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La Repubblica Rassegna Stampa
09.12.2005 Ricordare la strage di Monaco con molti pregiudizi
e qualche leggerezza di troppo

Testata: La Repubblica
Data: 09 dicembre 2005
Pagina: 18
Autore: Silvia Bizio - Alberto Mattone - Giorgio Bocca
Titolo: «Spielberg: ecco Monaco ‘72 - Quei Giochi insanguinati che fecero tremare il mondo - La mia finestra sul cortile del massacro»
A pag. 18 del quotidiano La Repubblica, troviamo un articolo di Silvia Bizio, intitolato "Spielberg: ecco Monaco ‘72". Parliamo di 32 anni fa, ma sembra di leggere frasi di oggi. Un pregiudizio antisraeliano da parte del quotidiano Repubblica che si nasconde dietro parole sbagliate e spesso utilizzate oggi, per distorcere l’informazione su cosa accade in medio oriente. A cominciare dall’assenza di un nome, quello di Yasser Arafat, considerato il mandante di quella strage.Allo stesso modo, manca il nome di Abu Mazen, che è indicato come uno dei finanziatori della strage Considera l’operazione di risposta ai terroristi ideata da Golda Meir "un audace piano di vendetta", utlizzando la parola "vendetta" anche nel sottotitolo dell’articolo, come se questa operazione avesse solo il fine di calmare gli animi scossi della popolazione israeliana, piuttosto che quella di eliminare i responsabili del terrorismo e fermare le loro infami azioni. L’articolo si conclude con una frase del film di un agente del Mossad che dice: "cosa abbiamo ottenuto eliminandoli?". Un articolo sul "il foglio" di ieri 8 dicembre di Carlo Panella avrebbe risposto a questa domanda, cosa che Repubblica preferisce non fare. Le azioni del Mossad infatti raggiunsero lo scopo: il gruppo terroristico Settembre Nero cessò le uccisioni di israeliani all’estero.

A pag. 19, sempre nello stesso quotidiano un articolo di Alberto Mattone intitolato: "Quei Giochi insanguinati che fecero tremare il mondo". Ricordiamo a Mattone che a noi fa tremare anche l'uso da lui fatto della parola "rappresaglia" in riferimento alle operazioni del Mossad. Perché utilizzare questa parola visto che non è stata una ritorsione contro la popolazione palestinese, ma una risposta ai terroristi? La breve storia manca inoltre di un nome, quello di Yasser Arafat, il mandante di quell’attentato terroristico, mentre aggiunge alla fine dell’articolo in modo dietrologico un tocco di avventuroso antiamericanismo: il terrorista Abu Sharar infatti è stato ucciso a due passi dall’ambasciata americana.

Giorgio Bocca, sempre a pagina 19, ricorda di aver lavorato a Monaco in quel periodo. All’inizio dell’articolo, l’attacco del gruppo terroristico contro gli atleti israeliani, viene definito "blitz". Questa parola, viene generalmente usata in riferimento a operazioni compiute dall’esercito o dalla polizia di uno stato in piena legittimità dei suoi poteri. Di sicuro non viene usato per descrivere l’operazione di terroristi sanguinari.
Va poi rilevato che in gran parte l'articolo di Bocca è incentrato sulla rievocazione dei suoi rapporti di lavoro con colleghi come Gianni Brera e Luciana Castellina e sui ritratti di questi persone. Una scelta quanto meno discutibile, di fronte a una tragedia come quella di Monaco.

( a cura della redazione di Informazione Corretta)

Di seguito, larticolo di Silvia Bizio:

LOS ANGELES - Fu il primo assaggio di quello che sarebbe diventato il moderno terrorismo: in diretta televisiva, un gruppo di uomini armati e mascherati dava il via a 24 ore spaventose che culminavano con l´uccisione di 11 atleti isrealiani presi in ostaggio da una squadra di feddayn palestinesi di Settembre Nero, durante le Olimpiadi di Monaco di Baviera, in Germania, nel 1972. Abbiamo visto in anteprima il nuovo, attesissimo film di Steven Spielberg, Munich, che uscirà sugli schermi americani il 23 dicembre. Il film inizia proprio con quelle immagini: gli uomini che entrano nel dormitorio che ospita la squadra israeliana e i suoi allenatori, le richieste di fronte alle televisioni di tutto il mondo, il rifiuto di Israele di negoziare, il fallimentare blitz della polizia tedesca che spinge i terroristi a massacrare i nove ostaggi chiusi in due elicotteri in attesa di un 727 all´aereoporto. Se tutto questo è noto, quello che seguì lo è molto meno, anzi, rasenta il mistero. Ed è sul "dopo" che si concentra il coraggioso e inevitabilmente controverso film di Spielberg di due ore e 40 minuti, girato a Malta, Budapest, New York e Parigi, budget di circa 70 milioni di dollari.
Con il consenso dell´allora primo ministro Golda Meir il governo israeliano avviò una segreta e audace piano di vendetta contro i mandanti del massacro di Monaco. «Ogni civiltà scopre che è necessario scendere a patti con i propri valori», dichiara Golda Meir (Lynn Cohen) ai suoi generali in una scena del film. La scelta di guidare una squadra di sicari per rintracciare e eliminare uno dopo l´altro gli undici palestinesi ritenuti responsabili del massacro di Monaco, cade su Avner Kauffman (qui è l´attore australiano Eric Bana), membro del Mossad, il servizio segreto isrealiano. Del team fanno parte il durissimo sudafricano Steve (per il ruolo è stato scelto Daniel Craig, il prossimo James Bond), il tedesco Hans (Hanns Zoschler) esperto nel mascheramento, il fabbricante di giocattoli costretto a improvvisarsi esperto artificiere Robert (Mathieu Kassovitz) e Carl (Ciaran Hinds), il cui lavoro è quello di "ripulire" le azioni degli altri. La squadra si organizza a Parigi e in giro per l´Europa e intrattiene rapporti sporadici solo con il suo "supervisore" a Gerusalemme, Ephraim (Geoffrey Rush), mentre per la difficile missione riceve notevoli somme di denaro versate anonimamente su un conto segreto di una banca svizzera.
Grazie a informazioni pagate a caro prezzo a un gruppo di mercenari francesi, i sicari israeliani iniziano a eliminare i loro obiettivi, a Roma, Parigi, Atene, ogni volta rischiando di più, ogni volta uccidendo più persone indirettamente coinvolte, anche vittime collaterali, fino a uno scontro sanguinoso a Beirut. Ma contemporaneamente si insinua il dubbio nella mente degli uomini: «Ma quell´uomo era davvero coinvolto a Monaco? Hai prove concrete che sia lui uno dei terroristi?», chiede Carl ad Avner dopo l´uccisione di un palestinese. «Non mi servono prove, questo è il nome che mi hanno dato da Israele e a me basta», risponde Avner. Ma i dubbi diventano incubi quando due dei membri del commando, Carl e Hans, muoiono uccisi probabilmente da arabi che li hanno identificati sempre grazie alle informazioni raccolte dai mercenari francesi.
In una scena significativa del film, Spielberg ci mostra il team israeliano a confronto con una squadra di palestinesi nella stessa stanza d´albergo ad Atene. Avner e uno dei suoi interlocutori conversano tranquillamente sulle scale: il palestinese spiega l´importanza della sua lotta per la creazione di una terra che figli e nipoti possano chiamare casa. «Tutto questo sangue si ritorcerà contro di noi», dice Robert ad Avner, poco prima di saltare in aria, per un banale, errore, con tutto il suo carico di bombe.
Mentre il sempre più tormentato leader del gruppo continua a combattere la sua lotta lontano dalla giovane moglie e dalla bambina che non vede da un anno, si verifica una escalation di attentati contro le ambasciate israeliane in giro per il mondo. Alla fine Avner incontra a New York Ephraim che cerca di convincerlo a buttarsi tutto alle spalle e tornare a casa, in Israele. Ma Avner vuole le prove che quelli che hanno ammazzato finora sono i veri colpevoli della strage di Monaco. «Sono diventato anch´io un assassino?» chiede. «Non avremmo dovuto portarli in Israele e processarli? Cosa abbiamo ottenuto eliminandoli?». «O noi o loro», è la secca risposta di Ephraim.
Quello di Alberto Mattone:
La ventesima Olimpiade scattò a Monaco il 26 agosto del 1972, ed era un evento che avrebbe dovuto cancellare i Giochi militareschi del ´36 a Berlino. Ma gli organizzatori non avevano fatto i conti con Settembre Nero, il gruppo che prendeva il nome dalla repressione scatenata in Giordania contro i palestinesi da re Hussein. All´alba del 5 settembre, otto feddayn entrarono nelle stanze della squadra israeliana di lotta per prendere in ostaggio gli atleti. L´allenatore Moushe Weinger e il campione di sollevamento pesi Joseph Romano tentarono di fuggire e vennero uccisi. L´obiettivo del commando era la liberazione di 234 militanti arabi e di altri due leader della "Rote Armee Fraktion" detenuti in Germania. Nove atleti vennero presi in ostaggio, iniziò una drammatica trattativa. Ma i Servizi tedeschi avevano già deciso il blitz. Che avvenne all´aeroporto militare di Fuerstenfeldbruck, dove era pronto un Boeing per i palestinesi.
I tiratori scelti spararono sul gruppo. La risposta dei feddayn non si fece attendere. Fu una strage: morirono tutti e nove gli atleti israeliani, un agente, un pilota e cinque miliziani. Tre attentatori restarono feriti e vennero arrestati. Fu il debutto in grande stile di Settembre Nero, un gruppo nato all´interno di Al Fatah. Subito scattò la rappresaglia israeliana. Il premier Golda Meir ordinò a Zvi Zamir, il capo del Mossad, di eliminare esecutori e mandanti nel blitz di Monaco. È qui che Israele inaugura la strategia degli omicidi mirati. Uno ad uno i capi di Settembre Nero vengono uccisi, col tritolo o con un colpo di pistola. L´8 ottobre del 1981, Abu Sharar, membro del comitato centrale dell´Olp, venne fatto saltare in aria a Roma, nella sua stanza dell´hotel Flora. In pieno centro, a due passi dall´ambasciata americana.
Infine, il ricordo di Giorgio Bocca:
MILANO - Alle Olimpiadi di Monaco nel ´72 andai con una gamba ingessata che lasciava una scia bianca sull´asfalto. Ma nessuno a Monaco la vedeva in quei giorni. Non avevamo trovato posto in albergo, stavamo da frau Elisabeth, un´affittacamere gentile: il giorno del blitz dei feddayn alla villetta degli atleti israeliani la grande macchina dello sport faceva una pausa, nulla era in programma e io iniziai così la mia corrispondenza precotta: «Oggi Olimpia riposa». Così partimmo in auto, con il piedone ingessato, per una visita a Salisburgo. Avremmo dovuto capire che era accaduto qualcosa di forte perché ai caselli dell´autostrada le radio sembravano impazzite e così i casellanti che non guardavano i soldi del pedaggio e non rispondevano alle richieste d´informazione. Tornammo a Monaco verso le 17 e frau Elisabeth aveva un´aria stravolta, non riusciva quasi a parlare, mi mise fra le mani un messaggio arrivato dal Giorno. Era di Gaetano Afeltra e diceva: «Hai tutta la prima pagina».
Telefonai al nostro ufficio le cui finestre davano sul villaggio olimpico: così scoprii cos´era successo. Gianni Brera, il capo della nostra redazione, si negò e mi fece sapere che stava facendo il bagno. Non ricordo chi rispose al telefono. Ricordo il suo imbarazzo nel dirmi che Brera non mi aveva cercato e che aveva già dato disposizioni perché coprissero il servizio. Sapevo che era un duro ma non fino a quel punto, sapevo che mi considerava un intruso, un cocco del direttore, ma non che mi facesse fare un buco da licenziamento in tronco. Nella distribuzione dei servizi cercava la provocazione ma avevo deciso di far finta di non capire. Arrivava in sala riunioni indossando una vestaglia di seta e disponeva: «Tu Fossati vai alla finale dei cento, tu Signori al nuoto e tu, diceva a me, magari vai a una partita di hockey su prato». Io andavo dove mi pareva accompagnato dal mio amico Bolchi che aveva un´officina metallurgica in Milano ed era venuto a Monaco senza un biglietto ma era alto uno e novanta, mostrava il tesserino del tram e i tedeschi buoni dell´Olimpiade lo lasciavano passare.
Arrivai nel nostro ufficio che cominciava a far notte. La palazzina dell´attentato era proprio davanti la nostra finestra, i terroristi se n´erano già impadroniti e avevano chiuso le ante delle finestre. Ogni tanto uno usciva per dare un´occhiata alla strada dove la polizia aveva messo i suoi posti di blocco. Finalmente Brera si degnò di comparire e di mostrarmi la telescrivente che stava vicino alla finestra come se l´avessero messa lì apposta per una cronaca cantata. Tutto era assurdo ma tutto si svolgeva con la precisione e il silenzio di certi incubi. Mancava solo chi mi portasse le notizie ma apparvero come mandate dal Signore, la Castellina del Manifesto e la Lombardi, la compagna di Guido Vergani. Entrambe sicure che io sapessi tutto e che le avrei aiutate per i loro servizi, ma appena capirono che non sapevo niente e che contavo sul loro aiuto si misero al lavoro, instancabili a far la spola fra il mio ufficio e la strada dove si cacciavano nella ressa dei curiosi continuamente caricata dalla polizia. Mi sentivo come un re Artù servito da quelle straordinarie paladine dell´ordine del giornalismo. E la monumentale telescrivente era come un organo da cui ricavavo suoni maestosi anche se era la prima volta che ne adoperavo una. Ma le telescriventi hanno questo di buono, che scrivono da sole e ti trasmettono sicurezza. Ero in trance, scrivevo una pagina dopo l´altra e ogni tanto mi accorgevo che una delle mie aiutanti mi osservava di spalla, con ammirata partecipazione e il cumulo delle cartelle saliva e l´intera prima pagina del Giorno si riempiva, e vedevo Afeltra che le mandava in tipografia pensando a uno dei suoi titoli destinati alla storia del giornalismo per lo stupore ammirato di Dino Buzzati e di Emilio Radius che erano al Corriere con lui quando cadde Mussolini e la gente voleva dar fuoco alla redazione e lui uscì sul balcone e finì che lo applaudirono.
Che notte a Monaco di Baviera: alla luce dei fari della polizia i terrazzini della palazzina ogni tanto si animavano per apparizioni di cui non si capiva la trama ma che era una trama di terrore e di morte: un corpo trascinato fuori da una finestra, lampi di spari, ombre che si inseguivano, alcuni pullman in arrivo, forse quelli chiesti dai terroristi per raggiungere l´aeroporto.
Sì proprio loro, il massacro si spostava e si allontanava dalla nostra «finestra sul cortile». Spegnevo la telescrivente, mandava ancora alcuni lampi e un ultimo sfrigolio dal suo ventre d´acciaio e finalmente appariva anche Brera a complimentarsi e a bere un whisky assieme alle mie aiutanti. Indossava un accappatoio bianco, era un tipo geniale e bizzarro, uno nato e cresciuto a San Zenone, uno dei villaggi in riva al Po, dove la noia del fiume che passa sempre eguale viene bucata. Brera diceva di essere di origini ungheresi, aveva fatto il paracadutista ed era un grande ammiratore delle stirpi nordiche. Un suo redattore giurava di averlo visto fermo davanti a uno specchio mentre diceva torvo: «Perché non sono nato tedesco?». Non era tedesco, era un rivierasco del Po presso Piacenza; aveva fatto l´università a Pavia assieme a quelli che vi scendevano dalla Valtellina, era fortemente offeso dai critici letterari che lodavano le sue cronache sportive ma ignoravano i suoi romanzi e faceva il giornalista come un duca longobardo convocando colleghi alla sua tavola di suiveur di Olimpiadi, Giri di Francia, partite di football. Li convocava, arrivavano nella divisa che piaceva a lui, con la giacca blu e i bottoni d´oro da Yachting e lui gli diceva quello che dovevano mangiare, «tu Fossati l´agnello, tu Signori il cervo». E arrivato a me che non ero in giacca blu e che non avrei mangiato quello che voleva lui mi guardava come uno nato in riva al Po guarda uno che è nato in riva alla Stura di Demonte, uno dei cento affluenti che non si sa perché scendano verso la piana invece che verso il Mar Ligure. Ma anche lui si portava dietro quel buon uomo di grande talento che la provincia sforna.
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