Sharon va avanti, l'Anp no la vita democratica israeliana e l'immobilismo palestinese in una pagina di informazione e analisi
Testata: Il Foglio Data: 09 dicembre 2005 Pagina: 3 Autore: Amy E Rosenthal - Yacob Iren - Anna Barducci Mahjar Titolo: «Sharon va avanti, l’Autorità palestinese no. Michael Oren ci dice perché - Le figlie dei generali -Labor mio»
IL FOGLIO di venerdì 9 dicembre 2005 pubblica l'articolo di Amy E. Rosenthal "Sharon va avanti, l’Autorità palestinese no. Michael Oren ci dice perché", un'intervista allo storico Michael Oren.
Ecco il testo: Sono passati più di cinque anni da quando il presidente degli Stati Uniti William J. Clinton ha invitato a Camp David l’ex primo ministro israeliano, Ehud Barak, e il presidente dell’Autorità palestinese, Yasser Arafat, insieme con altri funzionari e consiglieri, per negoziare un accordo definitivo sul conflitto israelo-palestinese basato sugli accordi di Oslo. Durante questi colloqui – secondo la versione americana e israeliana – i palestinesi avrebbero potuto ottenere il 93,4 per cento della Cisgiordania, tutta la Striscia di Gaza e metà di Gerusalemme. L’offerta iniziale, la più generosa mai fatta da Israele ai palestinesi, fu mal accolta, rifiutata da Arafat con un secco "no". Le due parti tornarono al tavolo dei negoziati e ai palestinesi fu fatta una proposta ancora più generosa: il 96,5 per cento della Cisgiordania, e il restante 3,5 per cento sarebbe stato compensato con la concessione di territori nel Negev, nelle vicinanze di Gaza. Arafat rispose ancora "no". A Camp David i tre principali ostacoli al raggingimento di un accordo sono stati i Territori, Gerusalemme est e la sovranità sull’area del Tempio (chiamata dai palestinesi haram al Sharif) e il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Come sottolinea lo storico Michael Oren – autore del bestseller "La guerra dei sei giorni" – "i palestinesi volevano tutta la Cisgiordania anche se inizialmente sembrava che fossero disposti ad accettare la proposta della compensazione con territori nella regione del Negev. Ma non erano disposti a concedere il controllo del Muro occidentale e pretendevano che a milioni di palestinesi fosse concesso il diritto di ritornare nelle case che avevano abbandonato nel 1948, un diritto che, se fosse stato concesso, avrebbe di fatto trasformato Israele in uno Stato palestinese. Israele ha rifiutato queste richieste perché non era disposta a lasciare il Muro occidentale, a rinunciare a tutti gli insediamenti in Cisgiordania e a permettere che milioni di profughi palestinesi tornassero indietro". Così, il negoziato di Camp David si è concluso con un fallimento, mitigato da un insignificante comunicato: una dichiarazione trilaterale nella quale si concordavano ulteriori negoziati, si auspicava la fine del conflitto, si riconoscevano le Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che chiedevano alle due parti di intavolare negoziati non sottomessi a pressioni, intimidazioni e violenze, e si stabiliva che le due parti avrebbero evitato di prendere iniziative unilaterali, accettando la mediazione degli Stati Uniti. Nei mesi successivi Clinton – ormai alla scadenza del suo secondo mandato – cercò disperatamente di chiudere la presidenza con un accordo tra israeliani e palestinesi che avrebbe posto fine al conflitto e avviato la creazione di uno Stato palestinese. Ma, come ricorda ancora Oren, "la sola risposta di Arafat a quell’offerta senza precedenti fu di permettere, e talvolta persino appoggiare, una guerra terroristica contro Israele, che ha provocato migliaia di vittime da entrambe le parti e che ha ridotto a pezzi l’Autorità palestinese". Nel dicembre del 2000, malgrado i continui attacchi terroristici palestinesi contro Israele, Clinton invitò nuovamente Arafat e Barak a Washington e poi, nel gennaio 2001, nella città di Taba, in Egitto. Ma anche in questi ultimi incontri, Arafat non cedette nemmeno di un passo. I protagonisti stavano per cambiare. L’amministrazione Clinton non era ormai più in carica e la nuova squadra di George W. Bush si stava ancora insediando. Questa è stata anche la fine del processo di pace durante il governo Barak e, anzi, la fine di tutto il processo di Oslo, iniziato a Madrid nel 1991. Per quanto Barak continuasse a fare nuove concessioni ai palestinesi, all’inizio del 2001 le sue proposte non erano oramai più condivise né dall’opinione pubblica israeliana né dalla Knesset, a causa dell’inizio della seconda Intifada nel settembre 2000. Come disse Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Pubblic Affairs, nel maggio 2001: "Nel periodo tra il settembre 2000 e il febbraio 2001, Arafat si era forse convinto che la violenza dell’Intifada funzionava, perché Israele continuava a negoziare sotto il fuoco, proponendo a Taba concessioni ancora più generose di quelle che erano state fatte a Camp David". Ariel Sharon ha posto fine a questa tendenza, attuando una politica intesa a isolare Arafat e colpire duramente il terrorismo palestinese. All’inizio il summit di Camp David rinnovò le speranze di tutti gli israeliani che avevano creduto nel processo di pace di Oslo, nella possibilità di una soluzione a due Stati e nella concessione di terre in cambio di un "pacifico divorzio". Gli anni precedenti il summit non erano stati facili: l’assassinio di Ytzhak Rabin nel 1995 per mano di un cittadino israeliano e la vittoria di Benjamin Netanyahu alle elezioni del 1996, da sempre opposto al processo di Oslo, sembravano avere messo la parola fine alle trattative. Ma la vittoria di Barak nel 1999 aveva portato non soltanto alla ripresa del processo ma anche all’inizio di una nuova alba, nella forma di serie discussioni in Israele sulla cessione di parti di Gerusalemme e sulla possibilità di concessioni di territori per una concreta soluzione a due Stati. Così, quando nel 2000 iniziarono i negoziati di Camp David, i giornali israeliani erano pieni di articoli che parlavano di come fosse stato spezzato un tabù. Era l’inizio di ciò che Oren ha definito un nuovo paradigma storico", l’accettazione, da parte di una larga maggioranza di israeliani, del fatto che l’unica soluzione era quella di due Stati. Oren spiega questo mutamento: "Gli israeliani si sono finalmente resi conto del fatto che tra il Giordano e il Mediterraneo esiste quasi una parità tra ebrei e arabi. E’ stupefacente che non se siano accorti prima". Fa una pausa, e poi esclama: "Ma alcuni di noi se n’erano accorti già da tempo!". E aggiunge: "Gli israeliani si sono resi conto che soltanto uscendo dalle aree a forte densità palestinese e permettendo ai palestinesi di avere un proprio Stato, Israele poteva rimanere uno Stato ebraico, democratico e sicuro. Questo è stato il punto di svolta. La maggioranza della popolazione israeliana ha smesso di considerare l’idea di uno Stato palestinese come una mortale minaccia per l’esistenza di Israele e ha cominciato a considerarlo come l’unica opzione che poteva garantire propria la sua esistenza". Camp David suscitò reazioni contrastanti tra la popolazione palestinese. Come sottolinea Oren, "alcuni palestinesi erano felici del fatto che Israele fosse pronto ad accettare uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, mentre altri, come gli esponenti di Hamas e del Jihad islamico, non se ne curavano minimamente. Non c’è stato ancora un leader palestinese che, prima o dopo Camp David, abbia detto che la soluzione a due Stati è la soluzione definitiva. Tutti la considerano come una soluzione temporanea sulla via di uno Stato palestinese binazionale". Il fallimento dei negoziati di Camp David è stato dettato dai ripetuti "no" di Arafat. Come ha detto Clinton dopo la morte del rais nel novembre 2004, "Arafat ha perso un’opportunità straordinaria per creare una pace duratura e realizzare il sogno di uno Stato palestinese". Ecco il giudizio di Oren sul rais: "E’ stato soltanto nell’estate del 2000 che la maggior parte degli israeliani ha dovuto ammettere che Arafat non era quel pacificatore che avevano creduto e che la loro originaria negativa impressione era quella giusta. Nei negoziati di Camp David, Arafat rifiutò la proposta israelo-americana di quella soluzione a due Stati che i palestinesi avevano chiesto per quarant’anni. Con ciò la parabola della carriera di Arafat – da terrorista a vincitore del premio Nobel e nuovamente a terrorista – si è solidificata nella coscienza pubblica. Gran parte degli israeliani è oggi convinto che Arafat non abbia mai avuto intenzione di arrivare alla pace, e che abbia semplicemente usato il processo di Oslo come uno strumento per realizzare il piano formulato dall’Olp nel 1974, che prevedeva la graduale distruzione di Israele attraverso un uso combinato della violenza e della democrazia". Israele continua a sostenere che non esiste alcuna classe dirigente palestinese affidabile con la quale poter negoziare, e questo ha portato Sharon alla seguente conclusione: l’unica soluzione sta in un ritiro unilaterale. Oren, che si è arruolato tra i riservisti per monitorare il ritiro unilaterale di Israele, spiega: "La maggioranza degli israeliani oggi si rende conto che negli ultimi cinque anni la battaglia contro i palestinesi non ha riguardato i confini, gli insediamenti o Gerusalemme, bensì noi stessi. Gli israeliani si sono resi conto che non possono attendere a tempo indefinito che i palestinesi risolvano i loro problemi; se necessario, prenderemo provvedimenti in modo unilaterale. E’ molto semplice". I palestinesi, a loro volta, sostengono che gli israeliani non hanno ancora proposto un piano di pace accettabile dall’Anp e considerano il ritiro unilaterale voluto dal premier Sharon come un modo per aggirare la richiesta palestinese di un ritiro da tutti i territori occupati nel 1967. Per di più, il disimpegno unilaterale è considerato dai palestinesi come un tentativo israeliano di definire i confini autonomamente, senza alcun negoziato con la parte palestinese. Sebbene all’inizio di quest’anno i palestinesi abbiano votato ed eletto Abu Mazen, Oren rimane scettico: "Dipende tutto dalla capacità della leadership palestinese di prendere decisioni difficili come lo smantellamento delle organizzazioni terroristiche, e se saprà arrivare a un qualche tipo di accordo con Israele su Gerusalemme e il ritorno dei profughi". Oggi, anziché il presidente dell’Anp Arafat, che incarnava il ruolo dell’uomo che non voleva la pace, c’è il presidente Abu Mazen che recita la parte dell’uomo che opera per il bene. Oren, per quanto continui a essere scettico, dichiara: "E’ meglio lavorare con Abu Mazen, perché lui almeno parla di pace. Soltanto raramente si riferisce ai martiri – gli attentatori suicidi – ringraziandoli per avere offerto la loro vita alla causa palestinese. C’è una sostanziale differenza tattica, semantica e retorica tra Arafat e Abu Mazen". Sebbene Oren ammetta che "sostanzialmente non c’è alcuna differenza tra di loro", sottolinea la differenza sul piano della retorica: "Abu Mazen parla di pace e non proclama che gli israeliani avvelenano le balene, si sbarazzano senza scrupoli dell’uranio impoverito e infettano i bambini palestinesi con il virus dell’Aids, come faceva Arafat". Poi Oren spiega: "Un notevole numero di palestinesi, forse addirittura la maggioranza, non ne può più di guerra e di carneficine. Rispetta i martiri per quello che hanno compiuto, ma vuole un po’ di pace. Questo non significa che i palestinesi stanno per rinunciare agli obiettivi di lungo termine, come il ritorno dei profughi e il possesso di Gerusalemme, ma vogliono avviare un processo diplomatico che consenta di rendere più stabile la loro vita. Il problema è che Arafat ha apertamente incoraggiato i palestinesi a rifiutare uno Stato ebraico entro qualsiasi tipo di confine e impegnarsi nella sua distruzione. Mentre i libri di scuola israeliana sono stati riscritti per educare le future generazioni alla pace, quelli palestinesi, ponendo l’accento sulla terribile situazione dei profughi, esaltano la gloria del martirio e il coraggio degli attentatori suicidi". Non è un segreto che Hamas non abbia mai accettato l’esistenza dello Stato di Israele. Proprio a causa della sua continua esortazione alla violenza, la partecipazione di Hamas alle prossime elezioni palestinesi – il 25 gennaio 2006 – è un punto di dissenso. "Secondo una certa scuola di pensiero – spiega Oren – il fatto che Hamas si presenti alle elezioni municipali è un’ottima cosa, in quanto, entrando a far parte del governo, dovrà cessare di battere il tasto della liberazione e dell’islamizzazione, sarà costretto a preoccuparsi di cose pratiche, come gli impianti fognari e l’illuminazione stradale". Resta la diffidenza: "Non dimentichiamoci che in Iran c’è un governo islamico che non si limita affatto a curarsi delle fogne e dei lampioni. Perciò, non c’è nessuna garanzia che sarà così. Al momento c’è una piccola differenza tra Hamas e Fatah. Hamas non rinuncerà alla lotta armata e continua a proclamare la distruzione dello Stato di Israele. Fatah, invece, ritiene che questo obiettivo debba essere raggiunto gradualmente: prima con la diplomazia e la creazione di uno Stato palestinese, anzi, la creazione di uno Stato palestinese democratico, come dicono loro stessi". Da Camp David in poi gli israeliani hanno compreso che una soluzione a due Stati è nel loro interesse e sono pronti a lavorare per trasformare questo progetto in realtà. I palestinesi hanno cambiato leader, ma i temi sono sempre uguali. "Israele ha dimostrato ai palestinesi – conclude Oren – che il terrorismo non è in grado di distruggerlo. Anzi lo rende più forte. Israele continuerà a cercare la pace, sul piano politico e su quello diplomatico. Se i palestinesi vogliono raggiungere lo stesso obiettivo è necessario che l’Anp si sforzi di mettere fine al terrorismo e muti la propria strategia". Amy E. Rosenthal (traduzione di Aldo Piccato) Yacob Iren nell'articolo "Le figlie dei generali" indaga sulle posizioni politiche di Dalia Rabin e Yael Dayan: Le figlie dei generali si dileguano e potrebbero non partecipare alle prossime elezioni politiche per la Knesset, il Parlamento israeliano. Dalia Rabin Pelossoff è la figlia di Ytzhak Rabin, capo di Stato maggiore di Tsahal, l’esercito israeliano, e successivamente ministro della Difesa e premier. Lo scorso 4 novembre si è celebrato il decimo anniversario del suo assassinio per mano di Ygal Amir nella piazza dei Re di Israele, kikar Malchei Israel, oggi diventata piazza Rabin. Era un duro, Ytzhak. Allo scoppio della prima Intifada fu lui – si dice – a dare l’ordine ai soldati di spezzare le braccia ai ragazzi che lanciavano pietre. Negli anni le sue convinzioni, come quelle del paese, sono cambiate. Quando sembrava che Yasser Arafat avesse deposto il fucile e rinunciato a cacciare gli ebrei in mare, Rabin è stato l’uomo della pace, l’artefice degli accordi di Oslo, della stretta di mano sul prato della Casa Bianca. Dalia lo ha seguito su questa strada. E’ stata deputata laburista, ma, dopo le ultime elezioni, dirige il Centro sorto in memoria del padre. Amir Peretz – il neoeletto baffuto segretario di Avoda, il partito di Rabin, che ha deciso di ritirarsi dal governo di unità nazionale con il premier Ariel Sharon scatenando la trasformazione politica delle ultime settimane, che ha portato alla costituzione di un nuovo partito da parte di Arik, Kadima, che attrae politici a destra e a sinistra – l’ha richiamata e la vorrebbe nella propria squadra. Dalia ancora non ha deciso, ha detto al Foglio, scioglierà le riserve nei prossimi giorni. I maligni dicono che stia valutando come non perdere il controllo del Centro da lei presieduto e tramite il quale gestisce un cospicuo budget. Chi sicuramente dice che non si candiderà alle prossime elezioni è Yael Dayan. La figlia di Moshe Dayan, il generale con l’occhio bendato, il primo bambino nato in un kibbutz. I critici dicono che soltanto i suoi grandi meriti militari fecero passare sotto silenzio il fatto che, mentre combatteva gli egiziani nel Sinai, contemporaneamente saccheggiava siti archeologici. Particolari. La figlia per dieci anni "bellissimi" è stata deputata laburista alla Knesset. Parla con un vocione pari soltanto alla sua fermezza. Con energia ha presieduto la Commissione per la parità dei diritti. Poi suo figlio ha sposato la figlia di Yossi Sarid, leader uscente del Meretz, il partito socialista e pacifista, arcinemico del premier, Ariel Sharon. Molte cene di famiglia dopo, Yael passa nel movimento del consuocero. L’anno scorso si candida alle municipali di Tel Aviv e diventa vicesindaco. Proprio in questi giorni il Meretz celebra il proprio congresso, un evento affatto scontato: il leader pacifista, Yossi Beilin ha detto che, se Sharon dovesse formare il prossimo governo, Meretz andrebbe con lui. Diversi deputati attuali hanno però già svolto due legislature e per essere confermati nelle liste elettorali devono ricevere il 60 per cento dei consensi dei congressisti. Una regola che in molti, tra i deputati uscenti, vorrebbero cambiare. "Mancano quattro lunghi mesi" Yael al Foglio conferma che, pur non candidandosi, lavorerà per far crescere il suo nuovo partito, la sua nuova casa. "Spero soltanto che Kadima, il nuovo partito di Sharon, porti via quanti più voti possibili al Likud". Secondo Dayan, i due acquisti laburisti di Sharon – l’anziano leader premio Nobel Shimon Peres e Haim Ramon, già segretario dell’Histadrut, il potentissimo sindacato israeliano da cui proviene anche il nuovo leader laburista, Peretz – non faranno passare voti da Avoda a Kadima, ma consentiranno alla formazione di Sharon di posizionarsi al centro. "Ma è presto per dire che Kadima sia forte come i sondaggi oggi rilevano. Mancano quattro mesi alle elezioni. Quattro lunghi mesi. E se anche Sharon dovesse vincere, escludo che sia realizzata la riforma presidenzialista all’americana di cui si parla in questi giorni". Yael vede male anche i laici di Shinui, (Rinnovamento) autori di due exploit elettorali di fila che hanno permesso al partito di passare da sei a quindici deputati in Parlamento, diventando terza forza politica in Israele. Al consiglio comunale nella laicissima Tel Aviv si governa senza di loro. "Non vogliono avere rapporti con i religiosi, nemmeno nella nostra città, dove sono proprio pochi. E alla Knesset avevano una forza enorme, ma non hanno combinato nulla di concreto. Torneranno a cinque deputati". Se le previsioni di Yael Dayan fossero confermate, Shinui ridurrebbe a un terzo i suoi voti. Nell'articolo "Labor mio" Anna Barducci Majar analizza lo stato di salute politica del partito laburista israeliano guidato da Amir Peretz.
Ecco il testo: Nelle ultime settimane, il nuovo partito Kadima del premier israeliano, Ariel Sharon, è sempre stato il favorito nei sondaggi. Fino a qualche giorno fa, però, il primo ministro sembrava aver trovato nella nuova guida laburista, Amir Peretz, un altro "bulldozer" – soprannome di Sharon – pronto a vincere le prossime elezioni a ogni costo. I due leader hanno infatti cambiato il panorama e le alleanze politiche, seguendo precisi giochi di strategia. Sharon ha portato dalla sua parte Haim Ramon, laburista e sindacalista, per prevenire l’eventuale vuoto dell’ex leader di Avoda, Shimon Peres, che aveva inizialmente appoggiato il premier, per poi rimandare la scelta. Peretz, conoscendo il modo per riportare Peres da lui, gli aveva offerto un ruolo di rilievo nel partito. Ma Peretz ha poi cambiato idea. Alcuni laburisti dicono al Foglio che molti membri di Avoda si sono lamentati di dover assicurare una poltrona a Peres, che – come lo aveva definito lo stesso ex premier israeliano, Ytzhak Rabin – ha la fama in certi ambienti di essere un "cospiratore". Un leader di cui non ci si può fidare. Il neoleader laburista ha così abbandonato Peres – sperando di poter giocare altre carte – dopo aver rifiutato un "seggio garantito" sia a lui sia alla sua fedele Dalia Itzikh, ministro della Comunicazione. Uno dei vari motivi di questa rottura – raccontano fonti di Avoda al Foglio – è che Peretz non voleva accettare nel pacchetto anche Dalia, che l’aveva offeso quando non si era vista convocata, insieme con Peres, al primo incontro dopo le primarie. La colomba laburista è così volata via definitivamente da Avoda assieme a Dalia, raccontando il suo dolore ai media dopo 46 anni nel partito e annunciando il suo appoggio a Kadima. Sharon adesso ha così dalla sua parte un leader di spessore internazionale che tiene al centro il nuovo partito. Peres, tuttavia, non è ancora un membro "ufficiale" di Kadima. I mass media israeliani vociferano che il premier avrebbe promesso al nuovo alleato o un seggio sicuro o di diventare il prossimo presidente. Dalia, invece, ha ottenuto il suo ministero. Sharon al momento sembra essere il vincitore delle prossime elezioni. Gli esponenti di Kadima sono considerati di più spessore rispetto a quelli di Avoda e ora anche il numero uno del Likud, Tzachi Hanegbi, si è spostato nel nuovo partito. Peretz ha chiamato a sé una star mediatica, Sheli Yehimowitz, e Arye Amit, veterano generale della polizia a Tel Aviv e Gerusalemme, che non ha mai brillato per grande personalità. L’unico personaggio interessante tra i laburisti sembra quindi essere il rettore dell’Università Ben Gurion, Avishai Braverman. Soltanto una settimana fa, i media israeliani avevano annunciato che Ehud Barak, ex premier israeliano, sarebbe entrato nella lista elettorale di Avoda. Questa strategia avrebbe permesso – secondo gli analisti politici – di portare i laburisti in testa ai sondaggi grazie all’esperienza in tema di sicurezza di Barak. Ma Peretz ha deciso di scegliere un altro percorso e non gli ha promesso alcun seggio. Così l’ex premier ha deciso di rimanere all’interno del partito per complicare la vita a Peretz. Un programma con un grande buco Sharon al momento non ha ancora un programma economico, se non quello di far distribuire al ministro delle Finanze, Ehud Olmert, soldi alla popolazione per rimediare ai disagi sociali creati da Benjamin Netanyahu. La sua campagna si basa principalmente sulla risoluzione del conflitto israelo-palestinese. E Sharon ha già dichiarato implicitamente di voler essere l’eroe di guerra che dopo il disimpegno da Gaza riuscirà a riportare la pace. Peretz gioca invece la parte del sindacalista e, facendo leva sui bisogni economici della popolazione, si preannuncia come l’uomo che risolleverà le finanze degli israeliani. Peres, per ostacolare da subito Avoda, ha dichiarato che soltanto "la pace (ovvero il piano elettorale di Sharon, ndr) porterà a una buona economia". Il premier però ha annunciato che presto renderà noto un "programma di battaglia contro la povertà", che toglierebbe ulteriori punti a Peretz. Il leader laburista infatti, se Sharon si presenta sia con un piano per la sicurezza sia con uno per l’economia, è destinato a perdere le elezioni. Secondo la stampa israeliana, Barak, considerato un leader all’altezza degli stessi gesti "coraggiosi" del premier, avrebbe potuto risollevare le sorti di Avoda, che rimane sprovvisto di un programma per la risoluzione del conflitto. Peretz ha però portato con sé alcuni generali come Benjamin Ben Eliezer ed Ephraim Sneh, per mostrare di non aver bisogno di Barak. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.