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La Repubblica Rassegna Stampa
02.12.2005 I teoremi di Giuseppe D'Avanzo
il giornalista che prova a convincerci che il terrorismo non esiste

Testata: La Repubblica
Data: 02 dicembre 2005
Pagina: 1
Autore: Giuseppe D'Avanzo
Titolo: «L'intelligence, i fatti eil dovere dei giornali»
LA REPUBBLICA di venerdì 2 dicembre 2005 pubblica un articolo di giuseppe D'Avanzo sul caso Daki, incentrato sul ruolo dell'intelligence nelel inchieste antiteroristiche.
Assumendo che sarebbe stato "dimostrato" che il gruppo curdo Ansar al Islam non abbia nulla a che afre nè con Saddam Hussein nè con Al Qaeda (quando? la sentenza su Daki non si occupano di queste, mntre le informazioni di intelligence e le opinioni degli esperti in merito rimangono) D'Avanzo spericolatemente conclude che il vero ruolo dell'intelligence nelle inchieste antiterroristiche è quello di trovare giustificazioni alla guerra irachena e di compiere operazioni di "politica interna".
Svelare queste immaginarie trame non provate sarebbe, secondo D'Avanzo, compito dei giornalisti che fanno "il loro mestiere".

Ecco il testo:

Senza un´informazione basata sui fatti, la libertà d´opinione diventa «una beffa crudele». I fatti sono la linea di demarcazione che separa inevitabilmente il giornalismo dalla politica e - molto spesso - costringe l´uno contro l´altra. La politica può vivere senza fatti e contro di essi. Può non tenerne conto. Può manipolarli o seppellirli nell´oblio o riordinarli con altre gerarchie e priorità. A volte può addirittura negarli perché la capacità di agire (la politica) e la capacità di mentire sono figlie della stessa madre: l´immaginazione. «Per fare spazio alla propria azione, qualcosa di preesistente deve essere rimosso o distrutto e così vengono cambiate le cose di prima». (Hannah Arendt).
E´ per questo che il più intelligente e spregiudicato dei neocon, Paul Wolfowitz, può sostenere che «mentire è più di una tecnica. E´, e rimane, politica». Infatti, è l´opinione e non la verità il requisito indispensabile di ogni potere. Se la menzogna è in qualche modo strumento accettato e condiviso per la politica, il lavoro del giornalismo è riportare la verità dei fatti nel dibattito pubblico, scovarla, offrirla, appunto, alla libertà delle opinioni. Non per una semplice (e, in questo caso, sterile) "moralità". Ma perché, senza la forza incoercibile dei fatti, senza la loro durezza e inevitabilità, la politica distrugge irrimediabilmente se stessa. Cancella Trotzkij dai libri storia. Nasconde Olocausto e Gulag. Dimentica la politica del Vaticano durante il fascismo.
I fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere. Per evitare l´annientamento dello spazio della politica, e quindi custodire se stessa, la democrazia prevede nel suo ordinamento costituzionale alcuni «rifugi della verità», protetti dai poteri politici e sociali – le università, le magistrature – e difende dal potere del governo la libertà di stampa e il giornalismo senza il quale, in un mondo che cambia, «non sapremmo mai dove siamo».
Il giornalismo italiano pericolosamente sta dimenticando il suo dovere di raccontare «dove siamo». Degradato a opinionismo, non guarda ai fatti, non li cerca, non vuole trovarli, non ne vuole tenere conto. Quando se li ritrova improvvidamente tra i piedi, li trasforma in opinioni. Screditata a opinione, la verità di fatto è vulnerabile, irrilevante. Accade in questi giorni nitidamente con una polemica nata dopo l´assoluzione di Mohammed Daki, ritenuto non colpevole di terrorismo. La Stampa si chiede: a se fosse stato un picciotto? Se Daki fosse un picciotto di mafia, dopo aver ammesso di «aver prestato l´indirizzo postale per i suoi permessi di soggiorno» a un tale che viene definito «una delle menti dell´attentato dell´11 settembre» (le menti dell´Attacco alle Torri hanno una curiosa tendenza a moltiplicarsi) non sarebbe stato condannato? E giù un pasticciato parallelo tra la legge contro il terrorismo internazionale (270bis) e la "legge La Torre" che, secondo Lucia Annunziata, permette alla lotta alla mafia «di espandere al massimo la sua capacità di intervento contro ogni forma di convivenza, anche la più labile». Naturalmente, la "La Torre" non c´entra nulla. Permette di inseguire i soldi della mafia e, per questo, impone al magistrato una maggiore responsabilità probatoria, non di aggredire anche «i labili indizi di connivenza». Questa magari è la porta lasciata aperta dal 416 bis (associazione di tipo mafioso). Ma è sempre vero, è per tutti vero? La Stampa non si accorge che, tra gli imputati indicati come vittime di quella legge, c´è un "eccellente" che è stato assolto (manco si chiamasse Mohammed Daki) da ogni accusa nonostante nella sua villa di campagna avesse trovato ricovero nientedimeno che un boss di Cosa Nostra. L´imputato non ne era a conoscenza, hanno concluso i giudici di Palermo. E se Daki non fosse stato a conoscenza che quel tipo era «una delle menti dell´11 settembre»? Per venirne a capo, bisognerebbe lavorare sui fatti, accertarli. Fare almeno la fatica di volerli conoscere. Lucia Annunziata non sa che farsene dei fatti. Ha soltanto opinioni o pregiudizi ideologici da offrire. Vuole difendere il pubblico ministero che ha messo dentro Daki.

Lo vuole difendere dalle parole di Daki che accusa di essere stato interrogato dagli agenti della Fbi, alla presenza del magistrato milanese, nel palazzo di giustizia milanese, in assenza dell´avvocato. Si chiede: «Con la libertà, Daki ha guadagnato anche il diritto ad accusare chi vuole?». Non crede che il suo lavoro sia ricostruire quel che è accaduto, se è accaduto. E´ il paradigma dell´opinionismo avere in tasca la verità prima di conoscere i fatti.
Ha lo stesso spirito, ma diversa materia la sortita del Corriere della Sera. Pierluigi Battista si chiede: «Cos´altro dovrebbe fare l´intelligence se non individuare la rete di complicità di cui i terroristi godono in tutto il mondo? Anche qui perché delegittimare il lavoro di un magistrato antiterrorismo che si avvale della collaborazione dell´intelligence?». Se si guardasse ai fatti, con occhi sgombri dall´ideologia, si troverebbe una strada da percorrere. Quel magistrato ha lavorato per anni con l´intelligence americana e, con l´entusiastico sostegno dell´informazione (tutta l´informazione), su un piccolo gruppo di curdi islamici che, a un certo punto, è stato presentato addirittura come «la cinghia di trasmissione che ha sostituito al Qaeda». Le ambizioni dei servizi segreti americani in quell´inchiesta erano esplicite: dimostrare che, in quel piccolo gruppo di terroristi si annodavano i legami tra Bin Laden e Saddam Husssein. La "pistola fumante" per andare a Bagdad. Semplicemente, non era vero. I fatti non sostenevano l´ipotesi (anche se l´inchiesta doveva far diventare l´ipotesi, un fatto). Ansar Al Islami non ha avuto legami né con Bin Laden né con il rais. Non è dunque legittimo cercare qualche fatto per capire che cosa è accaduto a Milano? Non è ancora più legittimo chiederselo quando c´è chi denuncia che, nel palazzo di giustizia, del tutto illegalmente (si potrà pretendere che almeno in un palazzo di giustizia le regole siano rispettate dagli addetti) un pubblico ministero lasciava interrogare un suo imputato, senza avvocato, da polizie straniere? Non è legittimo chiedersi quale distorsione il diritto penale subisca, soprattutto, se un altro indagato di quel magistrato viene sequestrato da agenti della Cia e quel magistrato definisce l´ipotesi che siano stati i servizi americani «una bizzarra dietrologia» senza muovere un passo in quella direzione, anzi incespicando in alcuni errori alquanto sconcertanti per un "segugio" di quella fatta?

Però, «più intelligence è più intelligence», scrive il Foglio senza ipocrisie, dov´è lo scandalo, perché scandalizzarsi? Se l´intelligence deve essere efficace, quelli sono i metodi. Siamo finalmente al punto chiave. L´obiezione è più onestamente cinica. Se si vuole restare nel territorio del giornalismo, ci si deve chiedere: bene, se l´intelligence deve rendere la nostra vita più sicura, sta facendo la cosa giusta, l´ha resa più sicura, lavora per questo, ha lavorato per questo la procura di Milano? Se si cerca qualche fatto, si trova che quei tipi dell´intelligence a Milano non avevano la preoccupazione di rendere più sicuri noi. Diciamo che non era la loro priorità. Volevano soltanto tornare a casa con in tasca la prova, attesa a Washington, che dietro l´11 settembre ci fosse Saddam. Naturalmente il problema è se la procura di Milano sia stata ingannata, si è autoingannata o ha ingannato, ma la traccia potrebbe sollecitare nuove curiosità. Del tipo, questi spioni in giro per il mondo a cui, noi impauriti e terrorizzati, abbiamo dato carta bianca, si dannano davvero per la nostra sicurezza? La verità dei fatti, che si può mettere insieme finora, racconta un´altra storia. Ci hanno sistematicamente ingannato. Ci hanno raccontato che Saddam Hussein aveva armi chimiche e biologiche e che sosteneva il terrorismo. Ci hanno detto che il dittatore di Bagdad aveva comprato uranio in Niger per farsi la bomba atomica. Ci hanno detto che, addirittura in 45 minuti, Bagdad poteva schierare armi di distruzione di massa. Ogni giorno ci dicono di un attentato imminente; che è nata una scuola di kamikaze in pieno centro; che da un deserto asiatico è partito un manipolo di assassini pronti a farci fuori qui, nelle nostre case. Non è vero, e cominci a credere che ci sia un nesso tra paura e politica; tra la manipolazione della paura del terrorismo e il rafforzamento del potere politico; che quel nesso può costituire la scena di un progetto molto moderno dove la "politicizzazione dell´intelligence" e la "creazione di un nemico" hanno un ruolo essenziale. Naturalmente, è vero che esiste il terrorismo islamico. Non è vero che tutte le risorse dell´intelligence siano state destinate allo scopo. Il meglio è stato impiegato a costruire una "menzogna politica" che consentisse l´intervento militare in Iraq; a pianificare una guerra psicologica. Non contro il nemico, ma destinata al consumo interno, alla propaganda nazionale, al condizionamento dei Parlamenti e delle opinioni pubbliche di cui bisognava conquistare «il cuore e le menti». Più che tentare di comprendere la realtà del nemico, l´intelligence ha finora costruito una realtà per noi (amici). Ce l´hanno fatta. Siamo imbozzolati in un terrore continuo, ma non per questo siamo più sicuri. Perché non lasciar perdere ideologie e manipolazioni, e afferrare, finalmente, la verità dei fatti di una storia che ci riguarda tutti? E´ questo il nostro mestiere.
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