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Il Foglio Rassegna Stampa
08.12.2005 Il mostro "reazionario" sbattuto in prima pagina
sull'aggressione ad Alain Finkielkraut

Testata: Il Foglio
Data: 08 dicembre 2005
Pagina: 2
Autore: Enrico Rufi
Titolo: «Il mal francese di sbattere il mostro neoreazionario in prima pagina»
Dal FOGLIO di mercoledì 7 dicembre 2005:
Alla fine i conti tornano: anche stavolta
nessun bel nome della cultura e della
politica italiana ha ritenuto di dover insorgere
di fronte all’aggressione che sta subendo
in Francia Alain Finkielkraut. La grande
stampa italiana, a cominciare dalla Repubblica
e dal Corriere, ha già fatto docilmente
propria l’ultima "novità" del pret-à-penser
importata da Parigi: i "neoreazionari". Proprio
come tre anni fa, giorno più giorno meno,
perché anche nel 2002 eravamo sotto Natale.
Anche allora in prima linea fra gli aggressori
c’era il Nouvel Observateur – quello
che oggi sbatte il mostro in prima pagina
– e Le Monde – quello che ha creato il caso.
Anche allora il bersaglio principale era
Finkielkraut. A onor del vero, tra le prove
generali di tre anni fa e l’affondo di oggi ci
fu anche un tentativo, maldestro, a opera di
Tariq Ramadan: lui commise l’errore di metterci
tutti ebrei nella sua lista nera. Capitanata,
comunque, sempre da Finkielkraut.
Qui da noi, qualcuno provò pure a tradurre
la scomunica in italiano: Angelo D’Orsi additò
al pubblico ludibrio sulla Stampa "il
partito italiano dei neoreazionari", guidato
dal Partito radicale, "sentinella avanzata del
blocco reazionario e guerrafondaio". Ignorava,
il povero D’Orsi, che i suoi referenti-inquisitori
francesi erano già stati zittiti da più
di un mese da Pier Paolo Pasolini. Ecco come
era andata.
Tutto cominciò con il pamphlet di un certo
Daniel Lindenberg, intellettuale jospiniano,
intitolato "Rappel à l’ordre, enquête
sur les nouveaux réactionnaires". Era l’autunno
del 2002, e i francesi avevano scelto da
pochi mesi il loro presidente tra Jacques
Chirac e Jean Marie Le Pen.
L’operazione, che si proponeva implicitamente
di dare un aggiornamento della vecchia
piaga francese del tradimento dei chierici,
era in realtà una mistificazione bell’e
buona, intanto perché i chierici "traditori"
in questione non avevano abdicato a nulla,
a differenza di quelli con cui se l’era presa
Benda; la loro colpa era semmai quella di
mantenere alta la vigilanza sulla realtà, sulla
polis, e di denunciare una serie di conformismi,
luoghi comuni e tabù, che già andavano
per la maggiore tra le élites francesi –
ma anche europee – a sinistra soprattutto. E
poi perché fra i nuovi reazionari figuravano
quelle poche voci che forse salvarono l’onore
della Francia fra le presidenziali del 2002
e la crisi irachena, a cominciare, per l’appunto,
da Alain Finkielkraut. Se fosse stato
ancora in vita, sarebbe sicuramente finito
nella lista nera anche Albert Camus, lui che
diceva: "Se io rifiuto la politica degli intellettuali
progressisti, è […] per le stesse ragioni
per cui ho rifiutato quella degli intellettuali
collaborazionisti".
Quali erano i capi di accusa contestati ai
"nouveaux réactionnaires"? Bastava scorrere
l’indice del libro: l’accusa era di aver
messo sotto processo la cultura di massa, la
libertà dei costumi, gli intellettuali, il Maggio
’68, il cosiddetto "droits de l’hommisme",
cioè i diritti dell’uomo trasformati nei diritti
del bambino viziato, la questione islamica,
il fenomeno di un nuovo antisemitismo di sinistra
e maghrebino, il fascismo degli antifascisti,
la società multiculturale, e, come se
non bastasse, l’"égalité".
Insomma, quel che minacciava la società
francese non era un’erosione delle fondamenta
dello Stato laico, non il degrado della
scuola pubblica, non le aggressioni consumate
nell’indifferenza ai danni di cittadini
di origine ebraica, non i fermenti integralistici
tra i figli dell’immigrazione maghrebina,
non l’espandersi delle zone off-limits,
quelle periferie urbane degradate dove
perfino i pompieri vengono accolti a sassate,
ma il fantasma dell’Action Française,
del fascismo.
Vide giusto Finkielkraut, dicendo che il
"Rappel à l’ordre" rappresentava una novità
rispetto al passato, perché Lindenberg se la
prendeva con i detrattori dello status quo, e
non con i suoi sostenitori. Denunciando un
nuovo asse del male, era il conformismo che,
stavolta, faceva il processo all’anticonformismo,
per esorcizzare la riflessione e i dibattiti
che si impongono.
L’accusa di comunitarismo rivolta, ad
esempio, ad alcuni simpatizzanti di uno come
Chevènement, che proprio della lotta a
questa forma degenerativa della società civile
ha fatto il suo cavallo di battaglia, era
curiosa. Ma di cose curiose, per non dire paradossali,
ce n’erano parecchie nel pamphlet.
Qualcuna quasi comica, come lo spauracchio
di una riscossa del cattolicesimo antimodernista,
quando, tra tanti ebrei e laici,
e magari pure qualche ugonotto, gli unici
due cattolici apostolici romani erano Alain
Besançon e l’aroniano Pierre Manent.
O l’accusa di antifemminismo. Scriveva
Lindenberg: "In realtà è chiaro che si tratta,
attraverso il processo al ’68, di tornare sull’emancipazione
della donna, l’accettazione
sociale dell’omosessualità, ecc.". Accusa come
minimo curiosa, rivolta com’era proprio
agli unici che in Francia non si erano rassegnati
alla reclusione in casa o dietro il velo
delle giovani maghrebine, cercando di riportarle
sotto la protezione della legge dello
Stato come tutte le altre donne libere, e di
sottrarle ai loro padroni.
Ma forse era un’altra l’accusa principale
che veniva rinfacciata, e neppure troppo velatamente,
ai "nuovi reazionari": l’aver determinato
la sconfitta di Lionel Jospin alle
passate presidenziali, e l’aver spianato la
strada a Le Pen. E anche oggi, con ogni probabilità,
il "mandante" del violento attacco
a Finkielkraut va cercato in un PS sempre
più "lindenberghiano".
Il libello in questione aveva in realtà più
della reazione che di un’offensiva. Una reazione
sgangherata, superficiale, e piuttosto
stalinoide nel metodo, a quello che con rigore
e lucidità andava denunciando Alain
Finkielkraut, e non solo.
È Finkielkraut che aveva preso di mira le
degenerazioni del progressismo, è Finkielkraut
che nell’"Imperfait du présent" aveva
accusato le sentinelle antifasciste di non
aver alzato un dito mentre la causa palestinese
confiscava tutte le ingiustizie della
Terra; è Pierre-André Taguieff che aveva
denunciato il pericolo del nuovo antisemitismo
"progressista", e sono l’uno e l’altro
che si erano rifiutati di sottoscrivere la
fatwa repubblicana contro il candidato Le
Pen al ballottaggio per l’Eliseo; è nella
"Nouvelle judéophobie" di Taguieff che sta
scritto che mai, nella Francia del dopoguerra,
le manifestazioni di antisemitismo
avevano incontrato così poca resistenza intellettuale
e politica come dall’autunno del
2000 in poi. È in quelle pagine che veniva
puntato il dito contro quella miscela di neocristianismo,
di rivoluzionarismo, di buonismo,
demagogismo, lassismo e di terrorismo
intellettuale filoislamico che ha generato
una cultura politica ibrida, che portava le
anime belle francesi, ma anche italiane, anche
tedesche, a schierarsi contro il terrorismo
ma anche contro la lotta al terrorismo.
È lì che si denunciava il pacifismo cieco,
quello che mette sullo stesso piano aggressore
e aggredito. Ancora: è nei capitoli dei
"Territoires perdus de la République" che
di fronte all’indifferenza delle élites francesi
veniva denunciata la discriminazione
sessuale ai danni di tante giovani di famiglia
musulmana, o l’emergere, in particolare
nella scuola, di un nuovo razzismo di matrice
progressista dietro la pratica del differenzialismo,
ed è da quelle pagine che veniva
l’invito a rileggersi, o a leggersi per la
prima volta, "L’étrange défaite" di Marc
Bloch, un libro scritto nella Francia occupata
da un martire della Resistenza che prima
di essere fucilato dai nazisti aveva avuto
il tempo di mettere in guardia i posteri
dalla cultura pacifista degli anni precedenti
la Seconda guerra mondiale.
La lista è lunga: è Élisabeth Lévy (cui peraltro
non era fatto l’onore di comparire
nella lista nera, come anche Glucksmann,
del resto) che aveva ridicolizzato i virtuosi
dell’antifascismo, e Jeanne-Hélène Kaltenbach
e Michèle Tribalat che avevano denunciato
le tentazioni compromissorie di
certo laicismo.
Insomma, l’aggiornamento dei chierici
traditori l’avevano quindi fatto costoro con i
loro libri, non Lindenberg col suo pamphlet.
Può anche darsi che le cose siano più
semplici di quanto si creda, e che magari la
brutalizzazione della vita intellettuale in
Francia fosse una semplice ricaduta della
guerra israelo-palestinese. Ma anche in questo
caso lo sforzo di analisi è stato a carico
dei "neoreazionari". Perché, tanto per cambiare,
l’aveva detto Finkielkraut.
Secondo Bernard-Henri Lévy, che guardò
con superiorità a tutta la faccenda, senza alzare
un dito in difesa degli scomunicati, anzi
li ridicolizzò, si trattava di una polemica
"irrisoria", "patetica" e "comica". In realtà,
esagerazioni a parte, qualcosa di importante
c’era in gioco, così come è serissima oggi
l’aggressione a Finkielkraut. Addirittura, secondo
qualcuno, la posta in gioco era l’eredità
dell’Illuminismo e i valori laici e repubblicani:
era l’opinione, per esempio, di
Alain-Gérard Slama.
Qualcuno fece notare che bisogna non
aver capito niente della storia e della geografia
dei movimenti di idee in Francia per
collocare fra gli epigoni del reazionarissimo
Joseph de Maistre gente come Régis Debray,
Jean-Pierre Taguieff, Alain Finkielkraut e
Pierre Manent.
Dietro le forzature, le semplificazioni e le
scomuniche c’era insomma una polemica
tutt’altro che estemporanea e gratuita, che si
trascinava in sordina fin dalla fine degli anni
80, particolarmente complessa perché
spacca dall’interno i tradizionali schieramenti
di destra e sinistra: infatti i principali
protagonisti erano e sono tuttora i depositari
della tradizione dell’individualismo universalista
ereditato dall’Illuminismo.
La querelle andò avanti per intere settimane,
alimentata da un numero impressionante
di articoli. Finché poi, un lunedì sotto
Natale, apparve su Libération un articolo
dal titolo "Pasolini manda in frantumi lo
stampino del neoreazionario".
Abbiamo individuato il capostipite dei
neoreazionari, vi si leggeva, a firma Emmanuel
Poncet: "Se ci si riferisce infatti alle
caratteristiche delineate da Daniel Lindenberg
nel suo pamphlet, Pier Paolo Pasolini
fu senz’altro il primo e il più brillante
di loro. Per logica, dovrebbe figurare nella
lista nera in qualità di precursore della
presunta regressione ideologica di certi intellettuali
[…]".
Si ricordava, nell’articolo, che Pasolini
non ha mai nascosto la sua diffidenza nei
confronti dei giovani, dei militanti, delle
femministe mondane, della società di consumo,
del ’68, e che per questo subì un vero
e proprio linciaggio mediatico da parte di
tanta gente illuminata, progressista, proprio
quelli da cui lui si aspettava solidarietà e
comprensione.
Scoprendo, di colpo, un Pier Paolo Pasolini
vittima dei predecessori italiani del Lindenberg,
i lettori di "Libération" ebbero di che rimanere
interdetti. E come per incanto, la querelle
dei "nouveaux réactionnaires" finì.
Qualcuno, in Francia, rimarrà interdetto
anche stavolta se la sera di mercoledì 14 dicembre
si sintonizzerà sulle frequenze di
RCJ 94.8 FM, la radio delle comunità ebraiche
di Francia, e ascolterà Alain Finkielkraut
in "ponte radio" con Radio Radicale,
dove il direttore del Foglio, Giuliano Ferrara,
quello di Tempi, Luigi Amicone, e quello
di Radio Radicale, Massimo Bordin, daranno
la loro solidarietà al mostro sbattuto in
prima pagina.
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