martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
11.12.2005 Dossier Spielberg
tre articoli sul nuovo film "Munich"

Testata: Il Foglio
Data: 11 dicembre 2005
Pagina: 2
Autore: Stefania Vitulli - Maurizio Crippa - Marianna Rizzini
Titolo: «Nome in codice vendetta - La baldanzosa idea spielberghiana di far vedere come sono andate le cose. Senza annoiare - Possiamo, oggi, essere gentili?»
IL FOGLIO di domenica 11 dicembre 2005 pubblica a pagina 2 dell'inserto un articolo di Stefania Vitulli, "Nome in codice vendetta", sul nuovo film di Steven Spielberg, "Munich" sulla strage degli atleti israeliani compiuta dal terrorismo palestinese nella città tedesca durante le olimpiadi del 1972.

Ecco il testo:

Vendetta è una parola pericolosa. Perché è sentenziosa. Perché non è ambigua. Perché ad usarla ci vuole coraggio. Sarà per questo che ad agosto Steven Spielberg ha cambiato il titolo del suo ultimo film, in uscita il 23 dicembre in prima mondiale negli Stati Uniti e atteso in Italia per fine gennaio. Secondo il "Guardian" doveva chiamarsi "Vengeance", vendetta, come il libro di George Jonas da cui ha tratto ispirazione. Ma dopo che per mesi ci si era riferiti al film con il ‘titolo’ di lavorazione ovvero "Untitled 1972 Munich
Olympics Project" e nell’impossibilità di marketing di dotare la locandina del
film del sottotitolo esplicativo del libro di Jonas, cioè "La storia vera di una
missione dell’antiterrorismo israeliano", quest’estate la scelta: "Munich",
Monaco, ovvero il punto di partenza della vicenda. Undici atleti israeliani
partecipanti alle Olimpiadi di Monaco, cinque rapitori e un poliziotto tedesco
furono uccisi nel 1972 a seguito del rapimento da parte del gruppo palestinese
Settembre Nero di nove atleti poi divenuti vittime: il libro di Jonas e ora il
film di Spielberg – "una preghiera per la pace" come l’ha definito lo stesso regista nell’unica intervista su "Munich" rilasciata sinora, cover story di "Tim di questa settimana – raccontano parte di quel che seguì. Cioè le contromisure decise da Golda Meir e dal Mossad per mettere in atto un’adeguata "vendetta". Spielberg rivela di essersi tre volte negato a questo film, ovvero di aver rifiutato tre volte di lavorare sul libro di Jonas e sulla storia vera del misterioso agente "Avner" e della sua squadra: cinque uomini incaricati di uccidere gli autori e i mandanti della strage delle Olimpiadi di Monaco. Ci voleva troppo coraggio. Più di quanto ce ne fosse voluto per proporre "Schindler’s List" a un pubblico che ti conosce per "E.T." e "I predatori dell’arca perduta". Più di quanto ce ne fosse voluto per tutto il
sangue e l’interminabile battaglia di "Salvate il soldato Ryan". E Spielberg
proprio non ne voleva sapere. Tanto che ricorda benissimo di aver detto a
chiare lettere alla sua amica di una vita e spesso co-produttrice Kathleen Kennedy, che aveva acquistato i diritti del libro di Jonas nel 1998: "Lo lascio volentieri a qualcun altro. Qualcuno più coraggioso di me". Eppure la Kennedy stava per averla vinta. Il regista aveva quantomeno preso in mano il libro quando l’11 settembre sconvolse il mondo. E i lavori per "Munich" si fermarono di nuovo: un po’ perché a quel punto tirar fuori quella storia sarebbe parso strumentale. Un po’ perché nessuno dei tre copioni tratti fino a quel momento dal volume soddisfaceva il regista. E stiamo parlando di script elaborati da sceneggiatori del calibro di Eric Roth, quello di "Forrest Gump" e "The Insider", come ha rivelato il "New York Times" quest’estate. Per Spielberg nessuno di quei lavori era abbastanza "umanizzato". O forse per quelle sceneggiature ci voleva troppo coraggio. Roth, ad esempio, aveva dedicato ben 15 minuti iniziali del film all’assassinio di Monaco. Troppa violenza, secondo Spielberg. Troppo scioccante. Che fare? "Munich" più che un film si stava rivelando un percorso minato, come ha scritto a luglio il NYT, quando il regista ha iniziato le riprese a Malta, in contemporanea con l’uscita sugli schermi di "La guerra dei mondi". Spielberg ha tentato lo scacco in tre mosse. Mossa numero uno: no marketing e no pubblicità per non alimentare le polemiche (una sola diplomatica dichiarazione prima dell’intervista a "Time", rilasciata al "New York Times", al quotidiano israeliano "Ma’ariv" e alla tv araba "Al Arabiya" in cui si definiscono l’attacco palestinese di Monaco ’72 e la risposta israeliana "un momento determinante nella storia moderna del medio oriente"). Ebbene sì, proprio come Mel Gibson, quando dichiarò che non si sarebbe impegnato nel massacrante battage pre-Oscar per la "Passione di Cristo". Ma come nota "Los Angeles Weekly", il libro da cui era tratto il film di Gibson, ovvero il Nuovo Testamento, gode da secoli di sforzi promozionali
incommensurabili. Mossa numero due: assemblar un’invidiabile Squadra Consulenziale di Prevenzione Proteste (come quelle che accolsero appunto la "Passione di Cristo" di Gibson), che salisse dal proprio rabbino su su fino al diplomatico americano Dennis Ross, cioè l’inviato in Medio Oriente che per conto di Bill Clinton ha guidato i negoziati che da Oslo hanno portato a Camp David e che oggi è consigliere del Washington Institute, e a due guru della comunicazione: Mike McCurry, portavoce dell’ex presidente, ora consulente stratega, e Allan Mayer, specialista di situazioni di crisi, nonché collaboratore di Spielberg in altre occasioni. Non bastasse, pare che Spielberg abbia passato lo script persino al vecchio capo di Ross, ovvero lo stesso Clinton. Lasciando però a casa a mugugnare alcuni personaggi non trascurabili,
tra i quali i grandi veterani del Mossad, come l’ex capo Zvi Zamir, e Abu Daoud, mandante del blitz palestinese, che a più riprese in questi mesi hanno espresso molti dubbi su "Munich", soprattutto in quanto ispirato al libro
di Jonas, fonte ritenuta da loro se non poco attendibile, quantomeno controversa. Tuttavia, anche se nessuno di coloro che contano nel mondo ebraico,
nessun rappresentante del governo israeliano e nessuna autorità palestinese
abbia ancora visto un solo fotogramma ("Che abbiano da friggere pesci più grossi di un film di Spielberg?", ipotizza sempre "LA Weekly"), pare che ci siano (già?) riscontri positivi: Elan Steinberg, direttore del World Jewish
Congress, ci tiene a sottolineare che la statura di Spielberg è ben diversa da quella di Mel Gibson o di Michael Moore: Spielberg è uno che ci sa fare, "conosce la differenza tra umanizzare un terrorista e giustificarlo".
Terza e ultima mossa: una sceneggiatura di impeccabile equilibrio che scivolasse per due ore e mezza senza cedimenti, e creasse personaggi multidimensionali, capaci di preparare le armi, spiare e uccidere, personaggi sospesi su quel sottilissimo filo che separa eccessi da retorica e non lascia agli spettatori il tempo mentale di porsi le fatidiche domande: gli israeliani sembrano sanguinari? I palestinesi sembrano stereotipizzati? Per ottenere il risultato, Spielberg ha deciso di "affiancare" a Eric Roth lo scrittore Tony Kushner, vincitore del Pulitzer per "Angels in America". Quel Kushner non ha
mai scritto una sceneggiatura. Spielberg gli svela che esiste un software chiamato "Scriptor": basta installarlo e non ti devi più preoccupare di niente. E in capo a qualche mese, dalla stesura iniziale di trecento pagine Kushner passa a quella definitiva. Quando Spielberg inizia a girare, ci sarà sul set la continua presenza di Kushner: una modalità fuori dall’ordinario per un film contemporaneo, precisa il "Time". E’ grazie a Kushner che le figure dei palestinesi vengono "umanizzate" e viene dato "un senso profondo alle loro motivazioni". E’ grazie a Kushner che nel film vi sono simboliche scene-chiave
per Spielberg, come quella in cui l’agente del Mossad, Avner, e i palestinesi
idealmente si confrontano sulla causa del conflitto: "anche se sono d’accordo
che di fronte ad una minaccia Israele risponda con fermezza" dichiara Spielberg – l’unico modo per risolvere le cose non è occhio per occhio, come è stato sinora. Ma seduti, a parlarne fino allo sfinimento". Il trionfo del dubbio, il tentativo di un terrorismo dal volto umano? E allora che fine fa la "vendetta"di George Jonas, che per contratto deve comparire nei titoli e che si rifà al racconto di un ex membro del Mossad? Naturalmente, Spielberg ha preso le distanze dal libro di Jonas e ha dichiarato che "Munich" è basato su diverse fonti, incluse alcune interviste ai veri protagonisti della vicenda. Tuttavia, sebbene nessuno dei nomi di questi "consulenti speciali" sia stato reso pubblico, pare che uno di loro sia proprio quel Juval Aviv fondatore della società di intelligence di New York Interfor, autore di svariati volumi sulla sicurezza personale e collaboratore di Fox News Channel, identificato anni fa come il protagonista del libro di Jonas. "Munich" infatti non è il primo film ispirato al libro di Jonas. Nel 1986, la HBO, la stessa di "Angels in America", ne trasse "Sword of Gideon", un film per la tv di tre ore (con Michael York, Colleen Dewhurst e Rod Steiger tra gli altri), in cui soltanto due minuti iniziali erano dedicati a Monaco. Il resto, all’addestramento di Avner e alle azioni della nuova squadra del Mossad. "Vengeance" fu pubblicato per la
prima volta nel 1984 negli Stati Uniti (e in Italia lo stesso anno con il titolo
"Vendetta"). Nella prefazione l’autore, il giornalista George Jonas, settantenne
ebreo ungherese emigrato in Canada nel 1956, autore di 14 tra saggi e romanzi
e oltre duecento tra fiction e documentari per la Canadian Broadcasting Corporation, collaboratore di alcune tra le principali testate inglesi e americane e oggi columnist del "National Post" canadese, scriveva: "Nell’autunno
del 1981, il mio editore mi domandò se ero disposto a incontrarmi con un tale
che aveva un’interessante storia da raccontare. Dopo una serie di elaborati preparativi, venne fissato un incontro in una città del Nord America. E là, in un ufficio, m’incontrai con un individuo che mi fornì la sua versione di un importante episodio della guerra clandestina condotta da Israele contro il terrorismo… Già prima di mettersi in contatto con me, il mio editore si era preoccupato di accertare la bona fides dell’individuo in questione; dopo l’incontro, ho svolto personalmente tutte le indagini che mi sono state possibili, giungendo alla stessa conclusione: ci sembrava evidente che eravamo in presenza di un agente dei servizi segreti israeliani "venuto dal freddo"; il primo, a quanto ci constava". Oggi, Jonas sostiene di non avere commenti da aggiungere a quella nota introduttiva e che se ne avesse, li scriverebbe per conto suo sui giornali con cui collabora. In quelle prime pagine del libro, infatti, Jonas espone la sua posizione con ammirevole chiarezza: "Non mi sento di sottoscrivere il diffuso errore secondo cui il terrorismo è privo di qualsiasi efficacia. A mio parere, un’ipotesi del genere è solo un pio desiderio. Se il terrorismo spesso non riesce a conseguire gli obiettivi desiderati, lo stesso vale per la guerra convenzionale, la diplomazia o
qualsiasi altro evento politico". Al pari di Spielberg e di Kushner, anche Jonas relega l’azione palestinese di Monaco ’72 in un breve prologo chiamato,
appunto, "Monaco". E a pagina 23 già incontriamo il ventiduenne Avner che, israeliano ex combattente nella guerra dei Sei Giorni, all’inizio del maggio
1969 strappa una busta marroncino di apparente provenienza governativa israeliana, consistente di cinque righe in tutto in caratteri ebraici, che suggerisce che, se Avner è interessato a un certo tipo di lavoro, potrà incontrare Moshe Yohanan a Tel Aviv, un caffè all’angolo tra Frishman e Dizengoff. Avner scoprirà presto che Moshe Yohanan è un ometto sulla cinquantina in camicia bianca, che seduto al caffè di Tel Aviv non tarda a venire al dunque: "Senti, che cosa posso dirti? Non so neppure se sei l’uomo giusto, dovremo scoprirlo. Però, se lo sei, il tuo paese ha bisogno di te". Di lì a poco inizierà il corso di addestramento di Avner nel Mossad. Fino a un sabato mattina in cui, a due settimane dall’attacco terroristico di Monaco, a casa di Avner a Tel Aviv alle nove suona il campanello. E’ l’autista del memune, il generale Zvi Zamir, il capo del Mossad. A pagina 84, dopo che l’auto del memune ha percorso la distanza da Tel Aviv a Gerusalemme in meno di un’ora, Avner incontra Golda Meir. Nella stanza con loro, oltre alla guardia del corpo e al generale Zamir, c’è un altro individuo: in uniforme, con le insegne di Israele sulla spalla. Avner lo conosce dai tempi del servizio militare come il generale di brigata Ariel Sharon. Golda Meir introduce il discorso con un lungo prologo su Israele e sul fatto che in passato aveva sempre cercato di non oltrepassare certi limiti per non abbassarsi al livello dei suoi nemici. "Desidero sappiate", dice tuttavia ad un certo punto il primo ministro
guardando Avner, sempre secondo il racconto di Jonas, "che ho preso una decisione. Me ne addosso la completa responsabilità". Sarà Sharon a proseguire, chiarendo ad Avner che viene chiamato a compiere una missione pericolosa, che sconvolgerà la sua vita: "Vorrei solo che l’avessero chiesto a me, di farlo", avrebbe concluso Sharon a voce bassa. "Ricordati di questo giorno avrebbe detto Golda Meir ad Avner prima di uscire dalla stanza. "Ciò che stiamo facendo cambierà la storia ebraica". Una diecina di giorni più tardi, il 25 settembre 1972, Avner, ricevuta da Ephraim, il suo "controllo" (nel film è interpretato da Geoffrey Rush), l’istruzione fondamentale, "Abbiamo deciso di mettere assieme una squadra per annientare i terroristi in Europa", è all’Hotel du Midi di Ginevra, davanti a quattro uomini: il gruppo d’azione di cui da quel momento è il capo. Le ultime parole di un epilogo in cui Jonas cita anche altre fonti oltre al misterioso agente "Avner-Aviv", non lasciano spazio a dubbi riguardo alla posizione dell’autore sulla storia narrata: "In termini di giustificazione morale, si può operare una distinzione tra controterrorismo
e terrorismo, nello stesso modo in cui la si opera tra atti di guerra e crimini
di guerra. I criteri esistono, e come: il terrorismo sta dalla parte sbagliata, il controterrorismo, no. E’ possibile affermare che la causa palestinese è onorevole al pari della causa israeliana; non è possibile sostenere che il terrorismo è altrettanto onorevole della resistenza al terrorismo. In definitiva, tanto la moralità quanto l’utilità della resistenza al terrorismo sono implicite nell’inutitlità e nell’immoralità insite nel non opporvisi".
Sono dichiarazioni come queste che hanno fatto supporre che Jonas si stato, per "Vengeance" soltanto un prestanome, e che la storia sia stata in realtà scritta direttamente dall’ex-agente del Mossad. E’ forse per questo che
"Vendetta" continua ad essere una parola pericolosa. Mentre Munich, in fondo,
è solo il nome di una città.
A pagina 3 dell'inserto Maurizio Crippa, analizzando le opere più recenti del regista spiega "La baldanzosa idea spielberghiana di far vedere come sono andate le cose. Senza annoiare".

Ecco l'articolo:

"A volte abbandono completamente lo stile per il contenuto".
Steven Spielberg

Siamo in corsa contro il tempo per le menti dei nostri giovani". Così Steven
Spielberg in un’intervista al New York Times del marzo 2004. A tema non c’era un suo nuovo film, ma i dieci anni della Shoah Foundation Visual History, il colossale progetto di archiviazione multimediale di testimonianze della
Shoah messo in piedi all’indomani degli Oscar per "Schindler’s list". Ma a tema
– per il più grande e potente maestro dell’intrattenimento che abbia ma lavorato ad Hollywood – ci sono soprattutt le nuove generazioni, che hanno
bisogno di imparare "i pericoli della discriminazione, degli odii razziali e religiosi". E non solo. La grande minaccia che incombe sulle nostre società, è uno dei leitmotiv preferiti del regista di "Minority report", è la perdita di memoria della Storia così come è andata. Pertanto la responsabilità di chi detiene i mezzi di espressione è di attivare il ricordo e la consapevolezza.
E’ la preoccupazione che sta dietro anche all’altro munumentale impegno storico cinematografico di Spielberg, quello di far rivivere – persino visivamente,
fin dentro ai colori emaciati come vecchi bianchi e neri – la memoria fattuale, emotiva e morale della Seconda guerra mondiale e della Great Generation che la combatté e la vinse. Progetto di cui "Salvate il soldato Ryan" è solo uno dei momenti: un altro, accanto alla raccolta di testimonianze e documentazione attivata per e attorno al film, è la serie televisiva "Band of Brothers",
prodotta per la Hbo da Spielberg e dal suo attore feticcio per eccellenza, quasi
un suo alter ego quando ci sono in ballo patriottismo e Grandi Valori, Tom Hanks
("Tom è il vero genio del cinema. E’ un regalo che mi ha mandato il dio del cinema"). Ha spiegato Spielberg a proposito del progetto sul D-Day: "La cosa più
importante per me", "è stata quella di avvicinare le attuali generazioni a quelle di allora per ridurre il divario generazionale esistente, affinché i giovani capiscano e apprezzino quello che i veterani hanno fatto". Quando girò "Schindler’s list", molti pensarono che il signore degli effetti speciali si fosse montato la testa, che ci avrebbe rimesso pubblico e ispirazione, nel passaggio dal mondo dei sogni a quello della realtà effettuale. E ci fu anche
chi pensò che Hollywood si era impadronita ancora una volta di una storia che era invece meglio lasciare a mani più raffinate (europee, of course). Sbagliavano tutti, perché Spielberg aveva bene in mente la sfida intellettuale del suo lavoro, e lo andava anche dicendo. Bastava leggere le interviste: "Quasi
mai, nei miei film, uso il termine ‘comunicare’ per descrivere ciò che voglio fare. Di solito uso l’espressione ‘divertire la gente’. Ma ‘Schindler’s list’ non vuole divertire, il suo scopo è quello di comunicare informazion importanti". L’idea di utilizzare il cinema come una grande macchina per insegnare la storia, prendendosi con magnanimità anche i rischi di una baldanzosa e hollywoodiana ingenuità, era già tutta lì. Anche perché quell’ansia che sarebbe limitativo dire pedagogica, in quanto nasce dal desiderio – dichiarato – di misurarsi con il reale, la storia, il vero, Spielberg ce l’aveva anche prima. A meno di sostenere che "Incontri ravvicinati" non contenesse un buon afflato biblico, o che "L’impero del
sole" non regalasse anche una lettura della guerra più realista e meno stucchevole di tante altre. Sta di fatto che da anni, in mezzo a capolavori di cinema-cinema per cui passerà alla Storia del cinema, Spielberg ha deciso di realizzare anche film con cui passare alla Storia con la maiuscola. E la Storia si intreccia con la storia, ovviamente. Fu ai tempi di "Schindler’s list", che Spielberg iniziò a parlare con puntualità e insistenza dell’influsso che
le sue radici ebraiche esercitavano su di lui, e della responsabilità che ne deriva: "Per la prima volta, con questo film, rendo servizio al mio essere
ebreo", dichiarò, "non avrei immaginato che sarei giunto al punto di considerare
la mia appartenenza ebraica un dono". E nacque il gigantesco progetto di realizzare e catalogare oltre 50 mila interviste ai sopravvissuti della Shoah
in 56 paesi diversi. Progetto dal quale discendono anche il documentario "Last
days" diretto da James Moll e prodotto da Spielberg (Oscar 1998) e i cinque
documentari di "Broken Silence". Ma siccome Spielberg è uno cui un megaprogetto per volta non basta, nel 1994 decise anche di mettere in piedi, con l’ex mago dei cartoon della Disney Jeffrey Katzenberg e il produttore David Geffen, una nuova casa di produzione, la Dreamworks, la casa del bambino che pesca i sogni. Ed è forse all’interno di questo progetto e della sua filosofia alquanto liberal che le idee di Spielberg a riguardo di un cinema storicomorale,
o realistico-didattico che dir si voglia, (ma senza mai dimenticare lo
spettacolo, che altrimenti il bambino che pesca i sogni si annoia) si è andata
precisando. Non è difficile intravvedere, dietro ai successi (e anche ai flop)
della Dreamworks, gli ideali liberal del decennio clintoniano, la tolleranza multietnica e religiosa, la responsabilità civica globalizzata e soprattutto una visione filantropica dei compiti del cinema e in generale dello showbitz. Lasciamolo dire a Katzenberg: "Avevo lavorato per dieci anni con l’etica di Walt
Disney, ‘fare film per bambini e per il bambino che esiste dentro di noi’. Arrivai alla Dreamworks volendo fare film con una nuova etica: fatti per adulti e per l’adulto che esiste dentro ogni bambino". Nelle interviste, Spielberg ripete spesso di essere rimasto fedele alle regole dei boy scout: sincerità, giustizia, generosità, lealtà, tolleranza. Il suo senso dello spettacolo, della storia, non è mai tignoso: Spielberg non è un predicatore indignato, come Oliver Stone. Preferisce essere un buon maestro. E quando si dedica alla storia prova sempre a farlo (se poi ci riesca sempre, è un altro discorso) con la grande veduta. C’entra anche l’ebraismo forse. Un buon pizzico di ebraismo liberal e laico che ha fatto da collante morale a più di un’impresa Dreamworks, dal "Principe d’Egitto" (un film-chiave a suo modo) a "Munich". Detto ancora da Katzenberg: "Successe qualcosa di molto importante per me quando realizzammo ‘Il principe d’Egitto’. Sono religioso e questo è parte
della mia vita". Il grande progetto che domina ormai il lavoro di Steven Spielberg – tanto che quando sforna i suoi nuovi blockbuster d’intrattenimento, come "La guerra dei mondi", l’impressione è che sia il suo secondo lavoro – è di usare la grand fabbrica dei sogni non soltanto per i sogni, ma per provare a incidere sull’immaginario collettivo, dell’America e non solo, e di contribuire a rendere il mondo migliore. Progetto forse eccessivamente liberal e buonista per i tempi che corrono ("per me questo film è una preghiera per la pace", ha detto a proposito di "Munich"). Se nel film che racconta la "vendetta" israeliana per l’attacc terrorista alle Olimpiadi del ’72 Spielberg ha abbandonato il suo credo accettando il realismo politico di Golda Meyer ("ogni civiltà scopre che è necessario scendere a patti con i propri valori"), lo scopriremo a breve. Ma già averlo fatto, il film, qualcosa lo dice. Quel che si può annotare per ora è che quando Spielberg ha ecceduto sulla via predicatoria dei buoni sentimenti liberal e clintoniani, come con "Amistad" o con il più recente "The terminal", è incappato, pure lui, in qualche mezzo flop. Però
ci sono due aspetti di innegabile interesse, in questa ossessione spielberghiana di volere coniugare cinema e storia, intrattenimento ed educazione: il primo, più evidente, è il senso di responsabilità intellettuale
messo in gioco. Il secondo pertiene invece alla consapevolezza che Spielberg ha del proprio mestiere. Famos e celebrato come l’uomo dei sogni, Spielberg ha maturato un’idea di cinema che non teme il realismo. Sono cose che, a dirle, possono far rizzare i capelli, soprattutto qui da noi, dove il cinema non si
è ancora ripreso dal colpo mortale del neorealismo e dei funambolici dibattiti
che, taroccando Giorgy Lukacs, cercavano il mitico e mai trovato passaggio "dal
neorealismo al realismo". Cioè la capacità di raccontare la storia com’è.
Invece Steven Spielberg, senza neanche il sogno di rinnegare Lucas (nel
senso di George) è riuscito – con "Schindler’s list", con "Salvate il soldato
Ryan" – o almeno ci sta provando, a trovare il passaggio dallo spettacolo puro
allo spettacolo della Storia e delle cose vere. Dagli effetti speciali agli affetti speciali. Magari con qualche ingenuità, certo con una buona dose di patriottismo (sarà un caso che nella sua filmografia manchi il Vietnam?). Ma soprattutto con l’idea antisofistica che si possa sapere chi si è e come stanno le cose. E comunicarlo agli altri.
Sempre a pagina 3 dell'inserto Marianna Rizzini si chiede "Perché i registi italiani ed europei non si chiedono:"Possiamo, oggi, essere gentili?""

Di seguito, il testo:

Noi non si potè essere gentili… Vivo in tempi bui, la parola innocente è stolta", scriveva Bertolt Brecht, nel 1939, in "A coloro che verranno", parlando
della sua generazione. Non si potè essere gentili. Una frase che si adatta stranamente, e nonostante lo scarto temporale e ideologico, a "Munich", l’ultimo film di Spielberg sulla reazione israeliana all’attentato di Monaco del 1972, in uscita tra due settimane negli Stati Uniti. O meglio, si adatta a
quello che Spielberg ha fatto trapelare sul film, custodito e centellinato in proiezioni mirate, da un’intervista al settimanale Time. Nel film si parla, anche se ancora non sappiamo come, di "costo della vendetta", dei compromessi
necessari a vivere secondo i valori, i gusti e le abitudini della nostra civiltà. Spielberg si chiede, magari edulcorando la domanda, se oggi l’occidente può essere gentile. Lo fa con un film che ha le caratteristiche di una pellicola di mercato, e che lancia un tema già nell’aria. Era successo prima con "Minority report", il suo film del 2002 in cui si parlava di "arresti preventivi" in piena campagna anti-terrorismo post undici settembre. Che Spielberg abbia una sensibilità speciale, o sia solo fortunato, che si concordi
o meno, una volta visto il film, con il giudizio del critico Leon Wiesielter –
"‘Munich’ è noioso…hanno voluto fare un film allo stesso tempo traumatizzante e inoffensivo, un film che ha paura di se stesso" – non si può fare a meno di
chiedersi se i registi europei si sono posti queste domande: possiamo essere
gentili, oggi? L’ostinazione a volersi dire per forza innocenti, il non volersi
sporcare le mani, ci danneggia? Sono domande che tutta l’Europa comincia a
porsi, anche se riluttante. Gli attentati di New York, Madrid, Londra, i rapimenti in Iraq, il dilemma degli ostaggi in Gran Bretagna, Francia e Italia, gli interrogatori dei presunti terroristi, il dibattito sui confini dell’intelligence pongono dei dubbi. E non è più tanto semplice nasconderli sotto lo striscione della pace. Se si cerca, in giro per l’Europa, un "piccolo Spielberg" che traduca in epica un sussulto della coscienza collettiva,
rendendolo digeribile a più livelli, si fa fatica a trovarlo. Nel senso che, per
la sua storia, per i suoi riferimenti culturali, ma anche per un eccesso di politiche assistenzialiste verso il cinema e per un innamoramento narcisistico per tematiche "tre camere e cucina", il regista e l’autore europeo, quando trattano un tema politico-sociale, tendono a farlo nella modalità "denuncia", con il rischio di fare un film dibattito. Le differenze di assetti produttivi rispetto agli Stati Uniti, riassunte dal leitmotiv "gli americani hanno i soldi", possono spiegare la mancanza di epicità nei film ma non l’assenza di riflessione sull’oggi. Vecchi tic conformisti e incrostazioni anni Settanta sembrano rendere impossibile andare oltre, appunto, gli anni Settanta. I due film italiani più "politici" degli ultimi anni, premiati da pubblico e critica, parlano dei nostri anni di piombo. Sono "Buongiorno, notte" di Marco Bellocchio, in cui la morte di Moro si sovrappone alla morte dell’ideologia
del brigatismo italiano, e "La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana, in cui si segue la crescita della generazione che si è trovata a decidere,
senza essere preparata, da che parte stare. Viene da chiedersi se Bellocchio
e Giordana affrontino un tema ancora aperto – e non solo perché in carcere ci
sono terroristi di colore rosso e nero – o se in Italia non si sia mai allungato lo sguardo "oltre". Resta il fatto che parliamo degli anni Settanta come a voler colmare un ritardo. "Anni di piombo" (l’originale), quello girato da Margarethe von Trotta nel 1981 – la storia di due sorelle, di cui una, terrorista, morta in carcere – è uscito quando gli eventi narrati non erano così diversi da quello che poteva succedere in realtà. Il film di Rainer Werner Fassbinder, "Germania in autunno", esce nel 1978, e racconta quasi in tempo reale un dilemma della ragion di Stato: dopo il sequestro di un banchiere da parte della Raf, il dirottamento di un Boeing e il suicidio in carcere di tre terroristi, vengono adottate misure di sicurezza considerate lesive dei diritti civili. Si teme una caccia alle streghe. Fino a dove può arrivare la legge?
Oggi sono cambiate le fonti di pericolo ma c’è di nuovo un’emergenza da fronteggiare, meno visibile e più insidiosa. Il cinema europeo, però, sembra
poco interessato. Forse ha i suoi tempi. Forse la capacità di cogliere nell’aria
un tema, una domanda, una contraddizion passa attraverso il vizio – o il pregio,
a seconda dei punti di vista – della cosiddetta "mente analitica" europea. Oggi, a più di dieci anni di distanza, la guerra in Bosnia diventa soggetto da
elaborare in un film. Ne parla, senza retorica, con un bel film presentato a
Venezia, la catalana Isabel Coixet in "La vita segreta delle parole". Ma prima
di lei, nel 1995, con tutte le ferite ancora aperte, Emir Kusturica aveva fatto
un’operazione a suo modo spielberghiana con "Underground", film epico e grottesco, d’autore e popolare, dove i Balcani martoriati sono un’esplosione
di personaggi e colori. Il film intrattiene – a volersi far intrattenere – ma sottotraccia parla di ex Jugoslavia, muri caduti, Europa allargata. Nel 2001 Denis Tanovic riesce, con un piccolo film di successo mondiale, a raccontare con
un’ironia amara ma efficace le sacche in cui si è avvoltolata la diplomazia internazionale in Bosnia. Poco spielberghiano – per ritmi ed estetica – è invece
il quadro dell’Europa post 1989 dipinto da Theo Angelopoulos in "Lo sguardo
di Ulisse". Poco spielberghiano per le ragioni opposte – perché minimalista e
satirico – è "Good bye Lenin" di Wolfgang Becker, del 2002, in cui il protagonista deve cercare di evitare uno shock alla mamma, entrata in coma poco prima del crollo del muro e risvegliatasi a muro caduto. Segue tentativo di mascherare il "contagio occidentale", per esempio coprendo le etichette dei prodotti provenienti dall’ovest con quelle staccate da vecchie scatolette. Se in Italia parliamo, oggi, dei nostri anni di piombo non vuol dire che durante i nostri anni di piombo non ci fosse un cinema di riflessione sul reale. Ma parlava di Sud, di mafia, di appalti, di speculazioni, di misteri e omicidi eccellenti. Nel 1972 Francesco Rosi gira "Il caso Mattei" sul mistero della morte del presidente dell’Eni e sul potere delle "sette sorelle" del petrolio. Rosi, maestro del film "politico" italiano, assieme con Elio Petri, ha sempre definito la storia "l’occhio più lucido". In "Mani sulla città", del 1963, si fa "occhio" della Napoli della speculazione edilizia. Ci sono anche casi di "autocelebrazione" sessantottina. In "Lettera aperta a un giornale della Sera" Francesco Maselli ritrae un gruppo di giovani intellettuali annoiati che pensa di mettere in piedi una brigata "per il Vietnam". Intanto quegli stessi intellettuali descritti da Maselli guardavano, temendo per il futuro dell’Italia, "Z-l’orgia del potere" di Costantin Costa Gavras, film sul regime dei colonnelli. Perché, e sarebbe bello saperlo dagli addetti ai lavori, oggi, in Italia e nell’Europa occidentale, si tende a non fare film sul presente? Film, e non documentari, non docufilm militanti alla Michael Moore (e alla "Viva Zapatero" di Sabina Guzzanti), non altri film di Nanni Moretti alla ricerca di un D’Alema di sinistra, non nuovi Benigni in cui mischiare il diavolo, la poesia, le barzellette, l’olocausto e l’amore coniugale.
Ma, magari, film sui rapimenti in Iraq. O su Tangentopoli, sui processi, sui suicidi. Sul dilemma garantismo-sicurezza. Sul modo in cui il terrorismo internazionale si riflette sull’immigrazione. I film italiani su temi politici, negli ultimi quindici anni, hanno scelto modalità non spielberghiane. Oscillano tra il film d’autore e il film dossier. Alcuni hanno raggiunto un successo di pubblico, e forse hanno trovato una chiave per rendere di intrattenimento un tema politico. Per esempio, "Lamerica" di Gianni Amelio (del 1994), che parla di
Italia e Albania proprio negli anni dell’emergenza "immigrazione albanese" , e "Il Muro di gomma" Di Marco Risi (del 1990) che rilancia il dibattito su
Ustica. Marco Bechis, invece, ha ottenuto successo e premi con "Garage Olimpo" (1999), ambientato in una cella di tortura durante la dittatura argentina. E quest’anno stava per ottenere una candidatura all’Oscar "Private" di Saverio
Costanzo, film sul conflitto araboisraeliano che però non si pone domande.
Non si chiede né se gli israeliani oggi possano permettersi di essere gentili né se i palestinesi pensino a "come" superare davvero il passato. L’immigrazione e l’integrazione sono temi della nouvelle vague del cinema
inglese e francese, ma con uno sguardo al "piccolo", a differenza di
Spielberg. Mathieu Kassovitz ha avuto una premonizione sui disordini nelle
banlieues di oggi, nel film "L’odio", girato dieci anni fa. La banlieu si fa invece cornice, e la denuncia è addolcita dalla storia di una recita adolescenziale, in "La schivata" di Abdellatif Kechiche. Il romano Matteo Garrone racconta la vita di due cugini albanesi a Roma in "Ospiti" (1998).
Stephen Frears in "Dirty pretty things" si immerge nella Londra sommersa
degli alberghi dove lavorano i "senzanome" clandestini. Il tema multietnico
è diventato "macchietta" in "East is East" di Damien O’Donnell del 1999, storia di un padre-padrone pachistano a Londra, incubo dei figli ribelli. Una cosa colpisce: in nessuno di questi film si parla di integralismo. Cade nella macchietta multietnica anche Ken Loach, che nel 2004 gira "Un bacio appassionato", un Giulietta e Romeo multirazziale. Ken Loach è forse l’anti-Spielberg europeo. I suoi film, prima anti-Thatcher poi anti capitalismo
in generale, non possono porre dubbi perché si schierano al punto che lo spettatore non ha scampo. O sottoscrive o dice: "Uffa, è il solito Loach".
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT