L'uomo del giorno è il terrorista suicida e la domanda: "quali terribili cose farà ora Israele?"
Testata:La Stampa - Il Sole 24 Ore - Avvenire- Il Manifesto - La Repubblica Autore: Francesca Perfetti - Roberto Bongiorni - Barbara Uglietti - Michele Giorgio - Alberto Stabile Titolo: «Ma qualcuno rinuncia da solo - Attacco della Jihad a Israele -Kamikaze in Israele, riesplode il terrore - Israele, terrore a Netanya - Israele, tornano i kamikaze»
LA STAMPA di martedì 6 dicembre 2005 dedica 3 articoli a pagina 5 alla strage di Netanya. Apre con la cronaca di Aldo Baquis, intitolata "Si sacrifica per bloccare il kamikaze", un riferimento al gesto eroico di Haim Amram, morto nel tentativo di impedire l'attentato.
Subito sotto l'intervista di Francesca Paci a Lea Tsemel avvocatessa degli attentatori suicidi che non hanno portato a termine il loro disegno criminale è intitolata, come a integrare la parte della storia raccontata da Baquis, "Ma qualcuno rinuncia da solo".
Una scelta decisamente infelice, dato che il gesto eroico di chi perde la vita per fermare un assassino non è assolutamente accostabile alla scelta di quest'ultimo di desistere dai suoi propositi.
Lea Tsemel nel corso dell'intervista ripropone una spiegazione del terrorismo suicida tante volte smentita dagli studiosi e dai fatti, senza che Francesca Paci senta la necessità di muoverle una qualsiasi obiezine.
Il terrorismo suicida è il prodotto dell'indottrinamento e del fanatismo, non delle "disperazione" e anche un giornalista che non conosca le ricerche e i dati statistici che lo provano (si veda ad esempio il documentato studio di Massimo Introvigne, Hamas, edito da Elledicì) dovrebbe rendersi conto della natura sosfistica delle argomentazioni di Lea Tsemel e contestargliela.
Per esempio la Tsemel afferma che "quasi tutti hanno almeno un parente o un amico ucciso dai militari israeliani". Quanti sono invece gli sraeliani che hanno parenti e amici uccisi dai terroristi? E quanti compiono per vendetta stragi di civili palestinesi? Inoltre i morti palestinesi (come nel caso del fidanzato di un'aspirante terrorista suicida assistita legalmente dalla Tsemel, ucciso in un'eliminazione mirata) non sono dovuti proprio alla lotta al terrorismo suicida? E il terrorismo non esisteva forse ben prima della risposta dell'esercito? Anche l'affermazione per cui molti dei terroristi da lei assistiti non sarebbero stati indottrinati e anzi avrebbero tentato di attuare l'attentato da soli dopo essere stati scartati è capziosa: l'indottrinamento avviene, prima che nelle organizzazioni terroristiche, nelle scuole, nei media e in un'intera società pervasa da un vero e proprio culto della morte (si veda "I piccoli martiri assassini di Allah" di Carlo Panella, Piemme). Un indottrinamento tanto efficace che le organizzazioni terroristiche possono pemettersi poi di scartare i candidati al "martirio" che ritengono inadatti. Va poi rilevato che la "statistica" di Lea Tsemel è a priori priva di valore: riguarda infatti solo coloro che non hanno portato a termine l'attentato. Il fatto che molti di essi non siano passati attraverso le "scuole" di Hamas, della Jihad e degli altri gruppi terroristici potrebbe essere addirittura una conferma che per produrre un effciente terrorista suicida sia utile e persino necessario l'indottrinamento che in tali "scuole" ha luogo.
Lea Tsemel conclude poi la sua intervista con un'ulteriore affermazione notoriamente falsa: Sharon sarebbe "l’uomo che con la passeggiata provocatoria sulla Spianata delle moschee ha scatenato la seconda Intifada".
Anche in questo caso la Paci si guarda bene dal ricordare alla sua interlocutrice come stanno le cose: gli stessi dirigenti palestinesi hanno più volte dichiarato che l'intifada era preparata da tempo quando Sharon visitò il Monte del Tempio.
Di seguito riportiamo l'articolo: «Ogni kamikaze porta con sé due detonatori: uno reale collegato all’esplosivo, l’altro simbolico che aziona il cortocircuito mentale necessario a farsi saltare in aria». Nello studio luminoso al quarto piano di un palazzo di Gerusalemme est, l’avvocato Lea Tsemel guarda in tivù le immagini dell’attentato di Natanya: se all’ultimo momento Lotfi Abu Saada avesse desistito, sarebbe sicuramente diventato suo cliente. In Israele non ci sono molte penaliste come lei. Da quarant’anni questa signora ebrea d’origini russe difende i ragazzini-bomba palestinesi che ci ripensano, quelli che un attimo prima d’immolarsi preferiscono la vita, propria e altrui. Una scelta professionale complicata che Lea Tsemel paga con la diffidenza e l’ostracismo dei connazionali e che racconterà venerdì e sabato prossimi a Granada alla conferenza del World Political Forum intitolata «Mediterraneo: incontro e alleanza di civiltà» Netanya piangerebbe molte più vittime se gli agenti non avessero tentato di fermare il kamikaze. Eppure, è riuscito lo stesso ad uccidere cinque persone. Cosa succede nella testa di un ventenne determinato al peggio fino a questo punto? «Sono giovani senza futuro, senza altre opzioni che il sacrificio di sé. Quasi tutti hanno almeno un parente o un amico ucciso dai militari israeliani. Pensano che restituire la morte agli avversari sia un gesto patriottico. I coetanei israeliani che vogliono difendere la patria coltivano l’ambizione d’arruolarsi, una volta maggiorenni. Loro no: non esiste un esercito palestinese. Così, le ragioni nazionali si fondono a quelle personali in una miscela avvelenata» Quanti sono i suoi clienti? «Una ventina, maschi e femmine. Hanno un’età compresa tra quattordici e diciassette anni e nella maggior parte dei casi devono scontare l’ergastolo». Il sistema giudiziario non prevede benefici per il kamikaze-pentito? «Per il momento no. I tribunali non distinguono tra chi rinuncia volontariamente all’azione suicida e chi invece non riesce a portarla a termine per problemi tecnici. Seguo una ragazza che quattro anni fa aveva deciso di farsi esplodere in una città vicino a Tel Aviv per vendicare il fidanzato ammazzato in un target killing, uno dei cosiddetti omicidi mirati dell’esercito israeliano. Mi ha raccontato in seguito che quando è arrivata lì e ha visto per la strada le donne, i bambini, la gente comune, ci ha ripensato: la loro morte non le avrebbe restituito l’amore. Ha tentato allora di tornare a casa, ma l’hanno arrestata e condannata al carcere a vita». Perché qualche attentatore alla fine desiste? «Il motore del kamikaze è la disperazione, ma la decisione è paradossalmente razionale. Sembra incredibile, eppure tra i casi che conosco nessuno è stato veramente indottrinato: alcuni si sono addirittura organizzati autonomamente dopo essere stati rifiutati dai "reclutatori" ufficiali perché minorenni. Quelli che si fermano in extremis cedono all’emozione: pietà per le vittime, paura di morire, nostalgia di casa». Come si sente nel ruolo dell’avvocato del "diavolo"? «Non è facile, ma sin dall’esplosione della prima Intifada ho capito che dovevo farlo. Non approvo l’occupazione e l’unico modo che ho per non cedere alla tentazione di lasciare il mio paese è raccontare il punto di vista dei palestinesi. La giornalista israeliana Amira Hass per esempio, lo fa con i suoi articoli, io attraverso il diritto». Il ritiro da Gaza pareva poter disinnescare la violenza. Invece gli attentati sono ricominciati. Cosa ne pensa? «Gaza doveva essere lasciata in mano ai palestinesi, ma per ora gli aerei israeliani stanno ancora bombardando». Riuscirà il nuovo dream team Sharon-Peres a portare avanti il dialogo di pace? «Non ho alcuna fiducia in Sharon, l’uomo che con la passeggiata provocatoria sulla Spianata delle moschee ha scatenato la seconda Intifada. Confido un po’ di più in Peres che almeno sostiene da lungo tempo la soluzione due popoli in due stati». Segnaliamo anche il fatto che La Stampa pubblica due foto dell'attentatore, con le didasclaie: "Il futuro kamikaze all'età di dieci anni" e "Dieci anni dopo: Lofti Abu Saada è il terrorista che va a morire". Chiaro il tentativo di destare simpatia per l'assassino e di suggerire, in accordo con l'intervista di Francesca Paci e con una diffusa vulgata, che violenze e sopraffazioni devono essere intervenute per trasformare il mite bambino della prima foto nell'assassino-suicida della seconda. Completa l'opera la foto che mostra "La disperazione di Aminah Abu Saada, la madre del terrorista".
Ovviamente nessuna foto delle vittime (nemmeno di Haim Amram). L'unica immagine dell'attentato mostra due uomini al lavoro tra i detriti dell'esplosione, alle loro spalle una locandina pubblicitaria di capi di abbigliamento femminile, che trasmette un'immagine di ricchezza e lusso. Un altro modo per tentare di colpevolizzare le vittime ?
Analoga strategia è adottata da Roberto Bongiorni del SOLE 24 ORE nell'articolo "Attacco della Jihad a Israele" che inizia con un commosso necrologio del terrorista: Si chiamava Lufti Abu Saada. Aveva solo 20 anni, e i capelli biondi. Veniva dal villaggio palestinese di Ilar nei pressi della città cisgiordana di Tulkarem. E' lui l'ultimo, probabilmente solo in ordine di tempo - dei giovani kamikaze palestinesi. Lufti si è fatto esplodere alle 11.30 del mattino a Netanya, città costiera a 30 chilometri da Tel Aviv. Davanti a Hasharon, l'affolato centro commerciale colpito da un attacco suicida solo sei mesi fa Solo a questo punto veniamo informati che Il bilancio è di cinque morti e oltre trenta feriti, quattro in gravi condizioni. Nessuna informazione sull'identitaà delle vittime, né sull'eroismo di chi ha perso la vita cercando di fermare l'attentatore. Tantomeno sul fatto che i vigilanti non hanno sparato per non rischiare di uccidere un innocente. Questa parte della vicenda è al contrario raccontata con una scelta dei fatti e con un linguaggio tali da far sembrare il terrorista un uomo braccato da forze superiori, che alla fine riesce, in un gesto disperato, a portare a termine un audace attacco militare Braccato dalle guardie che presidiavano l'entrata, isolato, aLufti non è rimasto che premere il detonatore. Potentissima l'esplosione. Hasharon è tronato a tremare. Le vetrate sono andate distrutte. Inevitabile l'esecrazione preventiva della risposta israeliana alla strage, alla quale viene ovviamente equiparata: Altrettanto violenta si preannuncia la rappresaglia dell'esercito israeliano, deciso a sradicare le cellule armate dei movimenti estremisti Nella ricerca di eufemismi per "terroristi" si sta ormai raschiando il fondo del barile: "cellule armate dei movimenti estremisti" è sicuramente uno dei più lunghi e contorti mai letti.
AVVENIRE pubblica a pagina 5 una cronaca di Barbara Uglietti , "Kamikaze in Israele, riesplode il terrore" che inizia in modo francamente sconcertante: Che aria tirasse si era capito già la mattina presto, quando il ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz aveva ordinato la ripresa degli "omicidi selettivi", ossia le eliminazioni mirate degli estremisti palestinesi ritenuti particolarmente pericolosi. Misura presa in risposta, così spiegava il suo vice, Zeev Boim, ai continui attacchi con i razzi Qassam dalla Striscia di Gaza. Alle undici, l'esplosione di Netanya. Ecco una cronaca su un attentato terroristico che, contro qualsiasi regola del buon giornalismo, inizia cambiando argomento e collegando la strage(tra l'altro necessariamente preparata da tempo) alle dichiarazioni di Mofaz sulla necessità di riprendere le eliminazioni mirate. Il collegamento che la Uglietti vorrebbe istituire è esplicitamente morale (le esecuzioni mirate e la strage come espressioni di una medesima "aria" violenta) e implicitamente causale (la violenza palestinese come conseguenza di quella israeliana). In entrambi gli ambiti è palesemente infondato, e per lo stesso motivo: il terrorismo aggredisce, Israele si difende.
Michele Giorgio incomincia l'articolo "Israele, terrore a Netanya" con la descrizione delle misure di "rappresaglia", termine immancabile, decise dal governo israeliano. Si sarebbe dovuta dare prima la notizia dell'attentato. Giorgio non rinuncia poi a tacciare la barriera difensiva di inefficacia, nonostante la riduzione del 90% degli attentati riusciti e nonostante il fatto che al sua costruzione non sia ancora terminata. Interessante leggere su MANIFESTO la dichiarazione del pofessor Ziad Abu Amr, esperto di "movimenti islamici" all'università palestinese di Bir Zeit: "Il jihad di fatto non ha mai accettato il cessate il fuoco". Dunque quando Israele arrestava i suoi membri, impegnati nell'organizzazione di attentati, e ne conseguivano scontri a fuoco per la resistenza dei terroristi, non stava, come a lungo sostenuto dal quotidiano comunista "provocando". Si stava invece difendendo.
Ecco l'articolo: Cisgiordania e Striscia di Gaza chiuse, ripresa degli assassinii mirati di attivisti dell'Intifada (come chiesto dal ministro della difesa Shaul Mofaz) e della demolizione delle case dei congiunti degli attentatori. Sono queste alcune delle decisioni prese dal governo israeliano dopo l'attacco kamikaze di ieri mattina al centro commerciale Hasharon di Netanya, a nord di Tel Aviv, in cui sono rimaste uccise cinque persone e ferite oltre quaranta. Ne arriveranno altre nelle prossime ore, ha detto il ministro degli esteri Sylvan Shalom, che ha parlato di rappresaglia «dura che farà molto male». Si annunciano nuovi giorni difficili, di tensione, peggiori di quelli che normalmente già si vivono, specie nei Territori occupati palestinesi, a causa di quest'attentato rivendicato dal Jihad islami che ha detto di aver voluto rispondere ai raid militari israeliani che hanno preso di mira suoi attivisti. Ieri però a Netanya, sul terreno, c'erano i corpi di cinque israeliani innocenti usciti di casa per andare a fare acquisti. Persone comuni, vittime di un atto folle che, peraltro, danneggia ancora l'immagine del popolo palestinese. Proprio nel momento in cui ha bisogno di appoggi internazionali per contrastare i piani israeliani unilaterali, volti a negare l'applicazione delle risoluzioni dell'Onu, a consolidare la colonizzazione e a dimostrare che il muro in Cisgiordania è solo una «barriera di sicurezza» e non invece - come ha ammesso qualche giorno fa il ministro della giustizia Tzipi Livni - il futuro confine orientale di Israele segnato senza il consenso palestinese.
Già il muro, ferma tutti, a cominciare dalla vita dei civili palestinesi che se lo sono ritrovati a ridosso delle loro case, ma non gli attentatori suicidi. Quello di ieri, Lutfi Abu Saada, 20 anni, è giunto indisturbato a Netanya da Kufr Rai, vicino Tulkarem. Abu Saada è uscito da casa alle sei di mattina, senza informare i familiari dei suoi propositi. Lungo la strada alcuni miliziani del Jihad hanno provveduto a fargli raggiungere Netanya, distante una decina di chilometri. Il passaggio del muro non ha rappresentato un problema. Intorno alle 11.30 ha raggiunto il suo obiettivo e ha provato ad entrare nel centro commerciale dove avrebbe dovuto far esplodere l'ordigno (10 kg) che portava in una borsa. I suoi movimenti però hanno attirato l'attenzione dei passanti e in pochi attimi è arrivata un'automobile della polizia, mentre gli altoparlanti hanno avvertito i passanti del pericolo. Una delle guardie private lo ha individuato e spinto via con forza. Un atto che ha evitato un numero più alto di vittime. Abu Saada infatti ha fatto saltare la bomba che ha fatto a pezzi lui, ha ucciso il guardiano e altri quattro israeliani, ma non è riuscito a provocare una strage ancora più sanguinosa. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha subito avuto parole di condanna per l'attentato. Il presidente Abu Mazen ha anche ordinato alle forze di sicurezza palestinesi di individuare ed arrestare i mandanti. In serata Ariel Sharon ha inviato un messaggio all'Anp in cui insiste per il disarmo immediato del Jihad islami. «Il quadro interno palestinese si è ulteriormente complicato», ha detto al manifesto il professor Ziad Abu Amr, un docente dell'università di Bir Zeit esperto di movimenti islamici. «Il Jihad - ha proseguito - di fatto non ha mai accettato il cessate il fuoco (proclamato la scorsa primavera) dalle fazioni palestinesi e non esiterà a colpire ancora in risposta ai raid israeliani nonostante gli appelli dell'Anp, finendo per mettere in grande difficoltà Abu Mazen». Secondo Abu Amr lo stesso movimento islamico Hamas è scontento per quest'ultimo attentato. «Hamas ha imboccato la via politica - ha spiegato - e teme che la lotta armata del Jihad lo esponga adesso agli attacchi militari di Israele, nel momento in cui si sta preparando alle elezioni del 25 gennaio che consolideranno la sua forte influenza nella società palestinese».
Intanto ieri sera sono scoppiati scontri a fuoco a Jenin, nel nord della Cisgiordania, fra i servizi di sicurezza palestinesi e militanti dell'Intifada, durante una manifestazione. Le due parti si sono scambiate raffiche di mitra, senza conseguenze, in pieno centro cittadino quando il corteo è passato davanti alla sede dei servizi di sicurezza dell'Anp da dove un attivista del Jihad è riuscito ad evadere, nonostante fosse stato ferito alla mano da un colpo esploso da un agente di polizia.
In serata il sito internet del quotidiano israeliano Ha'aretz ha reso note indiscrezioni sulla rappresaglia ordinata da Mofaz: il ministro della difesa avrebbe intenzione di scatenare un'operazione militare su larga scala che - prendendo di mira soprattutto gli uomini del Jihad - potrebbe protrarsi per settimane o addirittura oltre un mese e interessare la Striscia di Gaza e l'intera area settentrionale della Cisgiordania.
LA REPUBBLICA pubblica a pagina 5 la cronaca di Alberto Stabile "Israele, tornano i kamikaze". Vi si legge di una "repressione feroce" del terrorismo compiuta da Israele nel corso dell'operazione "Muro di difesa": "parecchi uomini della Jihad", scrive Stabile, " morirono in scontri a fuoco con l´esercito e, si disse allora, almeno un migliaio di militanti palestinesi vennero arrestati".
Dove fu la "ferocia" in un'operazione difensiva mirata contro i terroristi ? Questi ultimi sono "uomini della Jihad" o "militanti"?
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