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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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Il Foglio Rassegna Stampa
16.12.2005 Il punto sulla guerra ai terroristi islamisti
un dibattito su Commentary

Testata: Il Foglio
Data: 16 dicembre 2005
Pagina: 3
Autore: Victor Davis Hanson - Amir Taheri - John O’Sullivan
Titolo: «Ideali e muscoli - Diagnosi e cura - Le speranze degli arabi»
IL FOGLIO di venerdì 16 dicembre 2005 pubblica quattro interventi apparsi sul numero di novembre della rivista americana Commentary, parte di una serie in cui ventitré autorevoli pensatori, storici, saggisti, editorialisti, ed ex consiglieri della Casa Bianca fanno il punto sull'attuale posizione dell'America nel mondo e in particolare sui successi, sugli errori e le difficoltà della risposta all'offensiva del terrorismo islamista.

Di seguito riportiamo l'intervento di Victor Davis Hanson, storico militare americano e saggista politico che scrive per National Review e
Wall Street Journal, intitolato "Ideali e muscoli" :

Secondo i dati dei sondaggi, ora la maggior
parte degli americani critica la politica
estera del presidente Bush. Hanno dei dubbi,
e non soltanto sulla quantità giornaliera
di esplosioni in Iraq. Piuttosto, le continue
proteste contro l’intervento americano all’estero,
espresse tanto dalla sinistra quanto
dall’estrema destra, hanno determinato una
condanna per così dire bipartisan. Persino
alcuni di coloro che sostenevano la dottrina
della prevenzione si sono chiamati fuori, sostenendo
che, sebbene avessero appoggiato
la rimozione di Saddam Hussein, erano sbigottiti
da tutto ciò che ne era seguito. O, detto
in altre parole, "Col senno di poi, rimango
a favore della mia quasi perfetta campagna
militare, ma non voglio avere nulla a
che fare con la vostra pessima ricostruzione"
– come se le guerre passate dell’America
non fossero piene di tragici errori e di
operazioni finite in un pantano.
Ma nonostante tutta l’isteria dei media e
gli indiscutibili errori commessi nella sua
applicazione, la dottrina Bush continua in
realtà a fare passi avanti. Presto ci assicurerà
dei vantaggi a lungo termine. Malgrado
la nostra incapacità di definire i pericoli e
la posta in gioco nella guerra contro l’islam
radicale, malgrado la nostra incapacità di
sfruttare completamente il potenziale militare
degli Stati Uniti, e malgrado il fatto che
il nostro confine meridionale rimane esposte
alla possibilità di infiltrazioni terroristiche,
negli ultimi quattro anni sono stati compiuti
enormi progressi.
Abbiamo tolto di mezzo i talebani e Saddam
Hussein. Questo ci è costato più di duemila
soldati americani morti, una grave perdita
che ci addolora moltissimo; ma si tratta
pur sempre di una cifra inferiore a quella
dei cittadini americani uccisi l’11 settembre,
il primo giorno di guerra. Da allora,
grazie alla nostra decisa politica di attacco
contro i regimi canaglia e al nostro impegno
a rimanere sul territorio per contribuire alla
ricostruzione, nonché a una maggiore vigilanza
in patria, gli Stati Uniti non sono
stati più colpiti.
In Iraq si è formato un governo istituzione,
e sono previste una serie di elezioni per
ratificare e/o emendare la costituzione. Ci si
preoccupa giustamente per l’intransigenza
dei sunniti; tuttavia questa minoranza della
popolazione irachena, priva di petrolio e
con un disonorevole passato di sostegno a
Saddam Hussein e ai terroristi di Zarqawi, è
stata messa in una posizione insostenibile. I
suoi rappresentanti religiosi chiedono ai
sunniti iracheni di votare no alla Costituzione
nello stesso momento in cui estremisti
sunniti come Zarqawi minacciano di uccidere
chiunque si rechi a votare.
C’è stata anche una radicale trasformazione
delle mentalità regionali. Le elezioni
egiziane, per quanto boicottate e truccate,
sono state un evento senza precedenti, e i
brogli hanno scatenato dimostrazioni popolari.
E gli altri paesi non sono stati da meno:
la Libia e il Pakistan hanno rinunciato al
contrabbando di componenti per la costruzione
di armi atomiche, la Siria si è ritirata
dal Libano, e nella regione del Golfo si stanno
formando i primi sistemi parlamentari.
Persino sul fronte della questione palestinese,
la morte di Arafat, la costruzione di
una barriera protettiva e il ritiro israeliano
da Gaza, oltre allo stesso rovesciamento di
Saddam, hanno rafforzato la posizione dei
riformatori in Cisgiordania e in altre aree.
La responsabilità di tenere sotto controllo i
propri elementi fuorilegge sta gradualmente
passando agli stessi palestinesi, come è
giusto che sia.
Naturalmente, in medio oriente non stanno
sorgendo dei nuovi cantoni svizzeri. Stiamo
invece assistendo alle prime scosse di
imponenti spostamenti tettonici, in quanto
le zolle del vecchio radicalismo islamico e
dell’autocrazia laica stanno lasciando il posto
a qualcosa di nuovo e di più democratico.
Gli Stati Uniti sono il principale catalizzatore
di questo pericoloso ma da troppo
tempo atteso sovvertimento. Si sono assunti
i rischi sulle proprie spalle, ma il premio finale
sarà un mondo più sicuro per tutti.
Si parla molto dell’antiamericanismo e
dell’odio nei confronti di George W. Bush.
Ma a un esame più attento risulta che la
rabbia è confinata soprattutto all’Europa
occidentale, al medio oriente e alle nostre
élite qui in America. In Europa i nostri critici
più evidenti, Jacques Chirac in Francia
e Gerhard Schröder in Germania, hanno
perso buona parte del sostegno interno, e
stanno subendo l’attacco dei realisti, che sono
preoccupati per la mancata assimilazione
delle minoranze e che apprezzano la
coerenza americana nella guerra contro l’islam
radicale. Nel frattempo, gli europei
dell’est, i giapponesi, gli australiani e gli indiani
non sono mai stati così vicini agli Stati
Uniti. Quanto alla Russia e alla Cina, hanno
ben poca influenza nella nostra guerra
contro il terrorismo.
In patria, la relativa mancanza di sostegno
bipartisan è dovuta in parte alla stampa di
sinistra, in parte all’agitazione e al risentimento
di un partito democratico lontano dal
potere, in parte all’incertezza sul risultato finale.
Nell’estrema destra, alcuni ritengono
soltanto che si stia spendendo troppo denaro,
che il governo stia espandendosi troppo
e che Israele abbia troppo influenza.
Che cosa ci aspetta? Dobbiamo continuare
a percorrere una pericolosa strettoia tra
le due alternative inaccettabili della dittatura
laica e del dominio della legge islamica,
proprio mentre esortiamo ad avviare
riforme i beneficiari di aiuti economici e
militari americani come Mubarak, Musharraf
o la famiglia reale saudita. In patria, se
non riusciamo a escogitare una politica fattibile
per combinare la produzione di petrolio
e lo sviluppo di energie alternative, la
nostra capacità di difenderci da ricatti internazionali
inizierà presto a diminuire. Cosa
ancora più preoccupante, la disponibilità
di armi nucleari in Iran o in qualche altro
paese non democratico del medio oriente
potrebbe distruggere tutto ciò che è stato ottenuto
finora. Che cosa sarebbe accaduto
negli anni trenta se l’America avesse dovuto
dipendere dal petrolio romeno o dal carbone
tedesco, o se avesse scoperto che Hitler,
Mussolini o Franco stavano per realizzare
una bomba atomica?
Continuo ad appoggiare senza alcuna riserva
i nostri sforzi in Afghanistan e in Iraq,
e le nostre pressioni per le riforme in tutto
il medio oriente. Non perché la dottrina Bush
debba rispettare una qualche predeterminata
agenda neoconservatrice, ma perché,
nell’èra post 11 settembre, il nuovo realismo
americano è rappresentato dall’idealismo
con i muscoli, il solo antidoto per il
radicalismo islamico e le sue appendici terroristiche.
Anziché perseguire il sogno dell’impero
o il guadagno economico, e ben lungi
dall’essere utopica, l’attuale politica americana
promuove la diffusione della democrazia,
anche se riduciamo la nostra presenza
militare in Germania e in Corea del sud e
se ritiriamo tutte le nostre truppe dall’Arabia
Saudita. E’ una cosa sorprendente e ammirevole.
Come dobbiamo giudicare questa
nuova e risoluta dottrina che non è né un
idealismo wilsoniano con gli occhi aperti né
una realpolitik da guerra fredda? Chiamatela,
se volete, jacksonianismo illuminato: la
determinazione di intraprendere un’azione
militare e di promuovere una riforma politica
conforme ai nostri valori democratici
quando, e soltanto quando, un mantenimento
dello status quo all’estero minaccia la sicurezza
degli Stati Uniti.
Di Amir Taheri, giornalista iraniano, editorialista per New York Times, Washington Post, Telegraph,Cnn e Bb riportiamo "Diagnosi e cura":

Ho appoggiato la dottrina Bush fin dal
primo momento, considerandolo un esempio
di interesse nazionale illuminato. Come
democrazia, gli Stati Uniti sono sempre stati
minacciati da regimi dispotici di vario colore
politico. Nelle due guerre mondiali, la
minaccia era rappresentata da classici conflitti
militari. Durante la Guerra fredda, è
stata una miscela di campagne politiche, diplomatiche
e culturali contro gli Stati Uniti,
accompagnate in qualche caso da guerre di
bassa intensità combattute da Stati satelliti.
Negli ultimi decenni, la minaccia ha preso
la forma del terrorismo, iniziando con la cattura
di ostaggi americani a Teheran nel 1979,
passando attraverso l’uccisione di 241 marine
americani a Beirut nel 1983 e culminando
negli attentati dell’11 settembre. In un
mondo ideale, spetterebbe a un organismo
internazionale "affrontare le più gravi minacce
prima che si concretizzino". Ma purtroppo
non viviamo in un mondo ideale, e le
Nazioni Unite non hanno alcuna possibilità
di assumersi questo compito. Così, Bush ha
ragione tanto nella sua diagnosi quanto nella
cura che ha proposto. Per tutto l’ultimo secolo,
gli Stati Uniti sono stati quasi sempre
una forza per il bene. Hanno contribuito a
difendere la libertà in Europa e in Asia, e
hanno investito uomini e denaro per sconfiggere
il fascismo in tutto il mondo e per
sconfiggere l’ "impero del male" sovietico.
Combattere per difendere e promuovere la
libertà è un obiettivo naturale per una democrazia
rispettosa di se stessa.
Il quadro generale, per di più, è incoraggiante.
Gli Stati Uniti hanno ottenuto straordinarie
vittorie distruggendo due tra i peggiori
regimi di tutta la storia (i talebani in
Afghanistan e i baathisti in Iraq) e liberando
oltre 50 milioni di persone. In Afghanistan
e in Iraq, la democratizzazione sta procedendo
a un ritmo più rapido di quanto si
immaginava. Se non si può dire la stessa cosa
per il processo di pacificazione e stabilizzazione,
ciò si deve in larga misura al fatto
che gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno
impiegato le forze necessarie e perché il
compito di costruire un nuovo esercito afghano
e iracheno è stato ostacolato da polemiche
all’interno della Nato, da rivalità burocratiche
a Washington e da una debole
leadership a Kabul e a Baghdad.
Non ho dubbi sul fatto che la rimozione
dei talebani e dei baathisti ha reso più sicuri
gli Stati Uniti. Quattro giorni primi di
fuggire, il leader dei talebani, il mullah
Muhammad Omar, disse alla Bbc che il suo
regime aveva un solo scopo: nientemeno
che la distruzione dell’America. In effetti,
l’Afghanistan era diventato un rifugio per i
terroristi di oltre 40 paesi, accomunati dall’odio
per l’America. L’Iraq, sotto Saddam
Hussein, non era affatto diverso. Baghdad
ospitava il quartier generale di 23 organizzazioni
terroristiche, mentre Saddam aspettava
che le Nazioni Unite togliessero le sanzioni
per rimettere in funzione la sua macchina
da guerra.
La dottrina Bush ha prodotto anche altri
anpositivi
risultati. In Libia, il colonnello
Gheddafi ha cessato di sponsorizzare il terrorismo
e ha rinunciato al proprio programma
di sviluppo nucleare. Il regime islamistamilitarista
del Sudan ha firmato un accordo
di pace sponsorizzato dagli Usa con i ribelli
cristiani del sud del paese, ha accettato un
piano di condivisione del potere e ha promesso
di indire elezioni multipartitiche. In
Egitto, il presidente Hosni Mubarak si è sottomesso
all’"ignominia" di un’elezione presidenziale
con più candidati dopo 24 anni di
dominio personale. L’Arabia Saudita, che ha
sempre rifiutato il voto popolare come una
"malattia occidentale", ha organizzato le sue
prime, per quanto limitate, elezioni municipali.
Il Kuwait ha concesso alle donne il diritto
di votare e di essere elette. I libanesi,
incoraggiati dall’appoggio americano, si sono
ribellati all’occupazione siriana e hanno
costretto le forze d’occupazione a lasciare il
paese. L’Aghanistan e l’Iraq hanno indetto le
loro prime libere elezioni e hanno adottato
nuove costituzioni democratiche.
Quanto alle prospettive di lungo termine
della dottrina Bush, dobbiamo tenere le dita
incrociate. Il mio timore è che, terminato
il suo mandato, il successore ricada in quel
torpore reattivo che, con brevi ma significativi
intervalli, ha caratterizzato la politica
estera americana fin dai tempi del Vietnam.
La principale debolezza dell’attuale politica
americana sta nell’incapacità dell’amministrazione
a sviluppare un approccio coerente
al problema iraniano. Questo ha incoraggiato
Teheran a sfidare lo scenario proposto
da Bush per la riforma nel medio oriente. In
un discorso pronunciato a Teheran lo scorso
giugno, la "guida suprema" dell’Iran, Ali
Khamenei, si è espresso in modo perfettamente
chiaro: "Gli americani hanno il loro
piano per la regione. Anche noi abbiamo un
piano. E non permetteremo che gli americani
impongano il proprio". La mancanza di
una chiara politica americana nei confronti
dell’Iran è motivo di preoccupazione per

tutta
la regione, compresi l’Afghanistan e l’Iraq,
dove i politici si domandano che cosa succederà
se la prossima amministrazione Usa decidesse
di andarsene dall’Iraq, lasciando l’Iran,
che si sarà ormai dotato di armi nucleari,
come principale potenza locale. Analoghe
preoccupazioni si sentono da Rabat fino a
Riad. Ecco che cosa ha detto il presidente iraniani
Mahmoud Ahmadinejad al presidente
siriano Bashar al Assad lo scorso agosto: "Un
giorno gli americani se ne andranno. Ma noi
saremo sempre qua!".
Oggi l’Iran gioca lo stesso ruolo che un
tempo aveva l’Unione Sovietica, per quanto
su una scala più modesta. Quando l’Unione
Sovietica è crollata, tutta la struttura
globale della sinistra totalitaristica è crollata
insieme a essa. Analogamente, se crolla
la repubblica islamica dell’Iran, è probabile
che crolli anche tutto l’edificio dell’islamofascismo.
Ci sono tre opzioni per
quanto riguarda l’Iran: la distensione, basata
su una demarcazione delle aree di influenza;
una mini guerra fredda, che includerebbe
scontri combattuti da Stati satelliti
in tutto il medio oriente; un cambio di regime,
attraverso una combinazione di pressioni
politiche e militari. Non fare nulla
non è un’opzione, se non altro perché l’Iran
è deciso a spingersi all’offensiva. L’ultima
domanda posta dalla rivista presenta due
aspetti. Primo, gli Stati Uniti hanno davvero
un ruolo mondiale? A questo proposito
voglio citare le parole dello scrittore inglese
John Buchan, scritte nel 1929: "Odio la
crudeltà. Odio l’uso degli uomini come pedine
in un gioco egoistico. Odio tutte le
marce ideologie totalitaristiche. Credo nella
libertà, anche se può essere fuori moda;
e poiché l’America, nel suo strano modo, è
schierata dalla stessa parte, sono per l’America!".
Il secondo aspetto riguarda il fatto
se Bush sia in grado di mobilitare il proprio
popolo a favore della sua dottrina. Anche
in questo caso, mi piace citare Buchan:
"Nessuna potenza e nessuna alleanza fra
più potenze può sconfiggere l’America. Ma
supponiamo che sia costretta a scontrarsi
con un gruppo [di Stati canaglia] e che, con
la sua tipica capacità di presentarsi in modo
sbagliato, sembri non avere una giusta causa.
L’America ha qualche vero amico al mondo,
a parte l’Inghilterra? Quasi tutti i paesi
la adulano; ma la odiano profondamente.
Non c’è da sperare che la aiutino avvalorando
la sua causa. All’interno dei propri confini,
ha una dozzina di [fazioni in guerra] che,
in una situazione del genere, in cui fosse costretta
ad agire ma contro la sua volontà e
senza sapere in che modo, potrebbero spezzarla
completamente".
Di John O’Sullivan editorialista di National Review, "Le speranze degli arabi ":

La dottrina della prevenzione e il progetto
di diffusione della democrazia stanno ottenendo
risultati migliori di quanto si pensi.
Ciò si deve in parte al fatto che tanto la
prima quanto il secondo sono stato presentati
e giustificati in termini eccessivamente
ambiziosi, privi di fondamento e persino
bizzarri.
La dottrina della prevenzione, per esempio,
è la politica tacitamente seguita da ogni
grande potenza. Le grandi potenze si trovano
spesso di fronte a parecchie potenziali
minacce nello stesso momento. Se una di
queste minacce è considerata di gravità
mortale, lo Stato prenderà provvedimenti
per neutralizzarla, se necessario anche con
una guerra. Uno Stato prudente, tuttavia, di
solito non dichiara l’adozione di una politica
di prevenzione come principio guida. Dopo
tutto, la minaccia originaria può sempre
scomparire. La dichiarazione potrebbe poi
spingere il suo destinatario a qualche azione
imprudente, per non dare l’impressione
di piegarsi. E può anche allarmare gli Stati
vicini e farli coalizzare contro di sé. Soprattutto,
c’è il rischio di sbagliare i calcoli. La
Germania ha iniziato la Prima guerra mondiale
per sconfiggere una Russia in ascesa
ma ancora debole. Il risultato è stata la rovina
della Germania, della Russia e dell’Europa.
Ciò che viene temuto e non accettato
da altre potenze quando presentato come
un principio può invece essere approvato
come risposta legittima a una particolare
minaccia. La guerra degli Stati Uniti in
Afghanistan è stata giudicata come una risposta
proporzionata alla minaccia che il
regime terrorista dei talebani potesse organizzare
un nuovo 11 settembre. L’invasione
dell’Iraq invece no, in parte perché l’amministrazione
Bush, ritenendo che sarebbe
stata giustificata dalla scoperta di armi di
distruzione di massa, ha mostrato la sua determinazione
a invadere il paese indipendentemente
dall’opposizione di altre potenze.
Oggi, se gli Stati Uniti ponessero l’accento
sul carattere limitato, prudente e ultimativo
della prevenzione, l’opposizione
internazionale potrebbe ammorbidirsi. E
perché no? Dopo tutto, è l’ultima possibilità
che ci resta.
Il progetto di diffusione della democrazia
presenta un problema leggermente diverso.
Un mondo di Stati democratici e liberali sarebbe
senza dubbio più stabile e più favorevole
alle politiche statunitensi. Come avvenuto
nel caso della nostra stessa storia,
tuttavia, anche in medio oriente lo sviluppo
della democrazia sarà probabilmente graduale,
discontinuo, imperfetto, dipendente
dalla tradizione religiosa e operato soprattutto
della popolazione locale. Il ruolo dell’America
consiste nel rimanere presente
sul territorio probabilmente per molti anni,
al fine di incoraggiare queste popolazioni a
mantenere le regole democratiche, ma accettando
che queste regole devono essere
decise da esse stesse.
Tuttavia la nostra ambizione travalica la
nostra disponibilità a impegnare risorse.
Parliamo continuamente di lasciare l’Iraq
al più presto possibile, pretendendo che
società fortemente religiose adottino costituzioni
laiche che nessun esercito sarebbe
in grado di far rispettare. Fortunatamente,
gli iracheni hanno avuto il buon senso di
rifiutare questo fondamentalismo laico,
anche se la loro accettazione delle assurdità
post-democratiche sulle quote per il
sesso debole nella rappresentanza parlamentare
potrebbe ancora mandare all’aria
la costituzione.
La dottrina Bush ci ha reso più sicuri?
Senza dubbio, la capitolazione della Libia,
il ritiro della Siria dal Libano e il successo
riportato dall’amministrazione con la Proliferation
Security Initiative (Psi) hanno
rafforzato la nostra sicurezza, in modo non
eclatante ma comunque concreto. La Psi in
particolare ha grande importanza. E’ allo
stesso tempo una forma pacata di prevenzione
e un esempio di multilateralismo pratico.
E’ priva di tutte le trappole ritenute essenziali
dagli organismi delle Nazioni Unite
(quartier generale, conferenze internazionali,
staff di avvocati), ma funziona molto
bene perché i governi vi dedicano spontaneamente
autentiche risorse. E’ la facciata
rispettabile della prevenzione sul piano
internazionale. Se la dottrina Bush vuole
avere successo, questo dovrebbe essere
il suo modello.
Naturalmente, non possiamo dire con
certezza se la dottrina Bush ci abbia reso
più sicuri fino a quando non conosceremo
l’esito finale del nostro intervento in Iraq.
La vittoria dell’insurrezione, lo scoppio di
una guerra civile o la diffusione di un caos
paragonabile a quello del Libano negli anni settanta significherebbero che l’invasione
dell’Iraq è stata un completo disastro. Gli
insorti creerebbero un base nazionale per
il terrorismo islamico e noi saremmo molto
meno al sicuro. Al contrario, l’affermazione
di un Iraq democratico priverebbe i terroristi
di un punto d’appoggio, incoraggerebbe
le forze democratiche del mondo arabo
e musulmano e quindi aumenterebbe notevolmente
la nostra sicurezza.
I realisti come James Kurth sostengono
che il miglior risultato che si possa ottenere
in Iraq sarebbe quello di un un condominio
di governo fra sciiti e kurdi che, dietro
una facciata democratica, stritolasse
completamente i sunniti. Questo sarebbe
una delusione sul piano morale ma un successo
su quello strategico. Innanzitutto, sarebbe
un’amara sconfitta per i terroristi,
che ne uscirebbero fortemente indeboliti.
Inoltre, lascerebbe in piedi un governo iracheno
che, a causa del suo isolamento all’interno
del mondo arabo, non avrebbe altra
scelta che quella di essere un alleato degli
Stati Uniti (anche se con un partito filoiraniano
a corte).
In verità, un risultato di questo tipo
rafforzerebbe la visione cinica degli arabi e
degli europei, secondo i quali il progetto di
esportazione della democrazia è soltanto
una maschera ipocrita per nascondere gli
interessi degli Yankee. Ma l’isolamento dell’Iraq
darebbe a Washington la forza necessaria
per spingere il governo sciita-curdo a
estendere gradualmente i diritti democratici
a tutta la comunità. Dopo un certo periodo,
questo farebbe rivivere le speranze dei
democratici arabi negli Stati vicini, ancora
una volta aumentando la nostra stessa sicurezza.
Qualsiasi forma assuma, questo processo
sarà probabilmente difficile e caotico. Il
presidente potrebbe pentirsi del modo
sprezzante con cui ha condannato i suoi
predecessori per non avere promosso la libertà
all’estero con maggiore coerenza e rispetto
dei principi. Ma questo porta a considerazioni
che nell’attuale dibattito vengono
trascurate.
Oggi gli Stati Uniti producono circa il 25
per cento del pil mondiale. E’ probabile che
sarà ancora così fra una cinquantina d’anni,
quando però la Cina, l’India e l’Unione europea,
secondo le previsioni, produrranno
rispettivamente il 25 per cento (l’India e la
Cina) e il 10 per cento (l’Ue) del pil mondiale.
Il peso politico dell’India e della Cina
sarà pertanto molto maggiore di quello europeo,
e l’affermazione di questi due paesi
come grandi potenze indebolirà il transnazionalismo
europeo e rafforzerà invece il
multilateralismo pratico degli Stati Uniti
tanto nella lotta contro il terrorismo quanto,
più in generale, nelle vicende di politica
internazionale.
Washington ha già risposto a queste future
realtà politiche avviando una relazione
più stretta con l’India. Ora ha bisogno di
una politica europea più articolata sia per
prevenire la formazione di un asse Ue-Cina
sia per garantire che il peso e la ricchezza
dell’Europa rimangano impegnati a favore
di un Occidente unito. Altrimenti, l’attuale
posizione di superpotenza dell’America
sarà inevitabilmente destinata a declinare
fino al rango di "primus inter pares".
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