ammirevole. Come dobbiamo giudicare questa nuova e risoluta dottrina che non è né un idealismo wilsoniano con gli occhi aperti né una realpolitik da guerra fredda? Chiamatela, se volete, jacksonianismo illuminato: la determinazione di intraprendere un’azione militare e di promuovere una riforma politica conforme ai nostri valori democratici quando, e soltanto quando, un mantenimento dello status quo all’estero minaccia la sicurezza degli Stati Uniti. Di Amir Taheri, giornalista iraniano, editorialista per New York Times, Washington Post, Telegraph,Cnn e Bb riportiamo "Diagnosi e cura":
Ho appoggiato la dottrina Bush fin dal primo momento, considerandolo un esempio di interesse nazionale illuminato. Come democrazia, gli Stati Uniti sono sempre stati minacciati da regimi dispotici di vario colore politico. Nelle due guerre mondiali, la minaccia era rappresentata da classici conflitti militari. Durante la Guerra fredda, è stata una miscela di campagne politiche, diplomatiche e culturali contro gli Stati Uniti, accompagnate in qualche caso da guerre di bassa intensità combattute da Stati satelliti. Negli ultimi decenni, la minaccia ha preso la forma del terrorismo, iniziando con la cattura di ostaggi americani a Teheran nel 1979, passando attraverso l’uccisione di 241 marine americani a Beirut nel 1983 e culminando negli attentati dell’11 settembre. In un mondo ideale, spetterebbe a un organismo internazionale "affrontare le più gravi minacce prima che si concretizzino". Ma purtroppo non viviamo in un mondo ideale, e le Nazioni Unite non hanno alcuna possibilità di assumersi questo compito. Così, Bush ha ragione tanto nella sua diagnosi quanto nella cura che ha proposto. Per tutto l’ultimo secolo, gli Stati Uniti sono stati quasi sempre una forza per il bene. Hanno contribuito a difendere la libertà in Europa e in Asia, e hanno investito uomini e denaro per sconfiggere il fascismo in tutto il mondo e per sconfiggere l’ "impero del male" sovietico. Combattere per difendere e promuovere la libertà è un obiettivo naturale per una democrazia rispettosa di se stessa. Il quadro generale, per di più, è incoraggiante. Gli Stati Uniti hanno ottenuto straordinarie vittorie distruggendo due tra i peggiori regimi di tutta la storia (i talebani in Afghanistan e i baathisti in Iraq) e liberando oltre 50 milioni di persone. In Afghanistan e in Iraq, la democratizzazione sta procedendo a un ritmo più rapido di quanto si immaginava. Se non si può dire la stessa cosa per il processo di pacificazione e stabilizzazione, ciò si deve in larga misura al fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno impiegato le forze necessarie e perché il compito di costruire un nuovo esercito afghano e iracheno è stato ostacolato da polemiche all’interno della Nato, da rivalità burocratiche a Washington e da una debole leadership a Kabul e a Baghdad. Non ho dubbi sul fatto che la rimozione dei talebani e dei baathisti ha reso più sicuri gli Stati Uniti. Quattro giorni primi di fuggire, il leader dei talebani, il mullah Muhammad Omar, disse alla Bbc che il suo regime aveva un solo scopo: nientemeno che la distruzione dell’America. In effetti, l’Afghanistan era diventato un rifugio per i terroristi di oltre 40 paesi, accomunati dall’odio per l’America. L’Iraq, sotto Saddam Hussein, non era affatto diverso. Baghdad ospitava il quartier generale di 23 organizzazioni terroristiche, mentre Saddam aspettava che le Nazioni Unite togliessero le sanzioni per rimettere in funzione la sua macchina da guerra. La dottrina Bush ha prodotto anche altri anpositivi risultati. In Libia, il colonnello Gheddafi ha cessato di sponsorizzare il terrorismo e ha rinunciato al proprio programma di sviluppo nucleare. Il regime islamistamilitarista del Sudan ha firmato un accordo di pace sponsorizzato dagli Usa con i ribelli cristiani del sud del paese, ha accettato un piano di condivisione del potere e ha promesso di indire elezioni multipartitiche. In Egitto, il presidente Hosni Mubarak si è sottomesso all’"ignominia" di un’elezione presidenziale con più candidati dopo 24 anni di dominio personale. L’Arabia Saudita, che ha sempre rifiutato il voto popolare come una "malattia occidentale", ha organizzato le sue prime, per quanto limitate, elezioni municipali. Il Kuwait ha concesso alle donne il diritto di votare e di essere elette. I libanesi, incoraggiati dall’appoggio americano, si sono ribellati all’occupazione siriana e hanno costretto le forze d’occupazione a lasciare il paese. L’Aghanistan e l’Iraq hanno indetto le loro prime libere elezioni e hanno adottato nuove costituzioni democratiche. Quanto alle prospettive di lungo termine della dottrina Bush, dobbiamo tenere le dita incrociate. Il mio timore è che, terminato il suo mandato, il successore ricada in quel torpore reattivo che, con brevi ma significativi intervalli, ha caratterizzato la politica estera americana fin dai tempi del Vietnam. La principale debolezza dell’attuale politica americana sta nell’incapacità dell’amministrazione a sviluppare un approccio coerente al problema iraniano. Questo ha incoraggiato Teheran a sfidare lo scenario proposto da Bush per la riforma nel medio oriente. In un discorso pronunciato a Teheran lo scorso giugno, la "guida suprema" dell’Iran, Ali Khamenei, si è espresso in modo perfettamente chiaro: "Gli americani hanno il loro piano per la regione. Anche noi abbiamo un piano. E non permetteremo che gli americani impongano il proprio". La mancanza di una chiara politica americana nei confronti dell’Iran è motivo di preoccupazione per
tutta la regione, compresi l’Afghanistan e l’Iraq, dove i politici si domandano che cosa succederà se la prossima amministrazione Usa decidesse di andarsene dall’Iraq, lasciando l’Iran, che si sarà ormai dotato di armi nucleari, come principale potenza locale. Analoghe preoccupazioni si sentono da Rabat fino a Riad. Ecco che cosa ha detto il presidente iraniani Mahmoud Ahmadinejad al presidente siriano Bashar al Assad lo scorso agosto: "Un giorno gli americani se ne andranno. Ma noi saremo sempre qua!". Oggi l’Iran gioca lo stesso ruolo che un tempo aveva l’Unione Sovietica, per quanto su una scala più modesta. Quando l’Unione Sovietica è crollata, tutta la struttura globale della sinistra totalitaristica è crollata insieme a essa. Analogamente, se crolla la repubblica islamica dell’Iran, è probabile che crolli anche tutto l’edificio dell’islamofascismo. Ci sono tre opzioni per quanto riguarda l’Iran: la distensione, basata su una demarcazione delle aree di influenza; una mini guerra fredda, che includerebbe scontri combattuti da Stati satelliti in tutto il medio oriente; un cambio di regime, attraverso una combinazione di pressioni politiche e militari. Non fare nulla non è un’opzione, se non altro perché l’Iran è deciso a spingersi all’offensiva. L’ultima domanda posta dalla rivista presenta due aspetti. Primo, gli Stati Uniti hanno davvero un ruolo mondiale? A questo proposito voglio citare le parole dello scrittore inglese John Buchan, scritte nel 1929: "Odio la crudeltà. Odio l’uso degli uomini come pedine in un gioco egoistico. Odio tutte le marce ideologie totalitaristiche. Credo nella libertà, anche se può essere fuori moda; e poiché l’America, nel suo strano modo, è schierata dalla stessa parte, sono per l’America!". Il secondo aspetto riguarda il fatto se Bush sia in grado di mobilitare il proprio popolo a favore della sua dottrina. Anche in questo caso, mi piace citare Buchan: "Nessuna potenza e nessuna alleanza fra più potenze può sconfiggere l’America. Ma supponiamo che sia costretta a scontrarsi con un gruppo [di Stati canaglia] e che, con la sua tipica capacità di presentarsi in modo sbagliato, sembri non avere una giusta causa. L’America ha qualche vero amico al mondo, a parte l’Inghilterra? Quasi tutti i paesi la adulano; ma la odiano profondamente. Non c’è da sperare che la aiutino avvalorando la sua causa. All’interno dei propri confini, ha una dozzina di [fazioni in guerra] che, in una situazione del genere, in cui fosse costretta ad agire ma contro la sua volontà e senza sapere in che modo, potrebbero spezzarla completamente". Di John O’Sullivan editorialista di National Review, "Le speranze degli arabi ":
La dottrina della prevenzione e il progetto di diffusione della democrazia stanno ottenendo risultati migliori di quanto si pensi. Ciò si deve in parte al fatto che tanto la prima quanto il secondo sono stato presentati e giustificati in termini eccessivamente ambiziosi, privi di fondamento e persino bizzarri. La dottrina della prevenzione, per esempio, è la politica tacitamente seguita da ogni grande potenza. Le grandi potenze si trovano spesso di fronte a parecchie potenziali minacce nello stesso momento. Se una di queste minacce è considerata di gravità mortale, lo Stato prenderà provvedimenti per neutralizzarla, se necessario anche con una guerra. Uno Stato prudente, tuttavia, di solito non dichiara l’adozione di una politica di prevenzione come principio guida. Dopo tutto, la minaccia originaria può sempre scomparire. La dichiarazione potrebbe poi spingere il suo destinatario a qualche azione imprudente, per non dare l’impressione di piegarsi. E può anche allarmare gli Stati vicini e farli coalizzare contro di sé. Soprattutto, c’è il rischio di sbagliare i calcoli. La Germania ha iniziato la Prima guerra mondiale per sconfiggere una Russia in ascesa ma ancora debole. Il risultato è stata la rovina della Germania, della Russia e dell’Europa. Ciò che viene temuto e non accettato da altre potenze quando presentato come un principio può invece essere approvato come risposta legittima a una particolare minaccia. La guerra degli Stati Uniti in Afghanistan è stata giudicata come una risposta proporzionata alla minaccia che il regime terrorista dei talebani potesse organizzare un nuovo 11 settembre. L’invasione dell’Iraq invece no, in parte perché l’amministrazione Bush, ritenendo che sarebbe stata giustificata dalla scoperta di armi di distruzione di massa, ha mostrato la sua determinazione a invadere il paese indipendentemente dall’opposizione di altre potenze. Oggi, se gli Stati Uniti ponessero l’accento sul carattere limitato, prudente e ultimativo della prevenzione, l’opposizione internazionale potrebbe ammorbidirsi. E perché no? Dopo tutto, è l’ultima possibilità che ci resta. Il progetto di diffusione della democrazia presenta un problema leggermente diverso. Un mondo di Stati democratici e liberali sarebbe senza dubbio più stabile e più favorevole alle politiche statunitensi. Come avvenuto nel caso della nostra stessa storia, tuttavia, anche in medio oriente lo sviluppo della democrazia sarà probabilmente graduale, discontinuo, imperfetto, dipendente dalla tradizione religiosa e operato soprattutto della popolazione locale. Il ruolo dell’America consiste nel rimanere presente sul territorio probabilmente per molti anni, al fine di incoraggiare queste popolazioni a mantenere le regole democratiche, ma accettando che queste regole devono essere decise da esse stesse. Tuttavia la nostra ambizione travalica la nostra disponibilità a impegnare risorse. Parliamo continuamente di lasciare l’Iraq al più presto possibile, pretendendo che società fortemente religiose adottino costituzioni laiche che nessun esercito sarebbe in grado di far rispettare. Fortunatamente, gli iracheni hanno avuto il buon senso di rifiutare questo fondamentalismo laico, anche se la loro accettazione delle assurdità post-democratiche sulle quote per il sesso debole nella rappresentanza parlamentare potrebbe ancora mandare all’aria la costituzione. La dottrina Bush ci ha reso più sicuri? Senza dubbio, la capitolazione della Libia, il ritiro della Siria dal Libano e il successo riportato dall’amministrazione con la Proliferation Security Initiative (Psi) hanno rafforzato la nostra sicurezza, in modo non eclatante ma comunque concreto. La Psi in particolare ha grande importanza. E’ allo stesso tempo una forma pacata di prevenzione e un esempio di multilateralismo pratico. E’ priva di tutte le trappole ritenute essenziali dagli organismi delle Nazioni Unite (quartier generale, conferenze internazionali, staff di avvocati), ma funziona molto bene perché i governi vi dedicano spontaneamente autentiche risorse. E’ la facciata rispettabile della prevenzione sul piano internazionale. Se la dottrina Bush vuole avere successo, questo dovrebbe essere il suo modello. Naturalmente, non possiamo dire con certezza se la dottrina Bush ci abbia reso più sicuri fino a quando non conosceremo l’esito finale del nostro intervento in Iraq. La vittoria dell’insurrezione, lo scoppio di una guerra civile o la diffusione di un caos paragonabile a quello del Libano negli anni settanta significherebbero che l’invasione dell’Iraq è stata un completo disastro. Gli insorti creerebbero un base nazionale per il terrorismo islamico e noi saremmo molto meno al sicuro. Al contrario, l’affermazione di un Iraq democratico priverebbe i terroristi di un punto d’appoggio, incoraggerebbe le forze democratiche del mondo arabo e musulmano e quindi aumenterebbe notevolmente la nostra sicurezza. I realisti come James Kurth sostengono che il miglior risultato che si possa ottenere in Iraq sarebbe quello di un un condominio di governo fra sciiti e kurdi che, dietro una facciata democratica, stritolasse completamente i sunniti. Questo sarebbe una delusione sul piano morale ma un successo su quello strategico. Innanzitutto, sarebbe un’amara sconfitta per i terroristi, che ne uscirebbero fortemente indeboliti. Inoltre, lascerebbe in piedi un governo iracheno che, a causa del suo isolamento all’interno del mondo arabo, non avrebbe altra scelta che quella di essere un alleato degli Stati Uniti (anche se con un partito filoiraniano a corte). In verità, un risultato di questo tipo rafforzerebbe la visione cinica degli arabi e degli europei, secondo i quali il progetto di esportazione della democrazia è soltanto una maschera ipocrita per nascondere gli interessi degli Yankee. Ma l’isolamento dell’Iraq darebbe a Washington la forza necessaria per spingere il governo sciita-curdo a estendere gradualmente i diritti democratici a tutta la comunità. Dopo un certo periodo, questo farebbe rivivere le speranze dei democratici arabi negli Stati vicini, ancora una volta aumentando la nostra stessa sicurezza. Qualsiasi forma assuma, questo processo sarà probabilmente difficile e caotico. Il presidente potrebbe pentirsi del modo sprezzante con cui ha condannato i suoi predecessori per non avere promosso la libertà all’estero con maggiore coerenza e rispetto dei principi. Ma questo porta a considerazioni che nell’attuale dibattito vengono trascurate. Oggi gli Stati Uniti producono circa il 25 per cento del pil mondiale. E’ probabile che sarà ancora così fra una cinquantina d’anni, quando però la Cina, l’India e l’Unione europea, secondo le previsioni, produrranno rispettivamente il 25 per cento (l’India e la Cina) e il 10 per cento (l’Ue) del pil mondiale. Il peso politico dell’India e della Cina sarà pertanto molto maggiore di quello europeo, e l’affermazione di questi due paesi come grandi potenze indebolirà il transnazionalismo europeo e rafforzerà invece il multilateralismo pratico degli Stati Uniti tanto nella lotta contro il terrorismo quanto, più in generale, nelle vicende di politica internazionale. Washington ha già risposto a queste future realtà politiche avviando una relazione più stretta con l’India. Ora ha bisogno di una politica europea più articolata sia per prevenire la formazione di un asse Ue-Cina sia per garantire che il peso e la ricchezza dell’Europa rimangano impegnati a favore di un Occidente unito. Altrimenti, l’attuale posizione di superpotenza dell’America sarà inevitabilmente destinata a declinare fino al rango di "primus inter pares". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.