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Il Foglio Rassegna Stampa
09.12.2005 Sharon va avanti, l'Anp no
la vita democratica israeliana e l'immobilismo palestinese in una pagina di informazione e analisi

Testata: Il Foglio
Data: 09 dicembre 2005
Pagina: 3
Autore: Amy E Rosenthal - Yacob Iren - Anna Barducci Mahjar
Titolo: «Sharon va avanti, l’Autorità palestinese no. Michael Oren ci dice perché - Le figlie dei generali -Labor mio»
IL FOGLIO di venerdì 9 dicembre 2005 pubblica l'articolo di Amy E. Rosenthal "Sharon va avanti, l’Autorità palestinese no. Michael Oren ci dice perché", un'intervista allo storico Michael Oren.

Ecco il testo:

Sono passati più di cinque anni da quando
il presidente degli Stati Uniti William
J. Clinton ha invitato a Camp David l’ex primo
ministro israeliano, Ehud Barak, e il
presidente dell’Autorità palestinese, Yasser
Arafat, insieme con altri funzionari e consiglieri,
per negoziare un accordo definitivo
sul conflitto israelo-palestinese basato sugli
accordi di Oslo. Durante questi colloqui –
secondo la versione americana e israeliana
– i palestinesi avrebbero potuto ottenere il
93,4 per cento della Cisgiordania, tutta la
Striscia di Gaza e metà di Gerusalemme.
L’offerta iniziale, la più generosa mai fatta
da Israele ai palestinesi, fu mal accolta, rifiutata
da Arafat con un secco "no". Le due
parti tornarono al tavolo dei negoziati e ai
palestinesi fu fatta una proposta ancora più
generosa: il 96,5 per cento della Cisgiordania,
e il restante 3,5 per cento sarebbe stato
compensato con la concessione di territori
nel Negev, nelle vicinanze di Gaza. Arafat
rispose ancora "no". A Camp David i tre
principali ostacoli al raggingimento di un
accordo sono stati i Territori, Gerusalemme
est e la sovranità sull’area del Tempio (chiamata
dai palestinesi haram al Sharif) e il diritto
al ritorno dei profughi palestinesi.
Come sottolinea lo storico Michael Oren
– autore del bestseller "La guerra dei sei
giorni" – "i palestinesi volevano tutta la Cisgiordania
anche se inizialmente sembrava
che fossero disposti ad accettare la proposta
della compensazione con territori nella
regione del Negev. Ma non erano disposti a
concedere il controllo del Muro occidentale
e pretendevano che a milioni di palestinesi
fosse concesso il diritto di ritornare
nelle case che avevano abbandonato nel
1948, un diritto che, se fosse stato concesso,
avrebbe di fatto trasformato Israele in uno
Stato palestinese. Israele ha rifiutato queste
richieste perché non era disposta a lasciare
il Muro occidentale, a rinunciare a tutti gli
insediamenti in Cisgiordania e a permettere
che milioni di profughi palestinesi tornassero
indietro". Così, il negoziato di Camp
David si è concluso con un fallimento, mitigato
da un insignificante comunicato: una
dichiarazione trilaterale nella quale si concordavano
ulteriori negoziati, si auspicava
la fine del conflitto, si riconoscevano le Risoluzioni
242 e 338 del Consiglio di sicurezza
dell’Onu che chiedevano alle due parti di
intavolare negoziati non sottomessi a pressioni,
intimidazioni e violenze, e si stabiliva
che le due parti avrebbero evitato di prendere
iniziative unilaterali, accettando la
mediazione degli Stati Uniti.
Nei mesi successivi Clinton – ormai alla
scadenza del suo secondo mandato – cercò
disperatamente di chiudere la presidenza
con un accordo tra israeliani e palestinesi
che avrebbe posto fine al conflitto e avviato
la creazione di uno Stato palestinese. Ma,
come ricorda ancora Oren, "la sola risposta
di Arafat a quell’offerta senza precedenti fu
di permettere, e talvolta persino appoggiare,
una guerra terroristica contro Israele,
che ha provocato migliaia di vittime da entrambe
le parti e che ha ridotto a pezzi l’Autorità
palestinese". Nel dicembre del 2000,
malgrado i continui attacchi terroristici palestinesi
contro Israele, Clinton invitò nuovamente
Arafat e Barak a Washington e poi,
nel gennaio 2001, nella città di Taba, in Egitto.
Ma anche in questi ultimi incontri, Arafat
non cedette nemmeno di un passo.
I protagonisti stavano per cambiare.
L’amministrazione Clinton non era ormai
più in carica e la nuova squadra di George
W. Bush si stava ancora insediando. Questa
è stata anche la fine del processo di pace
durante il governo Barak e, anzi, la fine di
tutto il processo di Oslo, iniziato a Madrid
nel 1991. Per quanto Barak continuasse a fare
nuove concessioni ai palestinesi, all’inizio del 2001 le sue proposte non erano oramai
più condivise né dall’opinione pubblica
israeliana né dalla Knesset, a causa dell’inizio
della seconda Intifada nel settembre
2000. Come disse Dore Gold, presidente del
Jerusalem Center for Pubblic Affairs, nel
maggio 2001: "Nel periodo tra il settembre
2000 e il febbraio 2001, Arafat si era forse
convinto che la violenza dell’Intifada funzionava,
perché Israele continuava a negoziare
sotto il fuoco, proponendo a Taba concessioni
ancora più generose di quelle che
erano state fatte a Camp David". Ariel Sharon
ha posto fine a questa tendenza, attuando
una politica intesa a isolare Arafat e colpire
duramente il terrorismo palestinese.
All’inizio il summit di Camp David rinnovò
le speranze di tutti gli israeliani che
avevano creduto nel processo di pace di
Oslo, nella possibilità di una soluzione a
due Stati e nella concessione di terre in
cambio di un "pacifico divorzio". Gli anni
precedenti il summit non erano stati facili:
l’assassinio di Ytzhak Rabin nel 1995 per
mano di un cittadino israeliano e la vittoria
di Benjamin Netanyahu alle elezioni del
1996, da sempre opposto al processo di Oslo,
sembravano avere messo la parola fine alle
trattative. Ma la vittoria di Barak nel 1999
aveva portato non soltanto alla ripresa del
processo ma anche all’inizio di una nuova
alba, nella forma di serie discussioni in
Israele sulla cessione di parti di Gerusalemme
e sulla possibilità di concessioni di territori
per una concreta soluzione a due Stati.
Così, quando nel 2000 iniziarono i negoziati
di Camp David, i giornali israeliani
erano pieni di articoli che parlavano di come
fosse stato spezzato un tabù.
Era l’inizio di ciò che Oren ha definito un
nuovo paradigma storico", l’accettazione,
da parte di una larga maggioranza di israeliani,
del fatto che l’unica soluzione era
quella di due Stati. Oren spiega questo mutamento:
"Gli israeliani si sono finalmente
resi conto del fatto che tra il Giordano e il
Mediterraneo esiste quasi una parità tra
ebrei e arabi. E’ stupefacente che non se
siano accorti prima". Fa una pausa, e poi
esclama: "Ma alcuni di noi se n’erano accorti
già da tempo!". E aggiunge: "Gli israeliani
si sono resi conto che soltanto uscendo
dalle aree a forte densità palestinese e permettendo
ai palestinesi di avere un proprio
Stato, Israele poteva rimanere uno Stato
ebraico, democratico e sicuro. Questo è stato
il punto di svolta. La maggioranza della
popolazione israeliana ha smesso di considerare
l’idea di uno Stato palestinese come
una mortale minaccia per l’esistenza di
Israele e ha cominciato a considerarlo come
l’unica opzione che poteva garantire
propria la sua esistenza". Camp David suscitò
reazioni contrastanti tra la popolazione
palestinese. Come sottolinea Oren, "alcuni
palestinesi erano felici del fatto che
Israele fosse pronto ad accettare uno Stato
palestinese in Cisgiordania e a Gaza, mentre
altri, come gli esponenti di Hamas e del
Jihad islamico, non se ne curavano minimamente.
Non c’è stato ancora un leader palestinese
che, prima o dopo Camp David, abbia
detto che la soluzione a due Stati è la soluzione
definitiva. Tutti la considerano come
una soluzione temporanea sulla via di
uno Stato palestinese binazionale".
Il fallimento dei negoziati di Camp David
è stato dettato dai ripetuti "no" di Arafat.
Come ha detto Clinton dopo la morte del
rais nel novembre 2004, "Arafat ha perso
un’opportunità straordinaria per creare
una pace duratura e realizzare il sogno di
uno Stato palestinese". Ecco il giudizio di
Oren sul rais: "E’ stato soltanto nell’estate
del 2000 che la maggior parte degli israeliani
ha dovuto ammettere che Arafat non era
quel pacificatore che avevano creduto e che
la loro originaria negativa impressione era
quella giusta. Nei negoziati di Camp David,
Arafat rifiutò la proposta israelo-americana
di quella soluzione a due Stati che i palestinesi
avevano chiesto per quarant’anni. Con
ciò la parabola della carriera di Arafat – da
terrorista a vincitore del premio Nobel e
nuovamente a terrorista – si è solidificata
nella coscienza pubblica. Gran parte degli
israeliani è oggi convinto che Arafat non abbia
mai avuto intenzione di arrivare alla pace,
e che abbia semplicemente usato il processo
di Oslo come uno strumento per realizzare
il piano formulato dall’Olp nel 1974,
che prevedeva la graduale distruzione di
Israele attraverso un uso combinato della
violenza e della democrazia".
Israele continua a sostenere che non esiste
alcuna classe dirigente palestinese affidabile
con la quale poter negoziare, e questo
ha portato Sharon alla seguente conclusione:
l’unica soluzione sta in un ritiro unilaterale.
Oren, che si è arruolato tra i riservisti
per monitorare il ritiro unilaterale di
Israele, spiega: "La maggioranza degli israeliani
oggi si rende conto che negli ultimi
cinque anni la battaglia contro i palestinesi
non ha riguardato i confini, gli insediamenti
o Gerusalemme, bensì noi stessi. Gli israeliani
si sono resi conto che non possono attendere
a tempo indefinito che i palestinesi
risolvano i loro problemi; se necessario,
prenderemo provvedimenti in modo unilaterale.
E’ molto semplice". I palestinesi, a
loro volta, sostengono che gli israeliani non
hanno ancora proposto un piano di pace accettabile
dall’Anp e considerano il ritiro
unilaterale voluto dal premier Sharon come
un modo per aggirare la richiesta palestinese
di un ritiro da tutti i territori occupati nel
1967. Per di più, il disimpegno unilaterale è
considerato dai palestinesi come un tentativo
israeliano di definire i confini autonomamente,
senza alcun negoziato con la parte
palestinese. Sebbene all’inizio di quest’anno
i palestinesi abbiano votato ed eletto
Abu Mazen, Oren rimane scettico: "Dipende
tutto dalla capacità della leadership palestinese
di prendere decisioni difficili come
lo smantellamento delle organizzazioni
terroristiche, e se saprà arrivare a un qualche
tipo di accordo con Israele su Gerusalemme
e il ritorno dei profughi".
Oggi, anziché il presidente dell’Anp Arafat,
che incarnava il ruolo dell’uomo che non
voleva la pace, c’è il presidente Abu Mazen
che recita la parte dell’uomo che opera per
il bene. Oren, per quanto continui a essere
scettico, dichiara: "E’ meglio lavorare con
Abu Mazen, perché lui almeno parla di pace.
Soltanto raramente si riferisce ai martiri – gli
attentatori suicidi – ringraziandoli per avere
offerto la loro vita alla causa palestinese. C’è
una sostanziale differenza tattica, semantica
e retorica tra Arafat e Abu Mazen". Sebbene
Oren ammetta che "sostanzialmente non c’è
alcuna differenza tra di loro", sottolinea la
differenza sul piano della retorica: "Abu Mazen
parla di pace e non proclama che gli
israeliani avvelenano le balene, si sbarazzano
senza scrupoli dell’uranio impoverito e
infettano i bambini palestinesi con il virus
dell’Aids, come faceva Arafat".
Poi Oren spiega: "Un notevole numero di
palestinesi, forse addirittura la maggioranza,
non ne può più di guerra e di carneficine.
Rispetta i martiri per quello che hanno
compiuto, ma vuole un po’ di pace. Questo
non significa che i palestinesi stanno per rinunciare
agli obiettivi di lungo termine, come
il ritorno dei profughi e il possesso di
Gerusalemme, ma vogliono avviare un processo
diplomatico che consenta di rendere
più stabile la loro vita. Il problema è che
Arafat ha apertamente incoraggiato i palestinesi
a rifiutare uno Stato ebraico entro
qualsiasi tipo di confine e impegnarsi nella
sua distruzione. Mentre i libri di scuola
israeliana sono stati riscritti per educare le
future generazioni alla pace, quelli palestinesi,
ponendo l’accento sulla terribile situazione
dei profughi, esaltano la gloria del
martirio e il coraggio degli attentatori suicidi".
Non è un segreto che Hamas non abbia
mai accettato l’esistenza dello Stato di
Israele. Proprio a causa della sua continua
esortazione alla violenza, la partecipazione
di Hamas alle prossime elezioni palestinesi
– il 25 gennaio 2006 – è un punto di dissenso.
"Secondo una certa scuola di pensiero –
spiega Oren – il fatto che Hamas si presenti
alle elezioni municipali è un’ottima cosa, in
quanto, entrando a far parte del governo,
dovrà cessare di battere il tasto della liberazione
e dell’islamizzazione, sarà costretto
a preoccuparsi di cose pratiche, come gli
impianti fognari e l’illuminazione stradale".
Resta la diffidenza: "Non dimentichiamoci
che in Iran c’è un governo islamico che
non si limita affatto a curarsi delle fogne e
dei lampioni. Perciò, non c’è nessuna garanzia
che sarà così. Al momento c’è una piccola
differenza tra Hamas e Fatah. Hamas non
rinuncerà alla lotta armata e continua a proclamare
la distruzione dello Stato di Israele.
Fatah, invece, ritiene che questo obiettivo
debba essere raggiunto gradualmente: prima
con la diplomazia e la creazione di uno
Stato palestinese, anzi, la creazione di uno
Stato palestinese democratico, come dicono
loro stessi". Da Camp David in poi gli israeliani
hanno compreso che una soluzione a
due Stati è nel loro interesse e sono pronti a
lavorare per trasformare questo progetto in
realtà. I palestinesi hanno cambiato leader,
ma i temi sono sempre uguali. "Israele ha dimostrato
ai palestinesi – conclude Oren –
che il terrorismo non è in grado di distruggerlo.
Anzi lo rende più forte. Israele continuerà
a cercare la pace, sul piano politico e
su quello diplomatico. Se i palestinesi vogliono
raggiungere lo stesso obiettivo è necessario
che l’Anp si sforzi di mettere fine al
terrorismo e muti la propria strategia".
Amy E. Rosenthal
(traduzione di Aldo Piccato)
Yacob Iren nell'articolo "Le figlie dei generali" indaga sulle posizioni politiche di Dalia Rabin e Yael Dayan:
Le figlie dei generali si dileguano e potrebbero
non partecipare alle prossime
elezioni politiche per la Knesset, il
Parlamento israeliano. Dalia Rabin Pelossoff
è la figlia di Ytzhak Rabin, capo di
Stato maggiore di Tsahal, l’esercito israeliano,
e successivamente ministro della
Difesa e premier. Lo scorso 4 novembre si
è celebrato il decimo anniversario del suo
assassinio per mano di Ygal Amir nella
piazza dei Re di Israele, kikar Malchei
Israel, oggi diventata piazza Rabin. Era un
duro, Ytzhak. Allo scoppio della prima Intifada
fu lui – si dice – a dare l’ordine ai
soldati di spezzare le braccia ai ragazzi
che lanciavano pietre.
Negli anni le sue convinzioni, come
quelle del paese, sono cambiate. Quando
sembrava che Yasser Arafat avesse deposto
il fucile e rinunciato a cacciare gli
ebrei in mare, Rabin è stato l’uomo della
pace, l’artefice degli accordi di Oslo, della
stretta di mano sul prato della Casa Bianca.
Dalia lo ha seguito su questa strada. E’
stata deputata laburista, ma, dopo le ultime
elezioni, dirige il Centro sorto in memoria
del padre. Amir Peretz – il neoeletto
baffuto segretario di Avoda, il partito di
Rabin, che ha deciso di ritirarsi dal governo
di unità nazionale con il premier Ariel
Sharon scatenando la trasformazione politica
delle ultime settimane, che ha portato
alla costituzione di un nuovo partito da
parte di Arik, Kadima, che attrae politici
a destra e a sinistra – l’ha richiamata e la
vorrebbe nella propria squadra. Dalia ancora
non ha deciso, ha detto al Foglio,
scioglierà le riserve nei prossimi giorni. I
maligni dicono che stia valutando come
non perdere il controllo del Centro da lei
presieduto e tramite il quale gestisce un
cospicuo budget.
Chi sicuramente dice che non si candiderà
alle prossime elezioni è Yael Dayan.
La figlia di Moshe Dayan, il generale con
l’occhio bendato, il primo bambino nato in
un kibbutz. I critici dicono che soltanto i
suoi grandi meriti militari fecero passare
sotto silenzio il fatto che, mentre combatteva
gli egiziani nel Sinai, contemporaneamente
saccheggiava siti archeologici. Particolari.
La figlia per dieci anni "bellissimi"
è stata deputata laburista alla Knesset.
Parla con un vocione pari soltanto alla sua
fermezza. Con energia ha presieduto la
Commissione per la parità dei diritti.
Poi suo figlio ha sposato la figlia di Yossi
Sarid, leader uscente del Meretz, il partito
socialista e pacifista, arcinemico del
premier, Ariel Sharon. Molte cene di famiglia
dopo, Yael passa nel movimento del
consuocero. L’anno scorso si candida alle
municipali di Tel Aviv e diventa vicesindaco.
Proprio in questi giorni il Meretz celebra
il proprio congresso, un evento affatto
scontato: il leader pacifista, Yossi Beilin ha
detto che, se Sharon dovesse formare il
prossimo governo, Meretz andrebbe con
lui. Diversi deputati attuali hanno però già
svolto due legislature e per essere confermati
nelle liste elettorali devono ricevere
il 60 per cento dei consensi dei congressisti.
Una regola che in molti, tra i deputati
uscenti, vorrebbero cambiare.
"Mancano quattro lunghi mesi"
Yael al Foglio conferma che, pur non
candidandosi, lavorerà per far crescere il
suo nuovo partito, la sua nuova casa.
"Spero soltanto che Kadima, il nuovo partito
di Sharon, porti via quanti più voti
possibili al Likud". Secondo Dayan, i due
acquisti laburisti di Sharon – l’anziano
leader premio Nobel Shimon Peres e
Haim Ramon, già segretario dell’Histadrut,
il potentissimo sindacato israeliano
da cui proviene anche il nuovo leader laburista,
Peretz – non faranno passare voti
da Avoda a Kadima, ma consentiranno
alla formazione di Sharon di posizionarsi
al centro. "Ma è presto per dire che Kadima
sia forte come i sondaggi oggi rilevano.
Mancano quattro mesi alle elezioni.
Quattro lunghi mesi. E se anche Sharon
dovesse vincere, escludo che sia realizzata
la riforma presidenzialista all’americana
di cui si parla in questi giorni".
Yael vede male anche i laici di Shinui,
(Rinnovamento) autori di due exploit elettorali
di fila che hanno permesso al partito
di passare da sei a quindici deputati in
Parlamento, diventando terza forza politica
in Israele. Al consiglio comunale nella
laicissima Tel Aviv si governa senza di loro.
"Non vogliono avere rapporti con i religiosi,
nemmeno nella nostra città, dove sono
proprio pochi. E alla Knesset avevano
una forza enorme, ma non hanno combinato
nulla di concreto. Torneranno a cinque
deputati". Se le previsioni di Yael Dayan
fossero confermate, Shinui ridurrebbe a
un terzo i suoi voti.
Nell'articolo "Labor mio" Anna Barducci Majar analizza lo stato di salute politica del partito laburista israeliano guidato da Amir Peretz.

Ecco il testo:

Nelle ultime settimane, il nuovo partito
Kadima del premier israeliano, Ariel
Sharon, è sempre stato il favorito nei sondaggi.
Fino a qualche giorno fa, però, il primo
ministro sembrava aver trovato nella
nuova guida laburista, Amir Peretz, un altro
"bulldozer" – soprannome di Sharon –
pronto a vincere le prossime elezioni a ogni
costo. I due leader hanno infatti cambiato
il panorama e le alleanze politiche, seguendo
precisi giochi di strategia. Sharon ha
portato dalla sua parte Haim Ramon, laburista
e sindacalista, per prevenire l’eventuale
vuoto dell’ex leader di Avoda, Shimon
Peres, che aveva inizialmente appoggiato il
premier, per poi rimandare la scelta. Peretz,
conoscendo il modo per riportare Peres
da lui, gli aveva offerto un ruolo di rilievo
nel partito. Ma Peretz ha poi cambiato
idea. Alcuni laburisti dicono al Foglio che
molti membri di Avoda si sono lamentati di
dover assicurare una poltrona a Peres, che
– come lo aveva definito lo stesso ex premier
israeliano, Ytzhak Rabin – ha la fama
in certi ambienti di essere un "cospiratore".
Un leader di cui non ci si può fidare.
Il neoleader laburista ha così abbandonato
Peres – sperando di poter giocare altre
carte – dopo aver rifiutato un "seggio garantito"
sia a lui sia alla sua fedele Dalia Itzikh,
ministro della Comunicazione. Uno
dei vari motivi di questa rottura – raccontano
fonti di Avoda al Foglio – è che Peretz
non voleva accettare nel pacchetto anche
Dalia, che l’aveva offeso quando non si era
vista convocata, insieme con Peres, al primo
incontro dopo le primarie. La colomba
laburista è così volata via definitivamente
da Avoda assieme a Dalia, raccontando il
suo dolore ai media dopo 46 anni nel partito
e annunciando il suo appoggio a Kadima.
Sharon adesso ha così dalla sua parte un
leader di spessore internazionale che tiene
al centro il nuovo partito. Peres, tuttavia,
non è ancora un membro "ufficiale" di Kadima.
I mass media israeliani vociferano
che il premier avrebbe promesso al nuovo
alleato o un seggio sicuro o di diventare il
prossimo presidente. Dalia, invece, ha ottenuto
il suo ministero.
Sharon al momento sembra essere il vincitore
delle prossime elezioni. Gli esponenti
di Kadima sono considerati di più spessore
rispetto a quelli di Avoda e ora anche
il numero uno del Likud, Tzachi Hanegbi,
si è spostato nel nuovo partito. Peretz ha
chiamato a sé una star mediatica, Sheli
Yehimowitz, e Arye Amit, veterano generale
della polizia a Tel Aviv e Gerusalemme,
che non ha mai brillato per grande personalità.
L’unico personaggio interessante tra
i laburisti sembra quindi essere il rettore
dell’Università Ben Gurion, Avishai Braverman.
Soltanto una settimana fa, i media israeliani
avevano annunciato che Ehud Barak,
ex premier israeliano, sarebbe entrato nella
lista elettorale di Avoda. Questa strategia
avrebbe permesso – secondo gli analisti politici
– di portare i laburisti in testa ai sondaggi
grazie all’esperienza in tema di sicurezza
di Barak. Ma Peretz ha deciso di scegliere
un altro percorso e non gli ha promesso
alcun seggio. Così l’ex premier ha
deciso di rimanere all’interno del partito
per complicare la vita a Peretz.
Un programma con un grande buco
Sharon al momento non ha ancora un
programma economico, se non quello di far
distribuire al ministro delle Finanze, Ehud
Olmert, soldi alla popolazione per rimediare
ai disagi sociali creati da Benjamin Netanyahu.
La sua campagna si basa principalmente
sulla risoluzione del conflitto
israelo-palestinese. E Sharon ha già dichiarato
implicitamente di voler essere l’eroe
di guerra che dopo il disimpegno da Gaza
riuscirà a riportare la pace. Peretz gioca invece
la parte del sindacalista e, facendo leva
sui bisogni economici della popolazione,
si preannuncia come l’uomo che risolleverà
le finanze degli israeliani. Peres, per
ostacolare da subito Avoda, ha dichiarato
che soltanto "la pace (ovvero il piano elettorale
di Sharon, ndr) porterà a una buona
economia". Il premier però ha annunciato
che presto renderà noto un "programma di
battaglia contro la povertà", che toglierebbe
ulteriori punti a Peretz. Il leader laburista
infatti, se Sharon si presenta sia con un
piano per la sicurezza sia con uno per l’economia,
è destinato a perdere le elezioni. Secondo
la stampa israeliana, Barak, considerato
un leader all’altezza degli stessi gesti
"coraggiosi" del premier, avrebbe potuto risollevare
le sorti di Avoda, che rimane
sprovvisto di un programma per la risoluzione
del conflitto. Peretz ha però portato
con sé alcuni generali come Benjamin Ben
Eliezer ed Ephraim Sneh, per mostrare di
non aver bisogno di Barak.
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